7.10.10

"Paese con figure" di Leonardo Sciascia (da "Galleria" - gennaio 1950)

Questo Sciascia è tra i più “antichi” che mi è capitato di leggere, vicino nel tempo alla Favole della dittatura. E’ una pagina pubblicata su “Galleria”, la rivista nissena di Salvatore Sciascia nel 1950, con un titolo da pittore Paese con figure. Parte – credo - da una sollecitazione leopardiana, giovanile, la nota lettera a Pietro Giordani in cui denuncia la miserabilità umana e intellettuale del “natìo borgo selvaggio” e alla consolazione del “mal comune” propostagli dal Giordani risponde che, se Alfieri amava Asti e Plutarco Cheronea, ma senza abitarvi, anche lui avrebbe amato Recanati, il giorno in cui sarebbe riuscito a fuggirne. Sciascia, a quel tempo, da Caltanissetta era tornato a vivere a Racalmuto e a fare lì il maestro.
Così comincia il suo bozzetto: “Quando saremo lontani da questo piccolo paese in cui siamo nati e viviamo, quando finalmente ci sentiremo nascere dentro amore e nostalgia per le cose che oggi ci circondano e mortalmente ci annoiano…”. Un curioso “straniamento” caratterizza questa scrittura: il punto di vista scelto è quello dell’autore, ma è proiettato lontano dall’oggetto della rappresentazione, in un altrove e in un domani indeterminato. I risultati artistici mi paiono notevoli, anche perché, nel caso, la distanza artistica non elimina l’aggressione critica. Sciascia, come farà poi, compiutamente, ne Le parrocchie di Regalpetra strapazza anche in Paese con figure quel mondo che ama, ma il procedimento artistico è diverso e trasforma le persone in “personaggi”, in “macchiette”. Solo l’apparizione finale del “matto del paese”, profetico come spesso sono i matti, restituisce all’insieme problematicità, illuminandolo d’una luce sinistra. (S.L.L.)
Racalmuto con il monumento a Sciascia - Foto Nicoletti
Quando saremo lontani da questo piccolo paese in cui siamo nati e viviamo, quando finalmente ci sentiremo nascere dentro amore e nostalgia per le cose che oggi ci circondano e mortalmente ci annoiano – di queste povere case ammucchiate, di queste persone che ogni giorno incontriamo, il nostro ricordo riuscirà forse a comporre una di quelle infantili e amorevoli costruzioni in cui cubetti di legno e figurine di coccio fanno affettuosa armonia; una povera e incantata armonia. Come uno di quei Presepi a cui intorno al Natale si affaccendano grandi e piccini e che, dal re dell’acquaiolo, raccolgono tutte le umane attività e significazioni. Quello sarà veramente il nostro paese: perché la lontananza darà dolci cadenze alla noia di oggi e all’angustia; e diventerà un po’ amore quel che ora è insofferenza e reazione. Intanto, poiché ancora in nessun modo lo amiamo, una pausa della nostra insofferenza ci permette di immaginare come sarà nel ricordo di noi lontani, come nascerà quell’insieme nitido e minuscolo come un Presepe.
Ecco: don Giuseppe Savatteri è un imbecille detestabile. La sua voce sembra trascinarsi dietro un’eco molteplice, tanto è violenta e maleducata. Tutte le sue parole ingombrano l’area del luogo in cui ci si trova come un ciarpame confuso, si accatastano come cose inutili dietro un vecchio solaio. Ma non può mancare; è quasi un simbolo. Suo nonno, quando per la prima volta un treno stava per giungere a questa stazione, attendeva, scuro ed incredulo; il miracolo di veder muovere dei grandi carri “col fumo di una pentola che bolle”: e tutti i giovani del paese gli scialavano intorno, lo stuzzicavano, si fingevano come lui increduli e indignati. E quando il treno sferragliò dentro la stazione, si fermò, la musica attaccò una marcia, tutti furono intorno alla macchina, don Eugenio Savatteri si torse nervosamente la barba e gridò con quanto fiato aveva: “Non mi fregano, avranno messo dentro i cavalli”. L’espressione fu in verità ben altrimenti