Il testo che segue,
inedito fino al 2009, fu scritto (e in parte pronunciato) nel 1957,
quando John Fitzgerald Kennedy era deputato al Congresso degli Stati
Uniti d'America. JFK lo riprese in mano e tornò a lavorarvi da
presidente in vista di una riforma delle quote degli immigrati.
(S.L.L.)
L'11 maggio 1831
Tocqueville, giovane aristocratico francese, sbarcò nel caotico
porto di New York. Aveva attraversato l'oceano per cercare di capire
le implicazioni che il nuovo esperimento democratico in corso sulla
sponda opposta dell' Atlantico avrebbe avuto per la civiltà europea.
Per i successivi nove mesi, Tocqueville e il suo amico Gustave de
Beaumont percorsero in lungo e in largo la parte orientale del
continente, da Boston a Green Bay, da New Orleans fino al Québec,
alla ricerca dell'essenza della società americana. Tocqueville
rimase affascinato da ciò che vide. Fu sbalordito dall'energia delle
persone che stavano costruendo una nuova nazione, apprezzando le
nuove istituzioni e gli ideali politici. Ma, sopra ogni cosa, rimase
impressionato dallo spirito di uguaglianza che permeava la vita e le
usanze di quella gente. Pur nutrendo qualche riserva verso alcune
manifestazioni di quello spirito, riuscì a scorgerne i meccanismi in
ogni aspetto della società americana: nella politica, negli affari,
nei rapporti personali, nella cultura, nel pensiero. Tale dedizione
al principio di uguaglianza strideva con la società classista
europea. Eppure Tocqueville considerava quella «rivoluzione
democratica» irresistibile.
Ciò che Tocqueville vide
in America fu una società di immigrati che avevano cominciato una
nuova vita su un piano di uguaglianza. Era questo il segreto
dell'America: una nazione fatta di uomini che avevano ancora vivo il
ricordo delle antiche tradizioni e si erano avventurati a esplorare
nuove frontiere, uomini desiderosi di costruire da sé la propria
esistenza in una società in cui c'era posto per tutti e che non
limitava la libertà di scelta e di azione. In poco più di 350 anni,
si è sviluppata una nazione di quasi 200 milioni di abitanti,
popolata per la quasi totalità da individui provenienti da altre
nazioni o i cui antenati erano emigrati da altri paesi. Come ha
dichiarato il presidente Franklin Delano Roosevelt al congresso delle
Daughters of the American Revolution: «Ricordate sempre che
tutti noi, io e voi in special mondo, discendiamo da immigrati e
rivoluzionari». Tutti i grandi movimenti sociali lasciano
un'impronta, e la massiccia migrazione di persone nel Nuovo mondo non
ha fatto eccezione.
L'interazione tra culture
differenti, la forza degli ideali che spinsero gli immigrati a venire
fin qui, le opportunità che una nuova vita schiudeva, tutto ciò ha
conferito all'America un'essenza e un carattere che la rendono
inconfondibile e straordinaria agli occhi della gente oggi, come era
stato nella prima metà del Diciannovesimo secolo per Tocqueville. Il
contributo degli immigrati è visibile in ogni aspetto della vita
della nostra nazione: nella religione, nella politica, negli affari,
nelle arti, nell' istruzione, perfino nello sport e nello spettacolo.
Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di
immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il
tessuto della vita americana. Come ha detto Walt Whitman: “Questi
Stati sono il poema più ampio, / Qui non v' è solo una nazione ma
una brulicante / Nazione di nazioni”.
