Nessuno ama le zecche. Essere definiti
«una zecca» è chiaramente un insulto. Le zecche, come si sa,
succhiano il sangue, sono dei parassiti. La parola che le definisce
nella nostra lingua viene dal longobardo zekka (in tedesco
oggi è Zecke e in inglese tick). Le zecche sono
Aracnidi come i ragni, ma non hanno tutti i lussi dei ragni
propriamente detti, come spiega Karl von Frisch. Non posseggono
infatti reti per la caccia, né letti sericei per le uova, non
applicano filtri d’amore alle dimore delle femmine, né possono
gettare vele per aria per spostarsi senza troppa fatica, non hanno
neppure ghiandole sericipare. Il posto che gli spetta tra gli
Aracnidi in verità è nel gruppo degli Acari, per altro assai ricco
di specie.
Gli acari vivono su qualsiasi buona
superficie: la pelle dell’uomo, il formaggio, la farina; ma ci sono
anche acari che prediligono piccoli insetti come cavallette, farfalle
e altri ancora. C’è persino un acaro che vive nei condotti
respiratori delle api e finisce per infettare interi alveari
sterminandoli. Si nutrono di fluidi, grazie a una faringe aspirante.
Le zecche sono parassiti ematofagi, dei
giganti nel popolo di nani degli Acari. Dato che non è così facile
e piacevole vederle, von Frisch le descrive brevemente: il corpo
privo di articolazioni, una testa mobile con una specie di colletto,
la proboscide con cui succhia, dalle qualità perforanti, che si
protende in modo minaccioso in avanti. Le femmine sono diverse dai
maschi per via di un ricco drappeggio sulla pelle, e sono molto più
voraci, per ragioni riproduttive, del sesso opposto o complementare.
Quando sono gonfie di sangue, la loro dimensione è quella di un
pisello. Se un uomo tentasse di gonfiarsi in modo analogo,
scoppierebbe ben prima di raggiungere una dimensione proporzionale.
Nelle femmine della zecca la pelle è estensibile perché corrugata:
una specie di piega, in definitiva.
Forse per questo piace così tanto a un
celebre filosofo francese, Gilles Deleuze, che alla piega ha dedicato
uno studio. In più occasioni Deleuze parla con entusiasmo della
zecca. La ragione dipende dal suo «carattere» ridotto. La zecca
risponde, o reagisce, solo a tre stimoli o «eccitanti»: l’odore,
la temperatura e il tatto. Sale su un filo d’erba, o un ramo,
attirata dalla luce, dice il filosofo in una conversazione, perché
richiamata dalla luce; poi lì aspetta per lungo tempo senza
mangiare, senza fare niente, completamente amorfa, fino a che non
passa un essere vivente; quindi si lascia cadere attratta da un
eccitante olfattivo. Una volta caduta sul pelo di un animale, un
mammifero in genere, che riconosce grazie a un organo sensibile alla
temperatura, cerca la zona meno coperta di peli, e spinta da un
eccitante tattile si ficca nella pelle e sugge: «Del resto non le
importa assolutamente niente. In una Natura brulicante, estrae e
seleziona tre cose...»
Deleuze ha tratto queste informazioni
da un naturalista tedesco, Jakob von Uexküll, considerato un
pioniere dell’etologia e dell’ecologia, autore di un libro
suggestivo, in cui parla, tra le altre cose, della zecca: Ambienti
animali e ambienti umani. Von Uexküll, che è stato amico di
Konrad Lorenz, nonché vicino al nazismo, definisce la zecca un
«brigante di strada, sordo e cieco ». Privo di occhi, questo
insetto si avvicina alla vittima attraverso l’olfatto, stimolato
dall’acido butirrico prodotto dai follicoli sebacei di tutti i
mammiferi; è questo acido a fornire alla zecca un segnale per
abbandonare la zona dove si è appostata, facendola cadere sulla
vittima (il cane, come sanno bene i padroni).
È il mondo della zecca ad attrarre lo
zoologo tedesco, che ha studiato anche i pesci ed è morto a Capri,
perché amava come altri suoi connazionali il Sud dell’Italia.
Questi racconta come presso l’Istituto zoologico di Rostock sono
state tenute in vita delle zecche digiune per 18 anni. Di certo gli
esseri umani non possono resistere così tanto tempo senza mangiare.
Secondo von Uexküll se la vita umana è composta da una serie di
istanti, ovvero segmenti temporali molto brevi, all’interno dei
quali il mondo non sembra presentare alcun cambiamento, in
quell’intervallo di tempo che è l’istante, scrive, «il mondo è
fermo». Per la specie umana questa brevissima durata può essere di
«un diciottesimo di secondo»; per la zecca, che attende il
mammifero su cui lasciarsi cadere, in uno stato simile al sonno,
questo istante può benissimo durare per 18 anni come nell’Istituto
di Rostock. Per questo ogni animale vive chiuso nel suo
mondo-ambiente. Il tempo appare come il contenitore per qualunque
avvenimento, ma anche l’unico elemento stabile nel continuo fluire
degli avvenimenti, ad esempio, umani. Per questa ragione Deleuze ama
le zecche? Probabilmente sì. La zecca è a suo modo un essere
bergsoniano.
Dal sito “doppiozero”, 5 luglio
2016
Nessun commento:
Posta un commento