ROMA - Due anni fa, un
sabato mattina, esaurite le fatiche di un'inchiesta per cui avevo
trafficato tutta una settimana in giro per Parigi, andai alla Sorbona
a sentire una lezione di Michel Serres, che avevo appena sentito
nominare. Fu una bellissima lezione su alcuni prodigi descritti da
Tito Livio, e ciò che mi colpì fu la qualità del linguaggio e
dell'esposizione: in un certo senso era come ascoltare uno scrittore
antico, un discorso infinitamente diverso dal normale discorso
filosofico francese, una prosa all'aria aperta, ricca di evidenze e
suggestioni, intensamente evocativa.
Ora Michel Serres (di cui
queste pagine si sono ripetutamente occupate), è venuto a Roma per
parlare di Roma, e coraggiosamente ha tenuto la sua conferenza nel
pomeriggio dei funerali di Enrico Berlinguer. Nel frattempo sono
andato a trovarlo all' Ambasciata di Francia, e me lo sono trovato lì
come me lo ricordavo: alto, asciutto, solido, con la bella faccia
squadrata e insieme puntuta, due intensi occhi da uccello, e armato
di una squisita cortesia. Molto diverso da un normale professore
francese.
Ho sentito dire, oppure ho letto da qualche parte, che lei
ha fatto il marinaio.
“E' vero. Nella mia famiglia c' era una tradizione marinara. Così a diciotto anni entrai alla Scuola navale, che forma gli ufficiali di marina".
“E' vero. Nella mia famiglia c' era una tradizione marinara. Così a diciotto anni entrai alla Scuola navale, che forma gli ufficiali di marina".
Non è una cosa
abituale per un filosofo...
"No. Però colui che
in Francia parlò per la prima volta di Freud era un ufficiale di
marina. Più tardi, navigai nell' Atlantico, nell'Oceano Indiano, nel
Mediterraneo. E quell'esperienza ha avuto una grande influenza su di
me. Dopo Sartre abbiamo avuto un attaccamento unico al linguaggio
filosofico: tutto avveniva dentro il gergo della filosofia. Per me
non è così: io sento molto il legame con le cose, coi paesaggi, coi
luoghi. Mi piace trovare le cose tra le cose, e non le cose dentro la
lingua".
E poi cos'è successo?
"Lasciai la marina
per ragioni per così dire politiche. Non accettavo più che la mia
vita fosse legata a qualche cosa che aveva a che fare con la guerra.
Nel 48-49 adottai un atteggiamento che oggi si direbbe da obiettore
di coscienza".
A quell'epoca la
filosofia francese era dominata, oltre che dall'accademia, da Sartre,
da Merleau-Ponty e dal marxismo.
"Sì. Il marxismo
era dominante, in forme molto diverse da quelle italiane. Althusser
fu mio professore tra il ' 52 e il ' 56, ma presto venni a trovarmi
in disaccordo con lui, soprattutto sulla questione della scienza. Non
capivo le sue teorie ipermarxiste su questo punto. Il fatto è che
nella marina avevo studiato matematica, ero soprattutto un
matematico, e i miei interessi andavano alla storia della scienza.
Come lei forse saprà, ho scritto un libro su Leibniz, cioè
sull'inventore delle matematiche moderne, e uno su Lucrezio,
l'inventore della fisica".
Ma agivano su di lei,
come a un certo momento qui da noi, influssi anglosassoni?
"No. In certo modo
mi sono formato da solo, sono un po' un autodidatta, ho costruito la
mia 'cosa' in solitudine, a partire dal problema della comunicazione
e delle macchine per calcolare, e all'insegna di Ermes, che per me è
il simbolo della scienza contemporanea".
In che senso?
"Nel senso che
Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della
comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io
ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di
quello della produzione, e che l'economia stessa fosse più una
questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di
quell'assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno
scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la
crisi".
Ma comunicazione che
vuol dire?
"All'inizio,
all'epoca dello strutturalismo, davo del termine "struttura"
un' interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo,
la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica,
finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell'informazione.
In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per
tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del
sapere scientifico (il che in Francia è raro), e insieme di non
dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules
Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza
e la letteratura, di passare dall'una all'altra. E' quello che
chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a
Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma
passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò
dovrebbe essere comprensibile".
In Italia c' è stata
una forte tradizione idealista e marxista. L' interesse per la
scienza tende a diventare scientismo.