energica; e don Eugenio passò tutto il resto della sua vita a chiosarla, ad allargarla in dimostrazioni e imprecazioni. Morì convinto che dentro quell’arnese sbuffante stessero diabolicamente nascosti i cavalli: infine concedendo soltanto che diabolica anche essere la natura di quei cavalli. E il notaro dovette, scrivendo sotto la sua dettatura incrinata dall’agonia, saltare una delle sue volontà ultime: quella che diseredava i figli ove avessero “mancato alla sua memoria” con un viaggio in ferrovia. Così i suoi figli poterono felicemente salire su un treno: senza peraltro allontanarsi dal paese più di trenta chilometri. Ma la frase: “Avranno messo dentro i cavalli”, divenne una divisa, un cartiglio araldico, una distillata esperienza. Infatti non c’è fatto idea confessione gioco in cui don Giuseppe Savatteri non veda i cavalli della frode e del diabolico. Da suo nonno non ha soltanto avuto terre e case, e i marenghi di cui si dice nel paese; ma anche questa sublime diffidenza che ad ogni momento gli scatta dentro con automatica precisione. In una sola cosa credette Giuseppe Savatteri: nel fascismo. E nonostante tutto, stenta ancora oggi a credere che “c’erano dentro i cavalli”.
Il signor Savatteri fu anzi l’unica persona del paese che scambiò per una pattuglia tedesca i primi americani che nel luglio del ’43 entrarono in paese: e quando vide le armi dei soldati puntate contro il brigadiere dei carabinieri che se ne stava al fresco davanti al caffè semichiuso, applaudì freneticamente, credendo che i tedeschi si fossero decisi “a prendere nel pugno tutta la situazione”, come egli da più mesi auspicava. Invece c’erano dentro i cavalli: e la stessa sera don Giuseppe Savatteri si trovò a sostenere che il gusto delle sigarette Camel era insuperabile; contro don Ignazio Grillo che, da anni imprudente ed acre nel dir male del fascismo, era ora tanto sconvolto dalla presenza di quei soldati stranieri ubriachi di sole, da sostenere con le lacrime agli occhi la superiorità delle nostre Macedonia.
E questo fatto, nel minuscolo e composito paese del nostro ricordo, ci farà collocare vicino a don Giuseppe Savatteri un piccolo uomo tutto nervi, poco castigato nel linguaggio, tanto amico della verità quanto del vino: il nostro caro don Ignazio Grillo. E tra il vino e la musica di Rossigni che egli ama seguire con gesti concitati e felici: col suo corpo leggero insugherito scattante; col suo bastone in bilico nella destra, vibrante come una bacchetta di rabdomante ad ogni sotterranea malignità – forse quando così lo ripenseremo domani ci sembrerà vederlo sollevato a mezz’aria, sorridente e canuto, con due di quelle alucce che l’umorista Mosca disegna ai suoi strani angeli. Ricorderemo anche le parole che chiudono ogni suo giudizio, ogni discorso proprio e altrui: “E’ tempo perso”. Parole che per tanti anni punteggiarono, quasi indecifrabilmente affiorando alle sue labbra, le frasi martellanti di un uomo il cui ritratto, guardandolo da tutte le pareti volitivo e accigliato, sembrava volergli imporre i più minuti e inconcepibili fastidi. Ora queste parole – “è tempo perso” – vengono pronunciate con più spicco, con più soddisfazione: e sono in prevalenza dedicate agli sforzi “sovversivi” di un certo partito politico.
Ma ci sarà un momento in cui le alucce non sosterranno più nel ricordo, don Ignazio Grillo graziosamente librato nell’aria. Lo vedremo piombare a terra con una piroetta, un mezzo giro; e il suo volto dipingerà una certa contrizione. Sarà quando, parlando di donne, il signor Ministeri, suo vecchio compagno di scuola e di giochi, svegliandosi un momento dal sonno che per tre quarti del giorno felicemente lo sprofonda in una poltrona del circolo, gli griderà con una voce che la mancanza di denti rende come ovattata: “Amico, ricordati che, sessantasette anni non li ritorneremo a compiere l’anno venturo”.
