Nella Casa Buonarroti di
Firenze è in corso (fino al 10 ottobre 2016) una mostra dedicata a
Matilde di Canossa. Posto qui la presentazione che ne ha fatto Carlo
Bertelli su “La lettura” del Corsera. (S.L.L.)
Matilde di Canossa in un bronzetto del Bernini |
Perché una mostra
dedicata a una grande figura del Medioevo si tiene proprio nel
santuario di un protagonista del Rinascimento? Ce lo dichiara, in
mostra, la Vita di Michelangelo scritta da Ascanio Condivi e
pubblicata nel 1553, quando Michelangelo era ancora vivo.
Michelangelo, vi si legge, «ebbe l’origine sua da’ conti di
Canossa, donde ne nacque la contessa Matilde, donna di rara e
segnalata prudenza e religione». In parte la mostra è
dedicata al mito di Matilde, che include l’ipotesi, da tempo
coltivata, che la Matelda che accoglie Dante alle soglie del Paradiso
Terrestre sia la contessa di Canossa, il cui corpo, da San Benedetto
Po dov’era sepolto, fu trasferito da Urbano VIII in San Pietro nel
1632 e posto in una tomba sormontata da una statua del Bernini.
"Tuetur et unit", ovvero «protegge e unisce», fu il motto che
accompagnò la figura del melograno nell’araldica di Matilde di
Canossa. Ed ecco allora che in un dipinto di Orazio Farinati
(1559-1616), venuto da San Benedetto Po, l’abbazia del Polirone
carissima alla contessa, Matilde — ammantata di rosso e con il
melograno d’oro nel pugno — cavalca un bianco destriero con
finimenti rossi e oro. Altre volte è un suo «ritratto»,
tradizionalmente attribuito al Parmigianino, che però copia
un’invenzione della fine del Trecento o dell’inizio del secolo
seguente.
Dalla Biblioteca Vaticana
è qui esposta la Vita della contessa, scritta prima del 1115
dal monaco Donizone (pubblicata da Jaca Book) nel monastero di
Sant’Apollonio a Canossa, un vero capolavoro della miniatura
italiana dell’età romanica. In grandi e franchi disegni a penna
campiti di colori decisi, sfilano gli antenati di Matilde, dal
marchese Tedaldo fino a lei. Hanno abiti preziosi, descritti con una
estrema attenzione ai particolari, siedono t alvolta su troni
sontuosi o, se stanno in piedi, i ricchi manti ne chiudono i corpi
come corazze. Beatrice e Bonifacio sono ciascuno in trono, mentre una
composizione di tre archi, una vera architettura romanica, accoglie
Attone e Ildegarda con i loro txe figli, ossia il vescovo di Brescia
Goffredo, Rodolfo, Tedaldo.
Anche Matilde è
rappresentata in trono. Siede su un trono diverso dagli altri, poiché
è coperto da un baldacchino regale, e a una regina può essere
comparata effettivamente la contessa cui il monaco Donizone offre il
codice che narra la sua vita.
La sontuosità dei troni
e degli abiti, le corone di Beatrice e di Matilde contrastano con
altre dichiarazioni di umiltà di Matilde, la quale amava firmarsi
con il nome Mathelda iscritto in una croce e il titolo dei gratia
si quid est, «per grazia di Dio, quello che è».
Il codice di Donizone
ebbe tale autorità che le sue composizioni furono a loro modo
«aggiornate» nel Trecento nei monumentali disegni che illustrano
gli Atti della contessa in un magnifico codice qui esposto.
Lontano dalle
celebrazioni, un posto a parte occupa il codice proveniente dal
monastero di benedettine di Admont, in Austria, già appartenuto a
sant’Anseimo d’Aosta, vescovo di Canterbury. Si tratta di una
raccolta di preghiere e di meditazioni scritte a sant’Anselmo, tra
le quali ne segnalo una intitolata Quando l’anima intende
rivolgersi a Dio, espressione toccante della nuova sensibilità
che accompagnò il coraggioso movimento di riforma della Chiesa
strenuamente guidato da Matilde di Canossa e Gregorio VII.
Nel contrasto con
l’imperatore, che si sarebbe risolto solo nel 1125 nel concilio di
Worms, si affinavano le armi di un’arte che, in Italia, trovava una
rinnovata ispirazione nei monumenti dell’età paleocristiana. Era
l’arte della riforma gregoriana. Roma acquistava una nuova
centralità e gli artisti romani si facevano araldi di un’arte
raffinata che traduceva in discorso lineare e coerente i modelli
dell’antichità. Maestri romani ne troviamo dappertutto. A Colonia,
in Borgogna, tra le pagine di un codice di Cluny con la vita di
sant’Ildefonso, conservato a Parma, e nel meraviglioso salterio del
Polirone, dall’archivio municipale di Mantova, che nelle due
miniature a piena pagina si rivela opera di un maestro romano, mentre
nei numerosi, minuti disegni che costellano il testo maestri lombardi
intervengono a commento teologico dei salmi.
Anche se Matilde non
riuscì a dominare pienamente le grandi città del suo vasto
territorio, tanto che nel 1081 Gregorio VII dovete scomunicare il
vescovo Eriberto di Modena, che nutriva simpatie per l’impero,
tuttavia eccezionale monumento dell’età matildina è la «relazione
sull’innovazione della cattedrale di Modena», un codice conservato
nell’archivio capitolare che, in scenette argute, racconta passo
passo le vicende della costruzione sotto la guida dell’architetto
Lanfranco e l’aiuto d’un inatteso miracolo di san Geminiano.
Esplode qui il gusto della cronaca con cui si apre un’età nuova.
Nelle sculture di
Wiligelmo, trasferite in seguito sulla facciata del duomo, sono i
gesti espressivi dei progenitori a condurli nell’attualità dei
costruttori di cattedrali. Si era capito che si poteva intendere una
storia millenaria nella sua umana verità. Il gusto del racconto si
nutriva della novità delle prime chanson de geste, ma anche
di una rilettura quasi quotidiana della Bibbia.
Un aspetto fondamentale della riforma era infatti la riedizione della Bibbia in codici di grande formato, e perciò detti «atlantici», che i riformatori consegnarono ai monasteri riformati perché l’intera Bibbia fosse letta nel circolo dell’anno. La scrittura è stupefacente per la regolarità quasi tipografica e poche iniziali, con ornati gcomctrici, ravvivano i candidi fogli di pergamena. Era appunto questa la chiarezza auspicata dai riformatori.
Un aspetto fondamentale della riforma era infatti la riedizione della Bibbia in codici di grande formato, e perciò detti «atlantici», che i riformatori consegnarono ai monasteri riformati perché l’intera Bibbia fosse letta nel circolo dell’anno. La scrittura è stupefacente per la regolarità quasi tipografica e poche iniziali, con ornati gcomctrici, ravvivano i candidi fogli di pergamena. Era appunto questa la chiarezza auspicata dai riformatori.
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