Quello che segue è un
magnifico saggio di critica militante. Attraverso le citazioni di un
libro di Dossi, appena riscoperto e ripubblicato, Arbasino difende i
capricci dello stile contro i pedanti di ogni tempo e mostra le
origini remote di discussioni che sembrano nate oggi perché
periodicamente ritornano. (S.L.L.)
Carlo Dossi |
Virulento, sulfureo,
densissimo, il «Margine alla
Desinenza in A» di Carlo Dossi riprende con risentimento
intatto, anzi aggravato, la «Rinunzia avanti notajo degli autori del
Caffè al Vocabolario della Crusca» (fonte remota anche del
’plurilinguismo’ gaddiano). Come se l’abbondante secolo
trascorso, con tutto quel Manzoni, fra i Verri e il Dossi non avesse
minimamente scalfito le esigenze linguistiche dei gentiluomini
lombardi cosmopoliti (illuministi o decadenti) abituati a frequentare
idee e idiomi europei, e i-norriditi dal provincialismo autarchico
dei vecchi panni sciacquettanti nel fiume delle rificolone e degli
ovvìa. I segnali sembrano paradossalmente analoghi: «Se le
cognizioni umane dovessero stare ne’ limiti strettissimi che gli
assegnano i Grammatici, sapremmo bensì che Carrozza va scritta con
due erre, ma andremmo tuttora a piedi» (A. Verri, 1764). «Pur di
non dire ’vagone’ avrebbero sempre viaggiato in vettura» (C.
Dossi, 1884). Ma la divaricazione delle esigenze risulta poi
madornale fra la richiesta illuministica di strumenti comunicativi
sempre più ’aggiornati’ con l’Europa dei Lumi,
dell’Enciclopedia, della fede nel Progresso irreversibile - e la
ricerca decadente di tecniche rappresentative sempre più
’espressive’, fino a raggiungere l’Espressionismo stesso.
Paleo-espressionista
drammatico, Dossi rivive anche più spiritata la revulsione
dell’avanguardia ’scapigliata’ contro «tutti coloro che
possedevano fede accademica di miserabilità intellettuale», cioè
«coloro che, non sapendo far libri, facevano dizionari e
s’inquietavano per la corrotta italianità e pei dialettismi non
trattenuti da alcuna forca e per le stesse nuove scoperte
apportatrici di vocaboli nuovi». Nelle battaglie per lo
sperimentalismo linguistico, l’antico gentiluomo beneducato
combatte da terrorista: «Erano, in gergo scientifico, chiamati
cultori della istruzione, forse perché incaricavansi di strappare le
pianticine novelle per vedere se mettean bene radice. Rondavano in
avvisaglia, con passo di sughero, e quando accorgevansi che qualche
scrittore cercava introdurre nei grammaticali confini da essi
riputati propri, merce non nominata nelle loro tariffe, lo
attorniavano, assaltavamo, arrestavamo schiamazzando quali oche». «E
'quella è di legge', 'questa è di contrabbando', affannavansi, que’
gabellieri, a sfilare e palpare ogni parola di un libro, a
stemperare, entro i lor stacci, i periodi di un povero autore finché
ne colasse una broda completamente sciapa, incolora, inodora. Né,
per essi, serviva la scusa dell’analogia, la raccomandazione del
buon senso, l’invito della necessità». «A guisa infatti degli
arabi che coi cadaveri inquinan le fonti dei loro nemici, mirano i
critici, cogli autori morti, a spegnere i vivi».
E SONO molto
precise, le rivendicazioni. «Permettendo, ad esempio, l’onomatopeico
'cricch' perché si leggea a pagina tale, linea tal’altra del lor
ricettario, proibivano irremissibilmente il suo stretto parente
'cracch', non trovandosi esso in nessuna parte del mastro del loro
sapere». «L’ottimo autore, secondo tali notai spacciantisi per
legislatori, non dovea aver orecchio che pei rumori e pei suoni
protocollati, udir quindi eternamente la zampogna e il liuto, non il
pianoforte mai». Ma non soltanto la ’serrata’ puristica
toscana-egemone impedisce alla lingua e alle idee dell’Italia unita
(e carducciana) di mettersi al corrente con qualunque modernità
europea, per questo guerrigliero delle minoranze linguistiche
settentrionali, ormai di confine. Rischia di azzerare addirittura la
memoria lombarda collettiva, e viscerale, giacché non include né
ammette proprio i piatti più campanilistici e più cari: «Poiché
Arno non diede l’aqua con cui fu bollito il proto-risotto ed
impastato il capo-stipite dei panettoni, Milano era tenuta di abolir
senza più quelle sue antiche ghiottonerie non previste dalle
edizioni 'dal miglior fior ne coglie' per non mettersi a rischio di
nominarle, salvoché non si fosse addattata a sostituirvi i più
leggittimi nomi di ’riso giallo’ e di 'pan balestrone'».
