L'articolo, in realtà un
breve saggio, acuto e brillante, è dichiaratamente la continuazione
di una antica provocazione, quella di costituire una associazione,
piccola e segreta, di appassionati di Jack London, vista la sua
emarginazione in italia e in Europa dai piani alti della letteratura.
Sull'argomento Placido aveva già pubblicato, tredici anni prima, un
articolo il cui testo ritrovate in questo stesso blog. (
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2015/09/jack-london-il-merito-di-scrivere-male.html
)
Perché non è nata per
davvero, poi, l'Associazione segreta Lettori d Jack London? Perché
non è stata costituita formalmente: con quella formalità sommessa
ma implacabile che le Società, le Associazioni segrete devono pur
avere? Perché: visto che si tratta di un' Associazione di innocenti
lettori: senza scopi di lucro o di potere: a fin di bene?
Quindici anni fa ci
eravamo andati molto vicino. Posso dirlo come testimone e come autore
della proposta. Quindici anni fa, introducendo per Savelli (un
editore romano alternativo che adesso non c' è più) Il richiamo
della foresta e altri racconti della febbre dell'oro (con cinque
domande a Giorgio Bocca, Savelli, Roma, 1975) avevo avanzato quella
proposta. Subito, erano giunte le prime adesioni. Prima fra tutte,
quella che considero tuttora la più lusinghiera e la più cara.
Sebastiano Timpanaro mi aveva scritto da Firenze per dirmi: guarda
che io e mia moglie siamo lettori appassionati di Jack London.
Mandaci la tessera, consideraci della partita. Sebastiano Timpanaro
mi dava del tu, senza conoscermi: era fatta. Sebastiano Timpanaro: il
grande filologo, classico e moderno, che vive schivo e appartato,
ammirato in Italia e all'estero.
Del resto, sapevo di
potermela permettere, una proposta come quella. Sapevo di poter
iscrivere d'autorità, fra i soci fondatori dell'Associazione, Lenin
e Trotskij: che avevano espresso apertamente, ripetutamente la loro
ammirazine per lo scrittore americano. Sul letto di morte, Lenin si
faceva leggere qualche pagina de L'amore della vita da Nadeva
Krupskaja. E ne chiedeva sempre qualche altra. Sapevo che Ernesto Che
Guevara si chiamava così in onore del vigoroso protagonista de Il
tallone di ferro: Ernest Everhard.
Sapevo anche per converso
che l'americanistica, nei cui ranghi avevo militato, anche
accademicamente, non guardava a Jack London con altrettanto amore. In
cinque anni di permanenza presso l'Istituto di Letteratura americana
dell'Università di Roma (fra il ' 70 e il ' 75) non mi ricordo di
una sola tesi di laurea su Jack London. Ci sarà pure stata, forse.
Sarà anche stata assegnata, e poi compilata e discussa, ma non me ne
sono accorto. Del resto, tutti sanno che Cesare Pavese aveva dedicato
a questo scrittore un solo e distratto accenno. Che Emilio Cecchi lo
detestava. Quel culto balordo, diceva, parlando della religiosità
popolare che c'era sempre stata, intorno a London. Che Elio Vittorini
lo tollerava soltanto. Che la mitica Americana di Vittorini e
Cecchi, l'antologia pubblicata da Bompiani a Milano nel 1942,
presenta un solo raccontino: Accendere un fuoco, ma quasi di
malavoglia. Con una nota di accompagnamento in cui si dice che London
aveva preso in prestito alcuni temi da Melville per renderli poi
addirittura triviali. Così i racconti di London sono sistemati.
Quanto alle opere più
grandi e più grosse: Nessuno dei suoi romanzi è particolarmente
notevole. Davvero? Nessun romanzo di London? Nemmeno Il tallone di
ferro, che Pudovkin e Gardin portarono in teatro e sullo schermo?
Nemmeno Martin Eden, che Majakovskij e Burljùk portarono sul
palcoscenico, nella Russia avanguardistica (prima e più ancora che
rivoluzionaria)? Ricordo di aver chiesto il perché di questa
freddezza della nostra cultura ufficiale a Giorgio Bocca; che
rispose, sempre per quel volumetto savelliano. E rammento,
rileggendo, che Bocca affermò: “Direi che London non appartiene
agli americani della Pivano o di Pavese per questi motivi. Gli
americani che piacciono alla Pivano o a Pavese sono degli scrittori
che restano uniti da un cordone ombelicale alla cultura europea; che
sono cioè, anche quando fanno di tutto per non sembrarlo, dei
letterati. London invece è americano dalla testa ai piedi: con la
rozzezza, l'ingenuità, il semplicismo dell'autodidatta americano”.
