Doveva essere il secolo
della lucidità, della consapevolezza, della conoscenza di sè,
questo secolo ventesimo che volge alla fine, il "secolo di
Freud"; e invece è il secolo che è riuscito a realizzare la
più colossale delle rimozioni: la rimozione della morte. Non ne
parliamo, non ci pensiamo. L'abbiamo banalizzata, l'abbiamo ridotta a
un evento privato, da liquidare con burocratica sveltezza. L'abbiamo
sdrammatizzata. Ne abbiamo fatto un evento asettico, "normale".
Chi di noi spende più di una parola - sbrigativa, per di più - con
l'amico che ha perduto una persona cara? Ben venga quindi questo
convegno milanese su La morte, oggi, che la Provincia di
Milano (con la collaborazione del Centre Culturel Franais e con il
patrocinio del Cnr) ha organizzato e che si apre oggi; durerà ancora
domani e dopodomani. Ci sarà (in spirito) evocato in più di una
conferenza, Philippe Ariès, lo "storico della morte". Ci
sarà, di persona, Michel Vovelle, altro insigne "storico della
morte". Ci saranno tanti altri; a parlare del nostro
atteggiamento nei confronti della morte, e di come esso è cambiato
nel corso della storia. È un convegno più che opportuno: se non si
ha un buon rapporto con la morte, si finisce con l'avere un pessimo
rapporto con la vita.
Ma qual è un buon
rapporto con la morte? Ecco, qui si intravede un pericolo, già
leggendo il programma del convegno. Il pericolo che corriamo - non
per demerito del convegno o dei convegnisti, ne sono sicuro, ma per
demerito nostro, che semplifichiamo tutto e troppo - è quello di
costruire un altro discorso nostalgico (l' nnesimo). C'è stato un
tempo in cui la paura della morte non c'era, e quindi non si
avvertiva il bisogno di rimuoverne la consapevolezza. Poi è arrivata
la società industriale... eccetera. Se questo dovesse accadere,
avremmo commesso il solito errore. Avremmo appena smesso di sognare
un paese lontano dove non esisteva la proprietà privata né la
competizione: e tutti vissero felici e contenti, per costruire un
altro paese non meno immaginario dove non c'era né timore né
rimozione della morte: e tutti morivano felici e contenti. No,
nessuno muore (né è mai morto, né mai morirà) felice e contento.
È vero, c'è stata una
società preindustriale in cui la morte veniva vissuta in modo
radicalmente diverso da come viene vissuta oggi nelle nostre città
industriali o industriose. Chi l'ha conosciuta, quella civiltà, lo
ricorda. Ed aggiungo subito: questo è l'unico punto in cui quelle
società erano migliori, più ricche, più umane dell'odierna società
urbana, industriale. Il pranzo del "consolo" Quando il
corteo funebre attraversava la piazza del paese, il barbiere, il
tabaccaio, il cartolaio staccavano dal muro le chiavi, abbassavano le
saracinesche, chiudevano il negozio, si accodavano al funerale. Più
tardi, al ritorno dal cimitero, i congiunti del defunto avrebbero
trovato a casa il "pranzo del consòlo". Si supponeva che
essi non avessero cuore né per cucinare né per mangiare (quasi che
volessero lasciarsi morire anche loro...). Qualcuno - i parenti, gli
amici - aveva pensato a loro, si era preoccupato della loro
sopravvivenza. Così poco a poco, lentamente ma irresistibilmente,
quella "festa di morte" si convertiva in una "festa di
vita", di vitalità, di solidarietà. Questo rituale -
bellissimo, efficace - non c' è più. Non solo perché si trattava
di società contadine e paesane (in una società cittadina,
industriale, il tabaccaio non può chiudere il negozio senza
rischiare una denuncia; e altrettanto dicasi del benzinaio). Ma anche
perché quelle erano società intensamente religiose. "E la
morte che sarà? tutto il mondo è vanità", cantavano le
fanciulle nelle processioni. Se si è religiosi, se si crede (ma se
si crede davvero) nella trascendenza, la morte perde una parte almeno
della sua terribilità.
Ma solo una parte, non
tutta. "Tutti vogliono andare in paradiso, ma nessuno vuole
morire", si diceva proprio in quelle società, che pure non
erano sprovviste dei conforti della religione. Si può morire con
maggiore o minore eleganza (elegantissima la madre di Goethe; alla
cameriera che le portava l'invito per un ricevimento: "dica che
non posso, ho da fare. Dica che la signora Goethe è occupata a
morire"), ma proprio allegramente, proprio serenamente, morire
non si può. Si potrebbe tutt'al più accettare la morte, ma a patto
di non morire del tutto. A patto di poter assistere - curiosi - al
proprio funerale. "Vorrei morire e non vorrei la morte; vorrei
vedere chi mi piange forte", dice una vecchia filastrocca
popolare. Morire da una parte per rinascere dall' altra: non è il
tema del Fu Mattia Pascal di Pirandello? E non è anche il
tema di una canzonetta di Jannacci? "Si potrebbe andare tutti
insieme al tuo funerale/Per vedere se la gente poi piange davvero/E
capire che per tutti è una cosa normale/E vedere di nascosto l'
effetto che fa. / Vengo anch' io? No, tu no".
