Da “Avvenire” riprendo l'articolo di presentazione di una mostra
milanese che riguarda storie e opere di Perugia e dintorni. (S.L.L.)
All’inizio ci fu
l’anello. L’anello nuziale della Madonna, niente poco di meno,
figurarsi che reliquia pregiata e potente. Il suo arrivo a Perugia
nel 1473 fu ritenuto un segno del cielo e si chiuse un occhio sulla
stortura che ve lo aveva portato, rubato dal frate Vinterio di
Magonza ai confratelli di Chiusi come ripicca per un’accusa
ingiusta.
Il Comune lo prese in
consegna e il 15 agosto, gran festa della Vergine, si fece la prima
ostensione al popolo, Sisto IV benedicente. Quando più tardi
Innocenzo VIII chiuse definitivamente la questione lasciando l’anello
ai perugini, si pensò di portarlo in cattedrale. Si “sfrattò”
san Bernardino da Siena, da poco titolare di una cappella, per
dedicarla a san Giuseppe e custodirvi la prodigiosa reliquia.
Prodigiosa perché operava miracoli. Da allora viene esposta
ciclicamente alla venerazione dei fedeli, fino a oggi. Si tratta di
un cerchietto di calcedonio che, secondo tradizione, la Vergine
avrebbe consegnato all’apostolo Giovanni. Il Santo Anello divenne
subito patrimonio e simbolo della città. Fatta la cappella ci voleva
la pala.
A chi commissionarla se
non a Pietro Vannucci, il pittore più famoso d’Italia e per di più
perugino? Era il 1499. Perugino concepì Lo sposalizio della
Vergine, proprio il momento in cui riceve l’anello da Giuseppe,
in modo assai moderno. La scena simmetrica e ordinatissima è
sovrastata da un’ampia piazza con un tempio nel mezzo. Il gusto
della prospettiva, dello spazio, della figura, è tutto
quattrocentesco. L’idea dello spazio aperto e del tempio la
recupera dal suo affresco nella Cappella Sistina, del 1482, dedicato
alla Consegna delle chiavi a Pietro, con una disposizione
simile benché molto orizzontale.
È stato detto che
l’edificio rappresenta il tempio di Gerusalemme, ma perché non
pensare che si riferisca alla Chiesa proprio nel momento in cui
Cristo consegna la potestas clavium? Così non sarebbe
difficile sovrapporre i due significati: il Tempio se si prende la
scena storicamente, la Chiesa se si pensa al matrimonio cristiano.
Perugino consegnò il lavoro nel 1504. Nel frattempo, nella vicina
Città di Castello, nel 1501 Filippo Albizzini ottiene il patronato
della cappella di san Giuseppe e volendo arricchirla come si deve
pensa all’omonima cappella di Perugia e commissiona a Raffaello di
Giovanni Santi un dipinto come quello che stava facendo il maestro
Perugino. L’opera di Raffaello nasce così intenzionalmente il più
possibile simile a quella del maestro. Raffaello ha ventun anni ed è
l’astro nascente. Da lì a poco farà faville nella corte papale. E
dal Vasari sappiamo che egli guardava tutto e tutto assimilava.
La sua ispirazione al
quadro di Vannucci non fu solo tematica ma anche stilistica e
tecnica. Come del resto tutto quel suo primo periodo. Ma portava in
se i germi di una visione nuova. Il confronto fra i due dipinti lo
affrontò già Vasari: «Fece, in una tavoletta, lo sposalizio di
Nostra Donna, nel quale espressamente si conosce l’augumento della
virtù di Raffaello venire con finezza assottigliando e passando la
maniera di Pietro ». I personaggi non sono più disposti in fila ma
formano un semicerchio. E sono vivi, dimostrano sentimenti, si
muovono. La dolcezza dei volti ha superato quel tanto di leziosità
che c’era ancora nel maestro. Lo spazio retrostante si allarga,
prende più aria, il tempio si riduce e si arrotonda. Regna una
“naturalezza” che convince. Ma tutto è legato da rapporti
matematici di proporzione, quella bellezza astratta ideale alla quale
Raffaello tendeva dichiaratamente. Per secoli le due pale sono state
oggetto di devozione.
Fino agli espropri
napoleonici. A Perugia offrirono una sostituzione del dipinto, prima
con uno di Carlo Labruzzi, che non piacque, e poi con quello di
Jean-Baptiste Wicar, di duro impianto neoclassico, che è ancora lì.
E gli originali, dopo alcuni passaggi, andarono a finire al Musée
des Beaux-Arts di Caen il Perugino, e alla Pinacoteca di Brera il
Raffaello. Li abbiamo visti insieme in tanti libri di storia
dell’arte. Ma non sono mai stati accostati nella realtà. Questa è
la prima volta, occasione di studio eccezionale. Infatti, James M.
Bradburne, nuovo direttore della pinacoteca di Brera, lo ha voluto
chiamare “Dialogo” e lo propone come il primo di una serie, che
mira all’approfondimento più che allo spettacolo culturale. Un
saggio storico di Maria Rita Silvestrelli e un mirabile servizio
fotografico completano l’operazione in una pubblicazione Skira. In
mostra, insieme al dipinto di Wicar, fino al 27 aprile.
Da “Avvenire”, 15
marzo 2016
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