Ma se le cose stanno così
e stanno così, in parte, perché non si è mai pensato a Jack London
per risolvere l' annoso problema del Grande romanzo americano?
È un problema piccolo, d'accordo: fors'anche un po' buffo. Ma non ho
mai promesso di dedicarmi solo alle cose serie e intelligenti. Un
problema che si pone così: possibile che l'America, a differenza
delle nazioni europee, non abbia il suo Grande romanzo nazionale,
che la rappresenta immediatamente, integralmente? Perché non
possiamo proporre, come Grande romanzo americano, il combinato
disposto di quei due romanzi di Jack London che sono Il richiamo
della foresta (1903) e Zanna bianca (1906)? Due romanzi di
zanne e artigli, di città e di foreste, di uomini e di animali.
Diversi ma simmetrici. Nel secondo c' è la fascinazione della casa;
del ritorno al focolare domestico di un cane: Zanna bianca.
Nel primo c' è la fascinazione dei grandi spazi aperti, della fuga,
del ritorno alla natura di un altro cane: Buck.
E come gli animali, gli
uomini. L'Homo americanus è in continua tensione fra la
tentazione di fuggire, di muoversi, di esplorare, e il piacere di
tornare. Quel piacere di tornare a casa nel salotto regolare, in seno
alla sua regolare famiglia che il film hollywoodiano medio ha
esaltato. Costruendo un modello di cinema e di comportamento sociale.
Oppure: perché non
proporre, per il titolo Grande romanzo americano, quel Martin Eden
(1909) che è il romanzo americano più letto, più amato nel mondo?
Le Lettere di Jack London riempiono tre grossi volumi. In
apertura del secondo volume, che comprende le lettere dal 1906 al
1912, c' è una bellissima mappa di quel viaggio dello Snark che
London fece fra il 1907 e il 1908 (aveva poco più di trent'anni;
sarebbe morto, a quaranta, nel 1916). È il viaggio che fa da
premessa e da matrice a questi Racconti del Pacifico. E quindi
ci sono, nella mappa, le isole Samoa e Bora Bora. Le isole Marchesi,
e c' è Honolulu. Ci sono, insomma, le mitiche isole di Melville, di
Stevenson, che Jack London aveva voluto visitare. Nelle lettere, ci
sono le popolazioni indigene, che Jack London aveva voluto conoscere.
Quegli indigeni primitivi, dolenti, dignitosissimi che sono i
protagonisti di queste narrazioni. Leggete il primo, di questi
racconti: Chinago. Leggetelo adesso, subito. Dovunque vi
troviate. È un racconto breve, dopotutto. Su per giù, quindici
pagine. È il più bel racconto antirazzista che io abbia letto. Ma
dire antirazzista è un' affermazione riduttiva, di circostanza. E'
molto di più. E' la storia di un uomo: primitivo, dignitoso e
volenteroso che si chiama Ah Cho. Il suo destino si confonderà
drammaticamente, inevitabilmente con il destino di un altro indigeno
che si chiama Ah Chow, con la w finale. Ma chi volete che distingua
fra i due cognomi, se si tratta di indigeni? Ma chi volete che
distingua fra due indigeni, impegnati a lavorare nelle piantagioni?
Gli indigeni, i primitivi, si sa, sono tutti uguali. No, dice (anzi
racconta, e raccontando dimostra) Jack London. Gli indigeni sono
diversi, diversissimi uno dall'altro. E una w in un cognome fa una
gran differenza. Come da noi c' è differenza e quanta fra un signore
che si chiama Rossi e un altro che si chiama Rossini. Non ci
sogneremmo mai di confonderli l'uno con l'altro. Soprattutto, non ci
permetteremmo mai di accusarli, di giudicarli e poi di condannarli
l'uno al posto dell'altro.
E ancora vorrei segnalare
l'ultimo adepto (lo sappia o no, lo voglia o no) della nostra
Associazione. E' una donna. Quest' estate, per “il manifesto” del
22 agosto, ha scritto un lungo articolo saggio sul mito
filosofico-letterario della caverna. Comincia citando le pagine
freschissime, e incredibilmente penetranti, di Zanna bianca,
quando il piccolo lupo grigio si avventura verso la luce, fuori della
sua tana. Non saprei dire se Jack London conoscesse o no il mito
platonico della caverna, scrive Gabriella Caramore. Nemmeno io lo so
(credo di no). Ma questa sorprendente coincidenza mi autorizza a dire
che Jack London è malgrado tutta la sua americana modernità, uno
scrittore antico. Dagli scrittori antichi che forse non conosceva
affatto London riprende, e riformula, il tema del destino. Non è
vero che ci costruiamo da noi la nostra vita, come detta l'ottimismo
americano. Martin Eden ci ha provato a costruirsi la sua vita,
e il suo successo, da sé. Non c'è riuscito. Si è suicidato, alla
fine (sembra che si sia suicidato, alla fine, anche London)? Sembra
che il capitalismo che egli da americano ammirava sia solo
felicemente produttivo. È anche terribilmente espansivo. Nell'
espandersi trascura i diritti dei più deboli. Anzi, li ignora. Non
distingue più fra Ah Cho e Ah Chow. È un triste destino. Un
destino, comunque. Forse è questo che è sfuggito agli americanisti
come Pavese e come Fernanda Pivano. Ai quali rinnovo qui, ma so che è
superfluo, il mio devoto omaggio.
