Un capovolgimento di
ruoli tra fotografo e realtà
Uno dei primi teorici
della fotografia, l'americano Oliver Wendell Holmes, diede una
definizione fulminante, e da allora citatissima, di quel dagherrotipo
che brevettato nel 1839 ha aperto la strada alle immagini fatte a
macchina: «Uno specchio dotato di memoria». Quando poi a quei
suggestivi ritratti racchiusi in una cornice di vetro e metallo
subentrarono nuove tecniche, fondate sulla produzione di un negativo
da stampare poi su carta, e si diffuse l’abitudine della fotografia
su cartoncino, sempre Holmes parlò di una «cartamoneta sentimentale
della civiltà», fatta soprattutto per passare di mano in mano, come
il denaro circolante.
Il selfie, l’uso
della fotocamera digitale o del cellulare per effettuare
autoritratti, che ha conosciuto agli inizi del XXI secolo una
diffusione straordinariamente rapida - secondo alcune fonti sarebbe
nato proprio nel 2001 o nel 2002, ma si tratta sempre di datazioni
piuttosto arbitrarie -, sembra assommare in sé tutte e due le
definizioni date allora da Holmes. Che il selfie sia una sorta
di prolungamento tecnologico dello specchio, destinato se non proprio
alla “memoria” futura quanto meno a prolungare nel tempo
l’istante spesso occasionale in cui è stato prodotto, non c’è
dubbio; un’immagine in cui ci riconosciamo non tanto perché ci
rassomiglia quanto perché è stata prodotta nel nostro display da un
nostro gesto, e perché farla è stata un nostro divertimento. Ma è
altrettanto evidente che il selfie sarebbe un fenomeno ben
diverso, e non esisterebbe nella forma in cui oggi lo conosciamo,
senza la vorticosa messa in circuito dell’immagine anche la più
privata, che passa naturalmente per i social network, ma anche
per email e What-sapp. Un circolante non tanto “sentimentale”
quanto scherzoso e narcisistico, come tanti dei contenuti che vengono
immessi nella rete.
Se dal tempo di Daguerre
in poi la retorica dominante della fotografia è stata espressa dalla
parola stessa che definiva l’occhio della macchina, l’obiettivo,
la depersonalizzazione dello sguardo imposta dall’intervento della
macchina (e l’“obiettività” attribuita al mezzo è alla base
del valore di prova largamente riconosciuto alle sue immagini), con
l’avvento del selfie si è venuta imponendo una simmetrica e
opposta retorica della soggettività: la fotografia non come
documento di realtà “catturate” dalla macchina dal punto di
vista del suo proprietario, ma come prova della realtà del fotografo
dal punto di vista della macchina. Questo ci aiuta a capire
l’ossessione del “farsi un selfie” con i personaggi famosi, che
ha preso il posto di una passione rimasta viva per tutto il corso del
Novecento, quella dell’autografo. Se prima a prevalere erano la
passione collezionistica del possesso e quella feticistica della
traccia, ora siamo alla celebrazione della compresenza, con il
display come testimone e la rete come circuito senza il quale quella
celebrazione sarebbe priva del suo rito.
Ma c’è un’altra
forma di rappresentazione tecnica e fotografica della soggettività
che sta emergendo. Se la GoPro, nata nel 2002 da un’azienda di
piccole dimensioni e pensata soprattutto per l’ambito di nicchia
degli sport “di vertigine” moderni a cominciare dal surf, è
diventata in pochi anni un nome noto in tutto il mondo e ha dato vita
a un modello nuovo di apparecchio, quello delle cosiddette “action
cam”, questo non è dovuto soltanto al fatto che si tratta di
un piccolo prodigio di tecnologia a un prezzo accessibilissimo, ma
anche al fatto che porta con sé, letteralmente, il mondo in
soggettiva. Dove il soggetto-autore a differenza del selfie
non è visibile, ma al centro c’è l’esperienza irripetibile
fissata da un terzo occhio, da una sorta di telecamera di
sorveglianza dove siamo noi la telecamera. Non solo il prolungamento
del nostro sguardo, ma di tutto il nostro corpo.
Il selfie e l’action
cam: sono due protesi tecnologiche dell’io apparentemente molto
diverse, una aperta a tutti gli apparecchi capaci di fotografare, a
cominciare dal telefonino, l’altra riservata (per ora) a specifici
apparecchi; una allude al narcisismo elementare, infantile, del
guardare la propria immagine, l’altra a quello più adolescenziale
del mostrare la propria prestazione; una porta con sé, proprio per
attenuare il narcisismo, un elemento quasi ineliminabile di
giocosità, l’altra può prendersi terribilmente sul serio fino a
correre veri rischi per documentare una prodezza. Ma come spesso
accade c’è a unirle qualcosa che classicamente si chiamerebbe “lo
spirito del tempo”: che sta rovesciando, magari inconsapevolmente,
i modelli su cui la fotografia si era basata per più di un secolo e
mezzo.
“Il Sole 24 Ore”, 5
giugno 2016
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