George Orwell |
Il 28 aprile 1984,
esattamente 34 anni fa, all'interno di un convegno-seminario su Il
futuro come presente, organizzato
dalla facoltà di Lettere della locale università, si svolse a
Venezia un dibattito sul nesso tra il celebre 1984 di
Orwell e lo stalinismo. Ne discussero Charles Bettelheim, Paul Seeezy
e Aldo Natoli. Della relazione di quest'ultimo “il manifesto”
propose ai lettori la parte centrale, quella che qui riporto.
(S.L.L.)
Stalin |
Hanna Arendt, ispirandosi
al nazismo e al regime staliniano della seconda metà degli anni ’30,
ha descritto un tipo di regime totalitario la cui vera essenza è il
terrore. Tuttavia in tale regime la propaganda conserva ancora una
funzione, sia pure soltanto come uno strumento nei rapporti con il
mondo esterno. Ed anche l’uso del terrore ha una sua flessibilità,
non esclude affatto l’esistenza di aree di consenso passive ed
attive.
In 1984 invece
(curiosamente Orwell è tptalmente ignorato dalla Arendt) non esiste
più un mondo esterno, la propaganda ha cessato di esistere, come
pure il consenso. Ci troviamo di fronte ad un regime di puro dominio,
che non ha più bisogno di egemonia. Il terrore è una sorta di a
priori, assoluto e permanente, non è più uno strumento, ma
l’elemento costitutivo del potere. Solo per questo esso può
scatenare processi di mutazione della natura stessa dell’uomo nel
senso di abolizione della sfera della privatezza, dei rapporti
interpersonali, dei sentimenti della memoria, della conoscenza
autonoma. L’interiorizzazione del terrore riduce il singolo a mero
oggetto del potere. Per Marx l’individuo era l’insieme dei suoi
rapporti sociali. Nel mondo di Orwell l’individuo non può
sussistere che come un insieme di rapporti statali. Società e
privatezza sono totalmente assorbiti nella trama ubiquitaria del
potere e questo si concentra nell’immagine di un capo onniveggente
e infallibile, che in ogni luogo vede e parla da un teleschermo. Così
pervade ed occupa la dimensione intima che già era stata quella
della coscienza del singolo.
Ne consegue che i fatti
della realtà presente e passata (la storia) perdono ogni consistenza
oggettiva. Tutti possono essere rifabbricati secondo la sola verità
ammessa dal potere, nessuna alternativa, variante o sfumatura è
ammessa. La legge ha una corda sola, una sola lettera. A questo punto
l’esigenza di un linguaggio stereotipato, che non lasci spazio
alcuno alla espressione della fantasia, diventa una logica necessità.
Se il verbo era all’origine dell’universo dell’uomo, il
compiersi della disumanità deve coincidere con l’abolizione della
parola. La totale alienazione implica la cessazione di ogni
comunicazione, fuori dalle disposizioni anonime del potere. Ogni
residuo conato espressivo è trasgressione. La privatezza è di per
sé e in qualsiasi forma, trasgressione. Massima trasgressione sarà
l’amore perché ricostituisce il microcosmo dell’individuo
sensibile, avente il proprio fine in sé e nell’altro, nel quale è
pronto ad annullarsi?
Ciò è incompatibile con
l’universo statale-vegetativo di Orwell e il suo totale
annientamento è la condizione per la sopravvivenza in quella
dimensione. La tortura più orribile cui Winston, alla fine, sta per
essere sottoposto, non ha lo scopo di strappargli alcun segreto (egli
non ne ha mai avuto e non ne ha alcuno), ha lo scopo di sradicare e
annientare in lui il desiderio e la capacità di trasferire le
ragioni della propria vita in un altro essere, Giulia. Quando Winston
arriverà a negare totalmente tale impulso, chiedendo che non lui
stesso ma «l’altro» al suo posto sia sottoposto al supplizio
estremo, questo cesserà immediatamente perché l’ultima scintilla
di umanità sarà ormai estinta e con essa l'origine stessa della
trasgressione.
Orwell proietta nel 1984
e su scala mondiale l’incubo del terrore totale. È l’espressione
del profondo pessimismo e del rifiuto della utopia cui era approdato.
Non proverà mai più l’improvviso fervore, la travolgente simpatia
che ha sentito in un giorno del dicembre 1936 nella caserma Lenin di
Barcellona, dove stava arruolandosi come miliziano, per un operaio
italiano, che, anche lui è accorso volontario in difesa della
repubblica e in nome dell’internazionalismo :
In 1984 questi
moti del cuore sono semplicemente impensabili, non esistono mai e non
possono esistere nel racconto perché essi sono da tempo estinti nel
narratore e questi non riuscirà mai a rivivere una emozione
paragonabile neanche in un solo attimo dell’avventura di amore di
Winston e di Giulia.
1984 è la
proiezione nel tempo e nello spazio, fino a pervaderli totalmente,
della disumanità del potere e, anche e di conseguenza, degli effetti
devastanti che quella produce nel cuore degli uomini. Il terrore come
potere totale, ha la dinamica di un universo in espansione : invade
tutto il pianeta, abolisce la storia dell’uomo, ne aggredisce la
natura.