Ma la remota rivolta
pre-espressionistica del Dossi contro i fiscalismi del purismo
ottocentesco — e dunque contro ogni tentazione futura di «ritorno
all’ordine» e di «bella pagina» novecentesca tutta
neoclassicismo e rondismo e ’nitore’ — non si limita a
«ripetere che la lingua nacque prima della scrittura e l’una e
l’altra inanzi la regola». Suona tanto nostra contemporanea,
piuttosto, perché tratta insieme, e con chiarezza vertiginosamente
anticipatrice, del «realismo in arte» e della «incolpata oscurità»
(o «bujezza») della scrittura.
REALISMO? Dossi
immediatamente aggredisce la «spilorcia interpretazione» per cui
«quel frasone empibocca» dovrebbe poi soltanto significare «là a
titolo d’onore, qua di disdoro, quella parte soltanto di
letteratura che studia e descrive le voluttà della carne e le
turpitudini umane». Macché. Al realismo o verismo possono
appartenere con pari diritto la cloaca e il roseto, l’eroe e il
bordello. «Della realtà fanno parte integrante e l’illusione ed
il sogno e la fede e lo stesso idealismo». E come si sarebbe poi
ripetuto per un secolo, agli esami universitari di crocianesimo puro
o applicato e nelle aule giudiziarie di porcelleria filmica, «nelle
tre arti non sappiamo vedere che una questione sola, quella del
brutto e del bello, senza riguardo né a scuole né a scopi. Se ci
sono però buontemponi che voglion scaldarsela per quel letterario
atteggiamento, che è, come affermano, diretto ad virgam erigendam
(...) non ci parlino altro che di ’carnalismo’ ».
«Senonché, carnalismo
non vuole ancor dire immoralità. Se le leggi divine impongono, se le
umane favoriscono, le une e le altre improvvidamente, la procreazione
della specie, non vi dovrebbe essere arte più leggittima e più
commendevole di quella che risveglia ed instiga la foja generatrice,
o, come dicevano i nostri antichi, lumbum intrat. Tuttavia,
c’è un inconveniente. Le opere letterarie, anche le più
scollacciate, quando raggiungono la perfezione non commuovono che il
cielo dell’animo. La voluttà intellettuale soffoca la carnale». E
come se Baudelaire e Wilde rivoltassero la frittata crociana già nel
decennio dei Malavoglia, delle Odi barbare, delle
Novelle della Pescara: «La smania sessuale è in natura; ha
dunque diritto di avere anch’essa la sua sede nell’arte; l’invito
del sesso però non forma tutta la vita; manchevole quindi sarebbe
quella letteratura che si occupasse esclusivamente (perdonate la
frase) dei propri inguini non istudiando che di renderli
appariscenti, né più né meno dell’altra che si cappona per
procurarsi una voce d’angelo».
(Quanto buon senso
illuministico, insomma, dietro l’eccentricità 'scapigliata'; e con
quale profitto un autore così ’capriccioso’ e ’appartato’
potrebbe venir studiato per sgonfiare i falsi i problemi di pudore e
censura tribunalizia, riportando i dibattiti decennali su erotismo e
pornografia ai loro termini più concreti e pratici). «Chi ama le
comedie prive di sesso ha i teatri suoi, ha i burattini, dove può
assistere senza pericolo alcuno, da quello all’infuori di
addormentarsi, anche al ballo. Per i poveri d’intelligenza provvede
la caldaja dei frati. L’aqua non costa nulla e rinfresca».
