Un libro di storia davvero importante (Mario Isnenghi, Le guerre degli Italiani, Mondadori, 1989) ha come suo oggetto privilegiato non gli eventi, ma il loro costruirsi in quanto tali, strutturarsi, depositarsi nella memoria, modificarsi nel tempo. Il capitolo dedicato alla stampa si apre con una frase lapidaria: “In tempo di guerra i giornali raccontano favole”. La tesi non vuole sminuire i giornali come fonte documentaria, ma precisarne la natura: essi sono un’arma, un’arma psicologica destinata al “fronte interno”. Da qui l’esigenza di un controllo sempre più stretto: le veline degli stati maggiori, le limitazioni al movimento dei giornalisti, la censura vera e propria. L’articolo che segue, di Ludina Barzini, racconta le acrobazie che il suo antenato Luigi Barzini, corrispondente nella guerra del 15-18, insieme al suo direttore Albertini, dovettero compiere per fare arrivare sul “Corriere della Sera” qualche frammento di verità. (S.L.L.)
La censura torna sempre alla ribalta, in tempi di pace come in quelli di conflitti. E la prima vittima è la verità. L'inviato speciale e corrispondente di guerra Luigi Barzini, mio nonno, ha incontrato varie versioni di censure più o meno gravi lungo il suo cammino professionale, e ha sempre denunciato le situazioni restrittive della sua libertà e della verità. Rileggendo i suoi scritti dal fronte durante la prima guerra mondiale, si può osservare che Barzini ha cambiato modo di scrivere. Questo stile non gli somiglia. Come mai?
Il 24 maggio 1915, il giorno successivo alla dichiarazione di guerra all'Austria, in Italia entra in funzione la censura militare coordinata dall'ufficio stampa del Comando Supremo, il cui comandante in capo, Luigi Cadorna, non ha nessuna simpatia per i giornalisti. Barzini vive i primi sei giorni della guerra sul fronte friulano e spiega che la marcia alla vittoria sarà lenta, ponderata, faticosa, dura. Dei pezzi di verità sulla situazione si possono ricostruire nella corrispondenza con il direttore del “Corriere della Sera”, Luigi Albertini. In una lettera Barzini scrive: «Nessuno meglio di chi arriva dalla guerra può conoscere la falsità assoluta e ributtante di certe notizie che circolano misteriosamente, celandosi vergognose nei sussurri della calunnia». Albertini intraprende da subito una campagna contro la censura che vieta ai giornali di occuparsi dei primi dieci giorni di guerra. Scrive al presidente del Consiglio, Antonio Salandra, una lunga lettera di protesta nella quale dice che proibire di raccontare con particolari maggiori di quelli che comunica il governo sul numero dei morti e dei feriti, sulle forze impiegate, sulle posizioni conquistate, può anche essere giusto. Ma proibire ai corrispondenti di dare le impressioni generiche, gli episodi di nessuna importanza militare, di fare un po' di cronaca, di tratteggiare l'ambiente in senso, si intende, favorevole alla nostra impresa, questo gli pare assurdo e nocivo: né in Francia né in Inghilterra si è preteso una cosa simile. Fare un giornale come vuole il governo vuol dire fare un giornale morto che dà al paese un'idea terribile della guerra, e lascia nei lettori una specie di desolazione, un'ansia straordinaria di notizie.
Forte dell'appoggio del direttore, Barzini tornando dal primo giorno di guerra scrive il primo pezzo descrittivo di piccole cose generiche, per nulla nel suo stile, che sarà pubblicato dieci giorni dopo, alla fine dell'embargo: «Quei soldati nuovi al combattimento salutavano le esplosioni con esclamazioni ironiche. Ho narrato del primo giorno, del primo slancio perché il resto deve rimanere ancora segreto». Barzini racconta dell'arrivo di un treno di feriti, che di solito sono fonti preziose sulla situazione al fronte. Ma in questo caso scrive solo che i feriti domandano di essere informati della guerra: «Si direbbe che soffrano più per il distacco dal combattimento che per le ferite ricevute». Alcuni suoi articoli suscitano le rimostranze del governo e Albertini, determinato nella sua battaglia, scrive a Salandra: «Mi si comunica che l'articolo di Barzini comparso sul ‘Corriere’ del 21 giugno è stato trovato meritevole di censura, per cui i freni saranno ancora ristretti. Anzi, siccome il bando di Cadorna vieta agli estranei di visitare le province dichiarate zone di guerra, tutti i corrispondenti saranno espulsi e verrà vietata anche l'innocente cronaca che essi facevano. Mentre l'Italia è in guerra pubblicheremo squarci dei Promessi sposi e faremo risorgere nell'estate il Serpente di mare». Il direttore prega d'indicare con una matita blu che cosa c'era di pericoloso nell'articolo. «E' possibile», insiste Albertini, «che un uomo che ha navigato per sedici anni attraverso le più diverse censure di tutti i paesi, in tutte le guerre che si sono succedute, che è sempre uscito dalle difficoltà con onore, sia diventato temerario proprio quando è in guerra il nostro paese?».
Barzini viene comunque espulso per qualche tempo dalla zona di guerra, quindi bloccato per tutto il mese di luglio. Esasperato dalla situazione, sentendo che la qualità del suo lavoro è in pericolo, decide di tener duro e insistere. Scrive una lunga lettera al generale Cadorna, dove spiega fra l'altro che «la nostra guerra non fa notizia nei giornali esteri che esaltano i successi austriaci e ciò ci nuoce». Intervista Cadorna ma non è permesso mettere nulla tra virgolette. Il pezzo è una descrizione acrobatica del generale che parla indirettamente e dell'ufficio. Alla fine Barzini ottiene un compromesso per cui ha l'obbligo di non scrivere nulla finché l'azione non è conclusa. Scrive al direttore Albertini: «Si è fatto un attacco dimostrativo a Monfalcone, dove sono stato, attacco iniziato l'altro ieri sera, non riuscito». Per tutta la durata della guerra la censura rimane molto stretta; sulle proporzioni della sconfitta di Caporetto i bollettini del generale Cadorna, che parla di «reparti vilmente ritiratisi o arresisi in massa», vengono soffocati. I giornali devono solo tranquillizzare l'opinione pubblica. La censura dura fino al giugno del 1919 e condiziona fortemente i giornali influenzati dall'onda di patriottismo e poi dalla grande crisi politica e dal mito della forza. Barzini e Albertini si battono, fino alla fine, per la libertà di stampa con alcuni piccoli risultati. Barzini va sui vari fronti ma è misurato nei racconti che devono passare la censura.
"La Stampa", 6 aprile 2008
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