"Come nel mondo
anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c'è spesso più
rigore che nella scienza. In Tito Livio c'è più epistemologia che
in Popper. Il mio sogno è di scrivere un'opera che compia la
riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di
D' Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre
soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del
concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve
percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di
scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione
culturale. E' come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col
cervello intero".
Ora sta scrivendo
qualche cosa?
"Un libro sui cinque
sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da
un sistema rigorosamente formale. È un tentativo di alleanza tra le
due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva
Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce
La crisi delle scienze europee?".
L' ho tradotta in
italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di "crisi"
di quell'idea e di quella tradizione. C'è il problema della
tecnicizzazione della scienza. E poi c'è la difficoltà della
estrema specializzazione dei settori scientifici.
"Sì. Nessuno
scienziato si occupa per esempio delle ripercussioni sociali e
culturali della scienza. Quanto alla difficoltà, di fatto, a un
certo momento, tutto il discorso scientifico si mette a girare
intorno a un solo concetto... In fondo, vede, il mio discorso è
morale: tutta la mia filosofia, il mio tentativo di alleanza, 03034 è
nato da Hiroshima, dall'anno zero della cultura occidentale".
All' inizio del suo
ultimo libro, questo che ho in mano, Rome, Le livre des fondations -
di cui sul nostro giornale ha parlato Pier Aldo Rovatti - lei dice
che, a un certo momento, fu espulso dal mondo filosofico francese...
"Già, è un ricordo
penoso, non ne vorrei parlare. Ancora adesso insegno non al
dipartimento di filosofia, ma a quello di storia. Sa, la filosofia
francese è dogmatica: bisogna essere o marxisti, o freudiani, o
strutturalisti, o idealisti. Io sono soltanto un autore che va per le
sue strade".
Per questo è
approdato a Roma?
"Da tempo voglio
fare un libro sulla fondazione antropologica della scienza, capire
che cosa è successo all' origine della scienza fisica. I greci si
occupavano di numeri e di categorie. Io vorrei risalire, da Lucrezio,
al Seicento, alla nascita di una scienza dell' oggetto concreto".
Ma che vuol dire
fondazione?
"Fondazioni.
Essenziale è il plurale. Roma è una comunità che torna sempre alla
sua fondazione. Se ne stacca, come una mosca che si allontana da un
punto, e poi ci ritorna, continuamente. Si tratta di ripercorrere
questo movimento. Forse nella storia agisce non soltanto la logica,
ma anche la probabilità. Forse vi agisce un accoppiamento mostruoso
tra l'ordine e l'aleatorio. È un po' un matrimonio tra Newton (la
legge) e Democrito (la vibrazione confusa degli atomi). All'inizio
del libro, come vedrà, introduco l'immagine delle termiti che
costruiscono un termitaio: sembra un insieme che si muove a caso e
tuttavia a un certo punto si organizza, acquista una forma...".
Questo ha a che fare
con quella parola arcaica che lei usa nel libro precedente e che è
"noise"? Che vuol dire "noise"?
"Come lei sa, oggi
noise in inglese significa rumore. Nel Medioevo, in francese,
noise significava chercher querelle. Come lo
tradurrebbe?".
Con "attaccar
briga".
"Ecco, nel senso in
cui lo uso io, noise vuol dire sia l'una che l'altra cosa. Il
disordine, il contrasto, il tumulto, e il rumore di fondo, il rumore
originario. Diciamo così: in Hegel il problema era: c'è una legge
nell'attaccar briga, nella contraddizione? Il mio problema è: c'è
un ordine a partire da quel confuso rumore di fondo? Il caso può
portare ordine nel sistema sociale? Legga qui, nella quarta di
copertina, l'ho scritta io...".
Leggo: "folle
romane infuriate, legioni sparpagliate nella pianura, contadini un
po' sbronzi in piena mietitura, mandrie di buoi al pascolo in riva al
fiume, la cavalleria nemica in piena carica, forze disseminate,
clamori, acclamazioni...". E poi: l' ordine romano. Sembra di
leggere un autore antico...
"Il mio tentativo è
di scrivere un' antropologia reale. I miti romani sono
straordinariamente profondi. Io vedo nel mito romano qualche cosa
come la scatola nera: descrivendolo si può sperare di dire tutto ciò
che si può dire quando non si sa".
La Repubblica, 15 giugno
1984
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