25.4.16

Nessuno muore contento (Beniamino Placido)

Doveva essere il secolo della lucidità, della consapevolezza, della conoscenza di sè, questo secolo ventesimo che volge alla fine, il "secolo di Freud"; e invece è il secolo che è riuscito a realizzare la più colossale delle rimozioni: la rimozione della morte. Non ne parliamo, non ci pensiamo. L'abbiamo banalizzata, l'abbiamo ridotta a un evento privato, da liquidare con burocratica sveltezza. L'abbiamo sdrammatizzata. Ne abbiamo fatto un evento asettico, "normale". Chi di noi spende più di una parola - sbrigativa, per di più - con l'amico che ha perduto una persona cara? Ben venga quindi questo convegno milanese su La morte, oggi, che la Provincia di Milano (con la collaborazione del Centre Culturel Franais e con il patrocinio del Cnr) ha organizzato e che si apre oggi; durerà ancora domani e dopodomani. Ci sarà (in spirito) evocato in più di una conferenza, Philippe Ariès, lo "storico della morte". Ci sarà, di persona, Michel Vovelle, altro insigne "storico della morte". Ci saranno tanti altri; a parlare del nostro atteggiamento nei confronti della morte, e di come esso è cambiato nel corso della storia. È un convegno più che opportuno: se non si ha un buon rapporto con la morte, si finisce con l'avere un pessimo rapporto con la vita.
Ma qual è un buon rapporto con la morte? Ecco, qui si intravede un pericolo, già leggendo il programma del convegno. Il pericolo che corriamo - non per demerito del convegno o dei convegnisti, ne sono sicuro, ma per demerito nostro, che semplifichiamo tutto e troppo - è quello di costruire un altro discorso nostalgico (l' nnesimo). C'è stato un tempo in cui la paura della morte non c'era, e quindi non si avvertiva il bisogno di rimuoverne la consapevolezza. Poi è arrivata la società industriale... eccetera. Se questo dovesse accadere, avremmo commesso il solito errore. Avremmo appena smesso di sognare un paese lontano dove non esisteva la proprietà privata né la competizione: e tutti vissero felici e contenti, per costruire un altro paese non meno immaginario dove non c'era né timore né rimozione della morte: e tutti morivano felici e contenti. No, nessuno muore (né è mai morto, né mai morirà) felice e contento.
È vero, c'è stata una società preindustriale in cui la morte veniva vissuta in modo radicalmente diverso da come viene vissuta oggi nelle nostre città industriali o industriose. Chi l'ha conosciuta, quella civiltà, lo ricorda. Ed aggiungo subito: questo è l'unico punto in cui quelle società erano migliori, più ricche, più umane dell'odierna società urbana, industriale. Il pranzo del "consolo" Quando il corteo funebre attraversava la piazza del paese, il barbiere, il tabaccaio, il cartolaio staccavano dal muro le chiavi, abbassavano le saracinesche, chiudevano il negozio, si accodavano al funerale. Più tardi, al ritorno dal cimitero, i congiunti del defunto avrebbero trovato a casa il "pranzo del consòlo". Si supponeva che essi non avessero cuore né per cucinare né per mangiare (quasi che volessero lasciarsi morire anche loro...). Qualcuno - i parenti, gli amici - aveva pensato a loro, si era preoccupato della loro sopravvivenza. Così poco a poco, lentamente ma irresistibilmente, quella "festa di morte" si convertiva in una "festa di vita", di vitalità, di solidarietà. Questo rituale - bellissimo, efficace - non c' è più. Non solo perché si trattava di società contadine e paesane (in una società cittadina, industriale, il tabaccaio non può chiudere il negozio senza rischiare una denuncia; e altrettanto dicasi del benzinaio). Ma anche perché quelle erano società intensamente religiose. "E la morte che sarà? tutto il mondo è vanità", cantavano le fanciulle nelle processioni. Se si è religiosi, se si crede (ma se si crede davvero) nella trascendenza, la morte perde una parte almeno della sua terribilità.
Ma solo una parte, non tutta. "Tutti vogliono andare in paradiso, ma nessuno vuole morire", si diceva proprio in quelle società, che pure non erano sprovviste dei conforti della religione. Si può morire con maggiore o minore eleganza (elegantissima la madre di Goethe; alla cameriera che le portava l'invito per un ricevimento: "dica che non posso, ho da fare. Dica che la signora Goethe è occupata a morire"), ma proprio allegramente, proprio serenamente, morire non si può. Si potrebbe tutt'al più accettare la morte, ma a patto di non morire del tutto. A patto di poter assistere - curiosi - al proprio funerale. "Vorrei morire e non vorrei la morte; vorrei vedere chi mi piange forte", dice una vecchia filastrocca popolare. Morire da una parte per rinascere dall' altra: non è il tema del Fu Mattia Pascal di Pirandello? E non è anche il tema di una canzonetta di Jannacci? "Si potrebbe andare tutti insieme al tuo funerale/Per vedere se la gente poi piange davvero/E capire che per tutti è una cosa normale/E vedere di nascosto l' effetto che fa. / Vengo anch' io? No, tu no".
No, non si può assistere al proprio funerale. Anche per questo la morte non è una cosa "normale". Per nessuno, in nessuna società. E' questa irrimediabilità della morte (appena temperata dal fatto che ognuno di noi - come capiva Miguel de Unamuno -, anche il più miscredente, un filino di speranza in una vita ulteriore ce l' ha), è questo senso della irrimediabilità della morte, dicevo, che fa crollare miseramente tutti i tentativi di "consolazione filosofica", anche i più antichi, i più classici. Come quello del filosofo greco: che m' importa della morte? "Quando ci sono io, lei non c'è. Quando lei arriverà, allora non ci sarò più io". Che sciocchezza: ma è proprio questo che mi dispiace: di non esserci più, di scomparire, da un certo momento in poi. Come quello del mistico medievale: perché preoccuparsi del momento della morte? Si muore un po' ogni momento, si comincia a morire fin dalla nascita. Che consolazione: morire in una volta sola o un po' alla volta non fa una grande differenza: è il morire in sé, che non va giù. Come quello di non so chi (e anche di Croce), che suona: meno male che si muore; pensate quanto sarebbe insopportabilmente noioso vivere in eterno.