E lo scrivere «avvolto
ed oscuro»? «Una letteraria virtù, miei signori: la densità delle
idee». Dossi, un secolo fa, sembra anticipare, con una ironia che
viene di lontano, le tragicomiche dispute sui poteri del padrone che
possiede più parole e dunque più idee, o sui «lessici di base»
che limitano il corredo linguistico delle classi subalterne a un
fabbisogno insufficiente per qualsiasi necessità primaria nella vita
quotidiana. «Tutti veggono — meno i critici dalle acute pupille
nella collottola — come sia oggi impossibile ad un autore, che al
manubrio dell’organetto preferisca l’arco del violino, di
scrivere precisamente come quando il patrimonio delle idee era di
gran lunga più scarso dell’attuale e pisciàvasi chiaro perché
non si beveva che aqua, compreso il vino. Bastava allora di esprimere
ciò che il cuore individuai suggeriva e la lingua materna imboccava;
ciascun paese viveva, per conto suo, dei frutti esclusivi del proprio
suolo e , del proprio pensiero...» «Senonché, oggi, si mutò
stile: siamo figli di esploratori, e viaggiatori noi stessi, e, in
quella maniera che da occidente ad oriente, dal polo antartico
all’artico, s’incrociano e mescolano tutti i prodotti del globo,
tra cui massimo l’uomo, giran le idee più ancora liberamente e si
sposano e ne creano altre, prolifiche come infusori. E’ una
tendenza generale, questa, che né le politiche tariffarie ed i
cannoni dei governanti, né gli ohimè dei grammatici e gli esorcismi
dei preti sanno o potranno frenare. I mercati del mondo gravitano a
fondersi in uno solo». (Ma Gadda, poi, come se proprio del Dossi
stesse parlando, e non di sé: «...forse lambiccava rabbioso dalla
memoria una qualcheduna di quelle sue parole difficili, che nessuno
capisce- di cui gli piace d’ingioiellare una sua prosa dura,
incollata, che nessuno legge»...)
ED ECCOCI dunque
al luogo decisivo: Stile, e Mercato (e struttura, e narratività, e
pubblico). «Uno stile che fosse una rotaja inoliata sarebbe la
perdizione de’ libri miei. Uno invece a viluppi, ad intoppi, a
tranelli, obbligando il lettore a proceder guardingo e a sostare di
tempo in tempo, segnala cose che una lettura veloce nasconderebbe».
(Che Spitzer! Quale formalismo russo! Quante annate della rivista
Communications!) «Non nego che una favola concitata, densa di
colpi di scena, irritante la curiosità, incalzante la lettura, sia
la maggiore fortuna, anzi la dote sine qua non per un romanzo
sprovvisto di ogni sapore di stile e d’ ogni potenza d’idea...»
«Nei libri, invece, in cui gli avvenimenti narrati sono un mero
pretesto ad esprimere idee ed una occasione di suggerirne, deve
l’intreccio sì esistere ma non troppo apparire, dee contentarsi di
fare, non da ricamo, ma da canovaccio, adducendo carezzosamente il
lettore sino alle ultime pagine, quale comodo cocchio da viaggio che
permette di osservare il paese, non già traendovelo turbinosamente
quale rozza infuriata».
E LA fruizione?
Gli utenti? «Il pubblico di un letterato non è già quello
dell’uomo politico e del canterino, pei quali è indispensabile e
folla e contemporaneità di fautori; non ne occorrono a lui né
migliaia, né centinaia e neppure ventine in un tratto: gliene
bastano pochi, uno anche, purché siano degni, a loro volta, di lode
e purché si succedano — sentinelle d’onore del nome suo — fino
al più lontano avvenire. La votazione per la durevole gloria di un
artista non si chiude in quel medesimo giorno in cui viene proposta,
ma le urne rimangono aperte nei secoli». (La buona educazione
classico-romantica non si butta certo via...) «L’applauso della
moltitudine scompare colle mani che l’hanno prodotto e anche prima,
mentre il lauro, piantato dai pochi intelligenti sulla tomba del
meritevole e con sollecito amore educato, non cessa di crescere e si
rafforza con gli anni». (E se non è Grande Dandysmo questo...) «Ciò
che crea la moda, la moda pur spazza via». («Chiuso nella
perfezione della resa per così dire descrittiva della sua sfera
immobile di malinconie e di capricci, vien fuori in Lombardia Carlo
Dossi» scriveva perfettamente il Contini. Perfettamente: vien fuori
adesso).
“la Repubblica”, 8
maggio 1981
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