Don Ignazio si affloscerà per un momento: ma il barone Trupia, entrando col suo passo anchilosato, il gran naso che gli disegna un profilo aerodinamico, muoverà le mani, leggere come farfalle, a foggiare nell’aria un gran corpo di donna: una di quelle gigantesse alla Baudelaire, alla cui ombra don Ignazio riprende quota come una piccola mongolfiera. Così tutti i nostri personaggi (perché sono gli uomini che vediamo ogni giorno, ma al tempo stesso sono personaggi in cerca di autore) parlano ora di donne – e il signor Ministeri riprende sonno dentro la sua poltrona. Le donne, le donne. Sono tutti mariti premurosi e fedelissimi, di donne non conoscono che la propria moglie: ma con quale fantasia, con che baldiniana golosità, con che gusto si accendono in determinazioni anatomiche, in battute piccanti. Il barone Trupia si affida all’eloquenza delle mani: forse vedremo le sue mani staccarsi, volteggiare nell’aria, svanire alla ricerca di quella donna incontrata quarant’anni fa a Pinerolo, nella tal via di Milano, dentro la tal piazza di Roma. Ecco: è già un personaggio, il nostro barone Trupia; può benissimo entrare dentro le saporitissime pagine di uno scrittore conterraneo che tanto amiamo. E magari uscirne sbattendo la porta, tanto la sua presenza annienterebbe i vari Percolla e Muscarà del Don Giovanni in Sicilia.
Noi lasceremo questo gruppo alle sue invenzioni felici. Guarderemo a quel mendicante che ogni giorno ci troviamo davanti la porta. Una presenza terribile: con quella poca barba nerissima sul mento sfuggente, gli occhi grandi e acquosi, senza sguardo: la fronte schiacciata; il torace gonfio e bianco, sempre nudo sotto la sola giacca lurida. Collocheremo la sua figura presso la casa del più ricco del paese. Il quale, in un paese tanto povero, è una presenza forse più inquietante del mendicante che collocheremo presso la sua porta. Un uomo che ha saputo fare, dicono questi signori poveri; questi “galantuomini” la cui fortuna è tutta in un paio di salme di terra che vanno sciogliendosi, come zucchero nell’acqua, nelle esigenze dei figli che studiano fuori o si trascinano dietro una dote. Ma c’è un uomo, un pazzo tranquillo monologante logico; un uomo dalle pupille stravolte e ferme; una figura piena di gelida ira che sembra uscita da un quadro di Hieronymus Bosch – c’è quest’uomo che chiama le cose col loro vero nome, e crocchi di ragazzi stanno ad ascoltarlo, e spesso lo ascolto anch’io. E così, “l’uomo che ha saputo fare” è chiamato semplicemente ladro. E ogni casa ha il suo buco nel tetto, e dentro vi guardano queste tremende pupille vitree e ferme. Qualcuno tenta di sorridere. Ma è difficile, proprio difficile sorriderne. E il pazzo dice: tu sorridi, ma come la lumaca sulla brace. E resta con l’indice puntato, la testa alzata a non guardare chi lo circonda.
E così fermo resterà per noi al centro della piccola piazza.

3 commenti:

Clizia ha detto...

Ciao Salvatore, complimenti per il tuo blog, sono capitata qui di passaggio e devo dire che ci sono articoli davvero interessanti. Anche questo su Sciascia. Galleria del 1950 dove l'hai trovata? Sarebbe utile per i miei studi.

Salvatore Lo Leggio ha detto...

Il numero di "Galleria" da cui ho tratto la paginetta era nella collezione di mio suocero, che non è più a mia disposizione. Sicuramente puoi ritrovarla in alcune biblioteche siciliane, Caltanissetta o Palermo per esempio. O puoi chiedere a Paolo Sciascia, editore in Caltanissetta (l'editore della rivista era il padre Salvatore),di procurartene una copia. E' possibile che il testo sia stato inserito nelle Opere di Sciascia pubblicate nei Meridiani Mondadori. Controlla in libreria. Ciao e grazie dei complimenti.

Clizia ha detto...

Grazie delle informazioni!

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