Cesare Pavese aveva
intuito, credo, una cosa importante. Che dietro le mitologie
letterarie americane modernissime in apparenza c'erano tensioni
mitologiche più antiche. E lui pensava a quelle classiche: di
scuola. Ma noi abbiamo la possibilità, e quindi il dovere, di
azzardare un passo più in là. La moderna mitologia letteraria
americana è ancora più remota. Nello spazio, se non nel tempo. Quel
West che è sempre presente, incombente in forma di mare o di pianura
o di foresta con la sua Wilderness aspra e selvaggia, è il deserto
della Bibbia. Il midbar: termine dentro il quale i finissimi
interpreti antichi leggevano in trasparenza, un altro termine
ebraico: dabar. Che vuol dire: parola. Perché? Perché nel
deserto (come nel West, come nella Wilderness) sei solo. E forse
disperato. Ma sei finalmente con te stesso. E con te stesso devi
parlare. È lì che ritrovi la parola; la parola importante. Se non
sbaglio, è proprio quello che accade ai personaggi uomini o cani che
siano di Jack London. Quando abbandonano la città, la civiltà; si
inoltrano nei deserti innevati dell'Alaska, alla ricerca magari di
una capanna perduta. E lì parlano finalmente con se stessi. Lì
esplorano la loro natura e il loro destino. Scoprono che il gran
guaio degli uomini (e dei cani, se è per questo) è di non saper
vivere da soli. E nemmeno in compagnia. Perché ogni società è una
società di cani, anzi di lupi. Affettuosi e feroci. Affettuosi,
qualche volta; feroci, quasi sempre. Ma emerge qui, in questi
racconti, specie in quelli dei lebbrosi, un altro tema antico,
antichissimo. Biblico anch'esso. Abbiamo dimenticato che la Bibbia fa
da fondamento alla cultura americana? Qualcuno se ne sta ricordando,
oggi. Qualcuno che scrive libri che si intitolano La geremiade
americana (The American Jeremiad di Sacvan Bercovitch, The
University of Wisconsin Press, 1978). Il tema dell'hesed,
parola ebraica antica sostanzialmente intraducibile. E già questo è
un brutto segno: per noi. Non abbiamo la parola perché non abbiamo
più il concetto. Significa pressapoco, e tutto insieme: solidarietà,
ascolto attento, affettuosa intelligenza dell'altro. Che è un altro
tenero e feroce. Ma fragile e prezioso. Come noi, del resto.
Non si deve confondere Ah
Cho con Ah Chow. Sono due persone diverse. Li distingue solo una
lettera una w? Ma è già tanto. È ciò che conta. Adesso so perché
non abbiamo formalizzato, a suo tempo, l'Associazione segreta Lettori
di Jack London. Perché non vogliamo. Non vogliamo uscire allo
scoperto (ogni associazione segreta prima o poi si fa scoprire).
Perché sappiamo che cos'è, come funziona la letteratura. La
letteratura, è stato detto non so da chi, ma benissimo è un
linguaggio clandestino che ci serve per comunicarci dei segreti.
Quando leggiamo Jack London vogliamo essere soli. Come i suoi
personaggi: sul mare, sulle nevi o in una capanna sperduta. Solo se
siamo soli, o isolati, possiamo comunicarci per vie misteriose,
imprevedibili dei segreti. Ci diciamo, leggendo London in solitudine,
che ogni uomo è un'isola come aveva ripetuto anche il suo allievo
Hemingway. Ma un'isola diversa da tutte le altre. Affetta da un
diverso, solitario destino. Così come sono diverse, diversissime fra
di loro queste isole del Pacifico. Che sembrano tutte uguali nei
dépliants delle agenzie pubblicitarie. Non so se siamo pochi
o molti, noialtri lettori di Jack London, ma ci conosciamo. Siamo
pochi, ma ci siamo.
“la Repubblica”, 6
gennaio 1990
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