Spiegazione biologica
Beh, questo proprio non si può accettare. Se vivessimo in eterno, ne sono convinto, diventeremmo sempre più vecchi, più smaliziati, più saggi. Non avremmo più né guerre, né suicidii. Ci suicidiamo e guerreggiamo proprio per illuderci di rovesciare il nostro rapporto subalterno con la morte. Di passare noi dalla parte dei padroni (della vita). Io sono più forte della morte, sono io a darla. Io sono più forte della morte, sono io a darmela. Forse non faremmo nemmeno le rivoluzioni, le nostre rivoluzioni sempre sanguinarie e spesso inutili. Che sono motivate da tante cose, certo. Ma anche dalla voglia di rinascere, di rifare il mondo daccapo, di negare la morte (esiste un libro molto bello ed a me molto caro di Robert Jay Lifton. Si intitola: L'immortalità rivoluzionaria: Mao Tse-tung e la rivoluzione culturale cinese. Per ora ne accenno soltanto, ne parlerò semmai un' altra volta).
E devo dire che persino la consolazione letteraria (quella che fa dire a Proust che se ci si porta dentro fino alla fine una cosa bella come la "petite phrase" della Sonata di Vinteuil, la morte avrà "quelque chose de moins amer, de moins inglorieux, de moins probable"), persino questa consolazione letteraria non tiene. Non siamo Marcel Proust. Non tutti. E lo sappiamo benissimo.
La verità è che dobbiamo morire - è inevitabile - per far posto agli altri. "Preparati a far spazio agli altri come gli altri lo hanno fatto a te". Così dice Montaigne. E' una spiegazione biologica. Di fronte ad essa ci arrendiamo. Però, è sicuro che a noi è stato fatto abbastanza spazio, che ci è stato concesso abbastanza tempo? Non si potrebbe prolungare un pochino, non si potrebbe ottenere un rinvio?... ("Non c' è nessuno tanto vecchio che non speri di vivere un giorno di più". Cicerone). No, non c' è proprio nessuna cosa che ci possa rappacificare con l'idea della morte. Nemmeno il convegno di Milano. E in fondo la cosa più giusta sull' argomento è ancora quella detta da La Rochefoucauld: "La morte e il sole non si possono guardare in faccia". Oppure, per porla nei termini di Francesco di Sales: "quello della morte non è un pensiero con il quale si possa coabitare ogni giorno". E se lo diceva lui, vissuto in una società preindustriale dove c' era il "pranzo del consòlo", dove c' erano i conforti della religione (era un mistico, un santo), dev'essere proprio vero. No, non si può guardare fissamente il sole, non ogni giorno. Ma si può ricordare che c' è; si può raccontare a se stessi (tanto per consolarsi) che è lui, in fondo, a dare la vita; si possono di tanto in tanto sollevare gli occhi in su, socchiudendoli, per vedere se è ancora lì. Mi auguro che il convegno di Milano sia uno di questi momenti.


la Repubblica, 24 maggio 1984

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