Si può fare a pezzi la
propria moglie subendo una pena irrisoria e continuando a sentirsi un
galantuomo e un esteta? Oggi forse no: e se dico forse è perché la
storia degli assurdi giudiziari è purtroppo lontana dal concludersi.
Nel 1904, comunque, si poteva. Risale infatti a quell'anno la
composizione del memoriale di Alberto Olivo riesumato in questi
giorni dalle edizioni Bollati Boringhieri con il titolo Ira fatale
- Autobiografia di un uxoricida (pagg. 153, lire 16.000). È
un'opera insolita non soltanto per il suo significato giudiziario, ma
anche perché apre uno spioncino su certi aspetti amari della Belle
Époque.
La via Manzoni a Milano nel 1903 |
Se mai si poté parlare
di libro scritto di getto, è questo il caso. L'autore si accinge
alla sua fatica il 24 giugno 1904; il 4 luglio ha finito. L'altra sua
incombenza l'eliminazione della moglie Ernestina Beccaro risale al 16
giugno 1903. Quando scrive l'autobiografia, Olivo è già in libertà
da un paio di settimane, assolto e felice. Questo uxoricida-narratore
è insomma l'opposto esatto d'un pentito. Non è solo autoindulgente,
è anche vanitoso.
Quarantottenne, nato a
Udine in una famiglia povera e poi trasferitosi a Milano, impiegato
alla Richard Ginori, si considera un uomo di cultura. Il suo libro
trabocca di richiami letterari: sedici citazioni da Dante, sette da
Manzoni, tre da Petrarca, due da Foscolo, due da Giuseppe Giusti e
una ciascuno da Schiller, Vincenzo Monti e Lorenzo Stecchetti.
Seguono tre poesie dello stesso Olivo, deprimenti. Di latino ne
mastica poco, ma non rinunzia a citare, spropositando. L'ambizione
culturale, insomma, lo divora: e in questo senso l'etichetta di
narratore naif che ora si tenta di applicare all'autore di Ira
fatale risulta incompleta. Si tratta, tutt'al più, di un naif
del genere pomposo. Quanto di peggio. Alla smania di poetare Olivo
accoppia la passione per la matematica. Sognai, confessa, la gloria
letteraria e scientifica. Sogno non disgiunto da quei princìpi di
sana morale, di onestà, di probità, di carità del prossimo, di
amore al sapere e al lavoro che devono essere la base di ogni
religione, il catechismo di ogni uomo dabbene, il fondamento di ogni
società civile. Per lui letteratura, scienza e religione vanno d'
accordo. E l' anima? Altro non è che la corrente elettrica che si
svolge nel nostro organismo.... Un' insalata di umanesimo e
positivismo spiccioli, in salsa edificante.
Ma questo istruito,
virtuoso, moralista e raziocinante Olivo non ha accoltellato e
sminuzzato sua moglie? Questo è il punto. Dovrebbe esserlo. Però il
memoriale indugia ad arrivarci. Sorregge la narrazione una surreale,
verbosa, enigmatica follia. Olivo è matto? Ci è (si direbbe a Roma)
o ci fa? Ciò rimarrà controverso fino all' epilogo del caso. E
anche dopo, per noi posteri. Quando conosce Ernestina, Alberto Olivo
ha trentanove anni. Lei venti e mezzo. È molto bella. S'è trovata
in procinto di venire travolta dai vortici della prostituzione e, se
non travolta, ne è stata lambita. È allora che Alberto, mezzo poeta
e mezzo matematico, facendo sua la ragazza diventa un filantropo
intero. Veste (come dire?) la divisa del sollevatore dal fango.
Senonché, Ernestina non si lascia sommergere dalla gratitudine.
Perché Alberto la sposi si atteggia a brava cuoca e donna di casa.
Ma subito dopo le nozze (lascia intendere Olivo) è come se in lei il
tarlo postribolare si rimettesse all'opera. Pettegola, spendereccia,
vendicativa e violenta, Ernestina fa nascere nel marito il sospetto
che voglia sopprimerlo. Come? La ragazza verserebbe nel vino che gli
porta a tavola il proprio sangue mensile nella speranza di promuovere
un'infezione e una malattia: il che sembra una stupidaggine
disgustosa. Meno irreali appaiono i sospetti di avvelenamento,
connessi a una tresca che Ernestina intratterrebbe con un giovane
medico, presunto fornitore di sostanze letali. Comunque, non se ne fa
nulla.
La giovane sposa che qualche volta si sottrae ai doveri
coniugali trova il marito vecchio e brutto e per di più segaligno,
spilorcio, avaro. Quanto al brutto, passi. Tous les maris sont
laids, diceva (come forse Olivo ignora) Montesquieu. Ma avaro!
