Allontaniamoci per poco
dai ricordi di scuola (quanto mai imprecisi e tendenziosi quando
imprigionano gli avvenimenti della storia); dimentichiamo l'
agiografia del nostro Risorgimento, che ha fatto di lui un mito nero;
dimentichiamo anche la sassaiola di versi antiaustriaci di Giuseppe
Giusti, e perfino il solenne, potente esordio del Manifesto del
partito comunista ("Uno spettro si aggira per l' Europa: lo
spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa
e lo zar, Metternich e Guizot... si sono alleati in una santa caccia
spietata contro questo spettro"). Bisogna fare così, se si vuol
leggere con calma e obbiettività il libro che lo storico tedesco
Franz Herre ha dedicato al principe Klemens Wenzel Metternich,
ora tradotto in italiano da Bompiani (pagg. 333, lire 30.000). Per
quanto mi riguarda, devo però superare una ulteriore prova: il
fastidioso sottotitolo dell'edizione italiana (Considerò l'Italia
una espressione geografica"), che nulla ha a che vedere con il
sottotitolo tedesco ("Statista della pace"). Ma tant'è;
evidentemente i curatori italiani non si rendono conto che la frase
di Metternich, dedicata a quella che, nei primi decenni dell'
Ottocento, era, anzi, non era ancora l'Italia, aveva un senso
preciso, circoscritto e non del tutto infondato.
Se si prestasse poi
maggiore attenzione alle date (senza le quali il passato è soltanto
un fiume privo di argini), ci si accorgerebbe che il periodo centrale
e risolutivo del nostro Risorgimento (cioè la lotta dei liberali e
democratici italiani per l'indipendenza dall' Austria e per
l'unificazione della penisola), che va dalla prima (1848-49) alla
terza guerra di indipendenza (1866) non ha un rapporto diretto con la
persona e la politica di Metternich, essendo questi decaduto da
Cancelliere nel marzo 1848, durante l'insurrezione popolare di
Vienna, costretto all' esilio a Londra e a Bruxelles e morto nel
1859. Dunque, non separiamo e privilegiamo il problema italiano
rispetto a quello più vasto dell'Europa dell'età della
Restaurazione, che porta - questo sì - il segno profondo dell'azione
conservatrice e del moderatismo di Metternich.
Una visione politica, la
sua, analoga a quella di tutta la classe dirigente
aristocratico-borghese dell'Europa post-napoleonica: dalla Francia
alla Russia. E qualsiasi cosa possa essere accaduta nell'Europa
continentale dopo il 1815 (insurrezioni, guerre, moti patriottici
guidati da sette segrete, diffusione graduale dei princìpi
democratici, repubblicani, socialisti), di quell'epoca Metternich
rappresentò, per oltre trent'anni, la parola magica, il simbolo
ideale unificatore che fu la Restaurazione: un edificio politico,
sociale e ideologico piantato sulla roccia dell'Ordine, della
Legittimità del potere e del principio monarchico. Solide fondamenta
sulle quali soltanto poteva assestarsi, e permanervi sicuro, quel
diritto di proprietà tanto caro alla vecchia aristocrazia turbata
dalla rivoluzione francese, ed alla borghesia ricca, rianimata
dall'incalzante sviluppo della rivoluzione industriale e dalle
magnifiche speculazioni del capitalismo finanziario.
Dunque, per quanto odioso
ai carbonari italiani, a Mazzini e ai repubblicani francesi, ai
socialisti, a Marx e ad Engels, il progetto politico di Metternich si
svolse con una duplice funzione unificatrice: la prima, istituzionale
e politica, fu messa in moto durante il Congresso di Vienna
(1814-1815) del quale lo stesso Metternich fu animatore, capo
indiscusso, ospite sontuoso e amabilissimo; la seconda, sociale e
culturale, fu attivata per far comprendere anche alla borghesia di
essere partecipe di un universo di interessi comuni oltre che di
classe. Metternich ed i suoi collaboratori erano convinti, infatti,
che "con la loro posizione geografica, con l'uniformità delle
loro usanze, delle loro leggi, delle loro necessità, del loro modo
di vita e della loro cultura, tutti gli Stati di questo continente
formano una sola, grande unione politica che, non senza valide
ragioni, è stata chiamata repubblica europea". Naturalmente
tale convinzione, espressa da tanto sicuri conservatori, avrebbe
potuto appartenere, indifferentemente, anche ai liberali e non solo a
quelli contemporanei di Metternich, ma anche di un'epoca a lui
successiva. Cosa avrebbe potuto dire di diverso, ad esempio, un
Thiers, un Di Rudinì o il generale Pelloux (presidente del Consiglio
ai tempi della repressione di Milano del 1898) da quanto dichiarava
Metternich intorno al 1830: "Per me la parola libertà ha il
valore non di un punto di partenza, bensì quello di un reale punto
di arrivo; il punto di partenza è indicato dal termine ordine, il
concetto di libertà può poggiare unicamente sul concetto di
ordine".