Per conoscere l'America,
dunque, è necessario comprendere questa rivoluzione sociale
squisitamente americana. È necessario capire perché più di 42
milioni di persone hanno rinunciato a una vita consolidata per
ricominciare da zero in un paese straniero. Dobbiamo capire in che
modo essi andarono incontro a questo paese e in che modo questo paese
andò incontro a loro e, cosa ancor più importante, dobbiamo capire
cosa implica tutto ciò per il nostro presente e per il nostro
futuro. Non vi è nulla di più straordinario della decisione di
emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e
pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi
legami e ai luoghi familiari, a solcare le scure acque dell'oceano
per approdare in una terra straniera. Oggi, in un'epoca in cui grazie
ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto
ciò che accade nell'altro, non è difficile capire come la povertà
o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese
per un altro. Ma secoli fa l'emigrazione era un salto nel buio, era
un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che
indussero i nostri antenati a quella decisione estrema - lasciare la
propria casa e intraprendere un'avventura gravida di incognite,
rischi e immense difficoltà - dovevano essere soverchianti.
Nel suo libro intitolato
Gli sradicati, Oscar Handlin descrive l'esperienza degli
immigranti: “Il viaggio sottoponeva l'emigrante a una serie di
emozioni sconvolgenti ed ebbe un'influenza decisiva sulla vita di
tutti coloro che riuscirono a sopravvivere. Fu questo il primo
contatto con lo stile di vita che li attendeva. Per molti contadini
era la prima volta che si allontanavano da casa, che uscivano dalla
sicurezza di piccoli villaggi in cui avevano passato tutta la vita.
Ora avrebbero dovuto imparare a trattare con persone completamente
diverse. Si sarebbero scontrati con problemi a cui non erano avvezzi,
avrebbero imparato a comprendere costumi e linguaggi stranieri, si
sarebbero industriati per affermarsi in un ambiente oltremodo ostile.
Come prima cosa, dovevano mettere da parte il denaro necessario per
il viaggio. Dopodiché salutavano i loro cari e gli amici,
consapevoli che con ogni probabilità non li avrebbero mai più
rivisti. Quindi cominciava il viaggio che dai villaggi li avrebbe
condotti ai porti di imbarco. Alcuni si spostavano a piedi; i più
fortunati trasportavano i loro pochi averi su carretti che poi
rivendevano prima di imbarcarsi. In certi casi facevano tappa durante
il viaggio lavorando nei campi per mangiare. Prima ancora di riuscire
a raggiungere i porti erano esposti alle malattie, agli incidenti,
alle intemperie e alla neve, e attaccati anche dai banditi. Una volta
giunti al porto, spesso dovevano attendere giorni, settimane,
talvolta mesi prima di imbarcarsi, contrattando con i capitani e gli
agenti il costo della traversata. Nell'attesa, vivevano ammassati in
stamberghe a poco prezzo a ridosso dei moli, dormendo sulla paglia in
stanzette buie, a volte in quaranta in uno spazio di tre metri per
quattro”.
Fino alla metà del
Diciannovesimo secolo gli immigranti viaggiavano a bordo di navi a
vela. In media la traversata da Liverpool a New York durava quaranta
giorni, ma all'epoca qualsiasi previsione era azzardata, poiché la
nave era esposta ai venti e alle maree, le tecniche di navigazione
primitive, l'equipaggio inesperto e la rotta soggetta ai capricci del
capitano. Per le imbarcazioni di allora, non così massicce, trecento
tonnellate costituivano una buona stazza, e tutte erano stipate di
passeggeri, dai quattrocento ai mille, in ogni angolo. Il mondo degli
immigranti a bordo della nave si riduceva alla stiva, lo spazio
ristretto sottostante il ponte, generalmente lungo trenta metri e
largo sette. Su molte navi le persone alte più di un metro e
settanta non potevano neanche stare in piedi. Lì vivevano giorno e
notte, ricevevano la razione quotidiana di acqua con l'aggiunta di
aceto e tentavano di sopravvivere con le provviste che si erano
portate per il viaggio. Quando i viveri finivano, si ritrovavano
spesso alla mercé dei metodi usurai dei capitani. Se ne stavano
assiepati in cuccette anguste e dure, dove quando venivano aperti i
boccaporti si gelava e si soffocava dal caldo quando erano chiusi.