Alberto ama piuttosto considerarsi uno spenditore matematico. E si
abbandona a un noiosissimo delirio contabile. Dal primo gennaio 1895
al 30 aprile 1903, riferisce, io guadagnai
ventunmilaquattrocentoventisette lire, delle quali duemilaottocento
andavano spese in affitti e traslochi, e duemilasettecento circa
furono investite in mobilio; talché quindi
quindicimilanovecentoventisette furono divorate dalle spese di
mantenimento, il che porta la spesa totale a lire
ventunmilaottocentoventisette.... Va avanti a lungo.
Oltre ad essere
avaro e noioso, Alberto è animato da un granitico maschilismo
d'epoca. Crede in alcune norme basiliari che ripete, quasi in
extremis, a Ernestina: “Il Codice dice che la moglie deve star
soggetta al marito, lo deve seguire dappertutto, gli deve obbedienza
e rispetto... Sei avvertita: e uomo avvisato... con quel che segue”.
Quel che seguì fu
atroce. Olivo era in linea con i suoi tempi. Ernestina li precorreva.
Fu questo a perderla. Si susseguirono alterchi nel corso dei quali
lei usò epiteti che oggi in verità farebbero sorridere gli
spettatori di Mixer-cultura: rompiscatole, impostore, vigliacco,
porco, stupido (mi vomitò in faccia la parola stupido!!!). La serie,
purtroppo, culminò nell'espressione quella vacca di tua madre.
Allora più di oggi, di mamma ce n'era una sola: quella di Alberto,
per giunta, era morta. Tutto ciò accadeva il giorno 16 giugno 1903.
L' ultimo giorno della ventottenne Ernestina. Più che dal racconto
di Olivo, i particolari dell' uxoricidio emergono dal resoconto del
primo processo, che si celebrò fra il 31 maggio e l'11 giugno 1904.
Rapido nell' uccidere sua moglie a coltellate, Alberto sarà assai
pacato nelle incombenze successive. Per quattro giorni convivrà (se
il verbo è adatto) col cadavere. Solo il cattivo odore lo indurrà a
procedere oltre, nei modi che desumo dalle attente Notizie
supplementari che Ermanno Cavazzoni pubblica in calce al libro.
L'assassino vuota il torace della donna, ne scarnisce le ossa e butta
le più piccole in ciò che oggi chiamiamo il water. I pezzi più
grossi li chiude in una valigia. Dopo vari altri giorni raggiunge
Genova. Lì noleggia una barca con un barcaiolo ai remi, e getta a
mare il contenuto del suo bagaglio: un grosso pacco avvolto in carta
blu. Ernestina è tutta lì. Saranno questi resti, venuti a galla, ad
accusarlo. Lo arrestano. Dopo un anno di custodia preventiva, per
Olivo il processo è un trionfo. La difesa sostiene l' infermità
mentale, che l'accusa nega. La giuria popolare si comporta in modo
strano solo in apparenza. Esclusa la follia, assolve l'imputato dal
delitto di uxoricidio, infliggendogli undici giorni di carcere e 135
lire di multa per sottrazione e scempio di cadavere. Olivo se ne
torna a casa. L'accusa ricorre in Cassazione, ma nel dicembre 1904 un
nuovo processo rende l' assoluzione definitiva. Se il movimento
femminista disponesse di un proprio archivio, il caso Olivo ne
sarebbe il pezzo forte, nella sezione mostri storici. Maschilismo,
perbenismo, ipocrisia sociale: nel perdono elargito all'uxoricida c'
è tutto. Il messaggio che emerge dalle due sentenze è chiaro: Olivo
non è matto; matto sarebbe se non l' avesse uccisa, quella
donnaccia. È, in fondo, la logica del delitto d' onore, un'infamia
dalla quale solo di recente la nostra civiltà giuridica s' è
liberata.
Cesare Lombroso |
Su tutta questa storia di
ottant'anni fa aleggia lo spirito di Cesare Lombroso. E' lui lo
studioso e il consigliere di Olivo, il quale anche come scrittore
lombroseggia. Ma, durante il caso, il criminologo cambia più volte
idea. Ha esordito coprendo Olivo di elogi ingegno acutissimo,
mente lucida e sostenendo che non di un delinquente si tratta, ma
di un semplice criminaloide. Ha proseguito affermando che la
iracondia morbosa epilettica che lo ha spinto al delitto è stata
provocata dal contegno di Ernestina, epilettica a sua volta (il vero
assassino è sua moglie: lo stesso Olivo se ne convince,
insensatamente). Poi, parlando come perito nel processo conclusivo,
Lombroso ha dipinto l'uxoricida come un povero matto. Finirà per
criticare la sentenza: avrebbe preferito per l'imputato il manicomio
criminale a vita. Ma ormai l'enigmatico Olivo è quasi beatificato.
In aula (racconta Cavazzoni nella sua appendice documentaria) le
signore eleganti lo applaudono. Lui piange di gioia. Un solo nemico
gli rimane: la stampa, assai critica verso il verdetto. Se servisse a
qualcosa, a quegli antichi colleghi grideremmo: “Bravi!”.
“la Repubblica”,14
maggio 1988
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