Come dimostra la
interessante e documentata ricerca di Franz Herre, Metternich era
l'uomo del juste milieu, del moderatismo per così dire più
organico e razionale che si potesse allora immaginare. Non per niente
egli, che era nato nel 1773 in una zona della Germania prossima alla
Francia, sentiva di appartenere culturalmente all'età
dell'illuminismo e del dispotismo illuminato. Solo che la sua
avversione a Napoleone (era stato ambasciatore a Parigi nel periodo
aureo e imperiale di Bonaparte, tra il 1806 e il 1809) e l'incarico
di ministro degli Esteri dal 1809 al 1821, gli permisero di vedere
con chiarezza il pericolo mortale del sovvertimento "interno"
che Napoleone stava provocando nell'Europa delle antiche e grandi
monarchie, e di controllare poi le forme e le tecniche della
"ricostruzione" del vecchio regime attraverso gli accordi
di pace siglati al Congresso di Vienna.
Ma dietro l'intelligente
"ricostruttore" si celava la segreta vocazione di un
reazionario. Perché atti di reazione furono la costituzione della
Santa Alleanza e la dichiarazione del "principio di intervento"
militare laddove ci fossero fermenti rivoluzionari. Fu questa la
prima teorizzazione (immediatamente operante durante i moti di Napoli
del 1820-21) della dottrina della "sovranità limitata" che
noi abbiamo visto applicare in anni ancora recenti nell' Europa
orientale o nell'America latina. Dunque Metternich non è poi tanto
lontano da certi problemi del nostro tempo, non è un corpo celeste
sperduto negli spazi della Storia. Comunque, il sigillo poliziesco e
militare della Santa Alleanza, stipulata tra Russia, Austria e
Prussia, ha segnato Metternich, che di quel trattato fu senza dubbio
la mente politica. E fu lui ad alimentare, ne fosse o no pienamente
convinto, negli anni della Restaurazione l'immagine di un'Austria
"gendarme dell'Europa". Ma anche per questa sua
collocazione in un quadro storico così drammatico Metternich merita
di essere studiato e conosciuto a distanza ravvicinata.
Tuttavia, il ricordo di
Metternich non deve essere soffocato dalle idee politiche e dalla sua
lunga e decisa attività di governo. C'è dell' altro, nella
biografia di questo personaggio: una vera fioritura di sentimenti, di
emozioni e di comportamenti che possono sembrare inconsueti o,
comunque, lontani dal suo ritratto ufficiale. Metternich fu un uomo
bello e di notevole cultura; amò alcune tra le più splendide donne
d'Europa; ebbe tre mogli e fra le amanti predilette anche la sorella
del suo maggior nemico, Caroline Bonaparte (consorte di Gioacchino
Murat). Erede, sorridente e ironico, della settecentesca sensualità
e amoralità libertina, egli seppe sfuggire a ogni condizionamento
estetico dell'incombente moralismo sessuale del nuovo secolo.
Perennemente innamorato, diceva delle sue amiche: "Non mi
distolgono dai miei compiti, al contrario rafforzano il mio senso del
dovere, non infiacchiscono l'azione, ma la rendono più risoluta";
e sulla sua scrivania si trovavano spesso mescolati documenti
ufficiali elaborati a metà e lettere d'amore appena cominciate.
Su questa inclinazione di
Metternich mi raccontò, un giorno, un aneddoto il mio professore di
storia moderna: "Ad una amica della seconda moglie di
Metternich, che si meravigliava con lei di non vederla gelosa del
marito, questa rispose: "Conosco il mio Klemens; al mattino,
prima che vada in Cancelleria, gli tarpo le ali!"". E il
mio professore aggiungeva: "Forse non si rendeva conto, la
signora Metternich, che quelle ali al marito ricrescevano subito, e
perfette".
“la Repubblica”,13 luglio 1984
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