L'unica fonte di luce proveniva da una fioca lanterna pencolante. Il
giorno e la notte erano indistinguibili, ma i passeggeri imparavano a
riconoscere gli infidi venti e i flutti, lo zampettio dei topi e il
tonfo dei cadaveri gettati in mare. Le malattie - colera, febbre
gialla, vaiolo e dissenteria- facevano strage: uno su dieci non
riusciva a sopravvivere alla traversata. Nei paesi che avevano
lasciato, gli immigrati in genere avevano un lavoro stabile.
Portavano avanti l'attività artigianale o commerciale dei loro
padri, coltivavano la terra di famiglia o il piccolo appezzamento
ereditato in seguito alla spartizione con i fratelli.
Solo grazie a
un talento e a un'intraprendenza eccezionali gli immigrati potevano
rompere lo stampo nel quale la loro vita era stata forgiata. Non
c'era uno stampo simile ad attenderli nel Nuovo mondo. Una volta
rotto con il passato, a parte i legami affettivi e l'eredità
culturale, dovevano fare affidamento esclusivamente sulle proprie
capacità. Erano obbligati a volgere lo sguardo al futuro, non al
passato. A eccezione degli schiavi neri, gli immigrati potevano
andare dovunque e fare qualsiasi cosa il talento consentisse loro. Si
apriva dinanzi a loro un continente sconfinato, non dovevano far
altro che collegarne le parti con canali, ferrovie e strade. E se non
fossero riusciti a realizzare il sogno per se stessi, potevano sempre
serbarlo per i loro figli. È stata questa l'origine dell'inventiva
e dell'ingegno americani, delle tante e nuove imprese e della
capacità di raggiungere il tenore di vita più elevato del mondo.
Sul finire del
Diciannovesimo secolo l'emigrazione verso l'America subì un
cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran
numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari,
austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove
tensioni. Per loro la barriera linguistica era ancor più
insormontabile di quanto non fosse stato per i gruppi che li avevano
preceduti, cosicché lo scarto tra il mondo che si erano lasciati
alle spalle e quello in cui erano approdati si approfondì. Si
trattava per la gran parte di gente di campagna, costretta però all'
arrivo in America a stabilirsi nella maggioranza dei casi nelle
città. Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little
Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti.
Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di
genitori italiani a New York che non a Roma. La storia delle città
dimostra che quando vi è sovraffollamento, quando la gente è povera
e le condizioni di vita sono pessime, le tensioni si inaspriscono. È
un sistema che si autoalimenta: la povertà e la delinquenza all'interno di un gruppo generano paura e ostilità negli altri; ciò, a
sua volta, impedisce che il primo gruppo venga accettato e ne
ostacola il progresso, protraendone così la condizione di
arretratezza. Fu in questa penosa situazione che si ritrovarono molti
immigrati provenienti dall'Europa meridionale e orientale, così
com'era accaduto ad alcuni gruppi delle prime ondate migratorie. Un
giornale di New York riservò ai nuovi arrivati italiani parole
impietose: «Le cateratte sono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte
sono incustodite. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata.
La feccia dell'immigrazione si sta riversando sulle nostre coste. Dai
serbatoi di melma del Continente la marmaglia di terza classe viene
travasata nel nostro paese».
Le leggi
sull'immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque,
dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al
mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza
tranquilla. Una tale politica non sarebbe che una conferma dei nostri
antichi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole di
George Washington: «Il grembo dell'America è pronto ad accogliere
non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma anche gli oppressi e i
perseguitati di ogni nazione e religione; a costoro dovremmo
garantire la partecipazione ai nostri diritti e privilegi, se con la
loro moralità e condotta decorosa si mostrano degni di goderne».
“la Repubblica”, 30
agosto 2009
Traduzione di Marianna
Matullo © Donzelli Editore 2009
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