No, non si può assistere
al proprio funerale. Anche per questo la morte non è una cosa
"normale". Per nessuno, in nessuna società. E' questa
irrimediabilità della morte (appena temperata dal fatto che ognuno
di noi - come capiva Miguel de Unamuno -, anche il più miscredente,
un filino di speranza in una vita ulteriore ce l' ha), è questo
senso della irrimediabilità della morte, dicevo, che fa crollare
miseramente tutti i tentativi di "consolazione filosofica",
anche i più antichi, i più classici. Come quello del filosofo
greco: che m' importa della morte? "Quando ci sono io, lei non
c'è. Quando lei arriverà, allora non ci sarò più io". Che
sciocchezza: ma è proprio questo che mi dispiace: di non esserci
più, di scomparire, da un certo momento in poi. Come quello del
mistico medievale: perché preoccuparsi del momento della morte? Si
muore un po' ogni momento, si comincia a morire fin dalla nascita.
Che consolazione: morire in una volta sola o un po' alla volta non fa
una grande differenza: è il morire in sé, che non va giù. Come
quello di non so chi (e anche di Croce), che suona: meno male che si
muore; pensate quanto sarebbe insopportabilmente noioso vivere in
eterno.
Spiegazione
biologica
Beh, questo proprio non
si può accettare. Se vivessimo in eterno, ne sono convinto,
diventeremmo sempre più vecchi, più smaliziati, più saggi. Non
avremmo più né guerre, né suicidii. Ci suicidiamo e guerreggiamo
proprio per illuderci di rovesciare il nostro rapporto subalterno con
la morte. Di passare noi dalla parte dei padroni (della vita). Io
sono più forte della morte, sono io a darla. Io sono più forte
della morte, sono io a darmela. Forse non faremmo nemmeno le
rivoluzioni, le nostre rivoluzioni sempre sanguinarie e spesso
inutili. Che sono motivate da tante cose, certo. Ma anche dalla
voglia di rinascere, di rifare il mondo daccapo, di negare la morte
(esiste un libro molto bello ed a me molto caro di Robert Jay Lifton.
Si intitola: L'immortalità rivoluzionaria: Mao Tse-tung e la
rivoluzione culturale cinese. Per ora ne accenno soltanto, ne
parlerò semmai un' altra volta).
E devo dire che persino
la consolazione letteraria (quella che fa dire a Proust che se ci si
porta dentro fino alla fine una cosa bella come la "petite
phrase" della Sonata di Vinteuil, la morte avrà "quelque
chose de moins amer, de moins inglorieux, de moins probable"),
persino questa consolazione letteraria non tiene. Non siamo Marcel
Proust. Non tutti. E lo sappiamo benissimo.
La verità è che
dobbiamo morire - è inevitabile - per far posto agli altri.
"Preparati a far spazio agli altri come gli altri lo hanno fatto
a te". Così dice Montaigne. E' una spiegazione biologica. Di
fronte ad essa ci arrendiamo. Però, è sicuro che a noi è stato
fatto abbastanza spazio, che ci è stato concesso abbastanza tempo?
Non si potrebbe prolungare un pochino, non si potrebbe ottenere un
rinvio?... ("Non c' è nessuno tanto vecchio che non speri di
vivere un giorno di più". Cicerone). No, non c' è proprio
nessuna cosa che ci possa rappacificare con l'idea della morte.
Nemmeno il convegno di Milano. E in fondo la cosa più giusta sull'
argomento è ancora quella detta da La Rochefoucauld: "La morte
e il sole non si possono guardare in faccia". Oppure, per porla
nei termini di Francesco di Sales: "quello della morte non è un
pensiero con il quale si possa coabitare ogni giorno". E se lo
diceva lui, vissuto in una società preindustriale dove c' era il
"pranzo del consòlo", dove c' erano i conforti della
religione (era un mistico, un santo), dev'essere proprio vero. No,
non si può guardare fissamente il sole, non ogni giorno. Ma si può
ricordare che c' è; si può raccontare a se stessi (tanto per
consolarsi) che è lui, in fondo, a dare la vita; si possono di tanto
in tanto sollevare gli occhi in su, socchiudendoli, per vedere se è
ancora lì. Mi auguro che il convegno di Milano sia uno di questi
momenti.
la Repubblica, 24 maggio
1984
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