Fosca utopia della
disperazione, contiene certamente un monito ma nessuna via di scampo.
Orwell muore agli inizi degli anni ’50 e lascia ai posteri solo gli
incubi della sua ragione, il suo teorema poggia su basi oggettive
inoppugnabili, ma la sua dimostrazione non semplificherà fin oltre
l’assurdo gli eventi di una storia che non è stata ancora abolita?
Fra il 1948 e il 1949 egli aveva potuto riconoscere in Unione
sovietica la nuova fase di terrore (l'«affa re» di Leningrado, la
campagna antisemita condotta sotto l’etichetta della lotta contro
il cosmopolitismo), che caratterizzò gli ultimi anni di Stalin e
che, dopo la morte di Orwell, culminò in Unione sovietica con la
fabbricazione del «complotto dei medici», in Cecoslovacchia e in
Ungheria, rispettivamente, con i processi contro Slansky e Rajk.
Ma, a partire dalla
primavera del 1953, subito dopo la morte di Stalin, fin dai
primissimi atti dei suoi successori fu chiaro che la via della
restaurazione del terrore assoluto veniva decisamente scartata (era
infatti impraticabile), gli strumenti poliziesco-militari necessari
per la sua attuazione erano ridimensionati e ricondotti sotto il
controllo politico e il sistema del potere, senza perdere nel
complesso le sue caratteristiche specifiche, veniva orientato verso
una parziale ricerca del consenso.
I confusi conati
riformatori di Khrusciov ebbero questo significato : i provvedimenti
per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, le prime
modificazioni del rapporto fra industria pesante e industria leggera,
i miglioramenti delle retribuzioni, la campagna per il dissodamento
delle terre vergini.
Così pure le misure
intese a combattere il prepotere della burocrazia (pur rimaste senza
successo). Infine, e soprattutto, la denuncia clamorosa (al XX e al
XXII congresso del Pcus) dei “delitti e delle violazioni della
legalità2 commessi sotto Stalin. Quella denuncia aveva lo scopo di
rendere impossibile un ritorno al regime del terrore assoluto,
sconfiggendo definitivamente quelli che, nel gruppo dirigente del
Pcus potevano esserne gli assertori. Chiaramente dirette alla
conquista del più ampio consenso furono la svolta nella politica
estera con la proclamazione della possibile apertura di un’epoca di
coesistenza pacifica a livello mondiale e, sul piano interno, la
redazione di un nuovo programma del partito che annunziava
l’inaugurazione dell’era del comunismo a partire dal 1980.
Naturalmente non è
possibile qui procedere ad una analisi dettagliata e profonda di
questo periodo, lo si ricorda solo per sottolineare che esso, pur
mantenendo intatte, lo ripeto, le strutture di potere e il rapporto
stato-società che erano stati costruiti a partire dalla fine degli
anni ’20, operava in quell’ambito una svolta profonda, nel senso
di ricondurre il sistema ad una sua normalità repressiva di dominio
ma anche di conati egemonici, escludendo il ricorso ad amministrare
mediante il terrore. In questo senso si può dire che il
khrusciovismo, riproponendo come attuali per quel sistema, la ricerca
e la conquista del consenso passivo ed attivo, segnò un momento
importante per la fuoriuscita dall’universo del terrore staliniano.
Sottolineo «dal terrore staliniano», non dal sistema
istituzionale-politico, non dal rapporto stato-società costruiti nel
periodo staliniano.
Entro quell’ambito la
inveterata rigidità del sistema cominciò ad essere intaccata dalla
apertura di limitati spazi di iniziativa decentrata. Ciò avveniva
con il controllo e per impulsi «dall’alto» per cui non si può
parlare, a mio avviso, come pure da qualche parte si è fatto, di
«pluralismo embrionale». È vero pero che la rinunzia al tenore
come strumento essenziale del potere apriva la strada e rendeva
possibile, e perfino necessaria una articolazione di snodi fra stato
e società e all’interno di questa.
Il fatto più rilevante
fu l’allentamento della pressione statale sui contadini (una volta
assolti gli obblighi verso gli ammassi, adesso potevano decidere
sull’uso delle proprie risorse, il che implicava una certa libertà
nelle scelte produttive e una estensione di rapporti con la sfera di
mercato); il fatto più vistoso fu un certo rilassamento del
controllo ideologico cui corrispose una limitata ripresa di libertà
intellettuale (il «disgelo») nelle arti e nella ricerca storica e
scientifica, come pure una nuova, e più ampia circolazione di
informazione (fu ripresa, fra l’altro, la pubblicazione dei
resoconti stenografici dei dibattiti del comitato centrale del Pcus,
che era stata interrotta dal 1928).
Si riaprì anche la
discussione pubblica sui problemi di fondo dell’economia, in
particolare il rapporto fra pianificazione e mercato. Tutti questi
spiragli saranno presto chiusi, già negli ultimi anni di Khrusciov,
non senza però aver contribuito alla nascita di fenomeni come il
“dissenso” e il “samisdat”.
“il manifesto”, 28
aprile 1984
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