Nel 1985 uscirono le
Concordanze dei "Promessi Sposi, cinque volumi editi
dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori che furono uno dei primi
esempi di applicazione dell'informatica all'analisi letteraria. Il
professor Giorgio De Rienzo, che guidò la ricerca, ne illustrò così
le caratteristiche ai lettori di «Repubblica». (S.L.L.)
Le parole dei Promessi
sposi sono più di 223 mila. Tutte queste parole sono state
catalogate dal computer, ciascuna con il proprio contesto e con la
propria classificazione grammaticale, sotto la voce principale: il
maschile singolare per aggettivi e sostantivi; l’infinito per le
forme ver bali. Ecco dunque, in un disco largo poco più di trenta
centimetri, gli 8950 vocaboli usati da Manzoni, registrati in
sequenza alfabetica, da «abate», che apre la fila, a «zuffo»
(ciuffo), che la chiude.
Da questo disco verranno
cinquemila pagine a stampa, raccolte in cinque volumi, che saranno
pubblicati, nel prossimo autunno, dalla Fondazione Mondadori, grazie
al finanziamento del Banco del Monte di Milano. La pubblicazione di
queste Concordanze è il primo risultato di una ricerca da me
diretta, alla quale ha collaborato un’équipe di sedici
specialisti. Una ricerca che è durata sei anni, effettuata, senza
finanziamenti pubblici, presso il «Centro di Studi Franco Falletti»
di Vercelli, fondato e animato da Egidio Del Boca.
Lo studio è stato
eseguito dal computer, attraverso l’elaborazione di ventisei
programmi, per oltre 40 mila istruzioni: l’elaboratore ha eseguito,
per ottenere la stampa delle sole Concordanze, 192 mila
operazioni semplici al secondo, per un arco di circa 24 ore. Ci sono
due modi immediati di leggere questi risultati. Il primo è quello di
misurare quantitativamente la ricchezza lessicale di un autore;
l’altro è quello di individuarne la qualità. Il primo risultato,
allora, di una lettura al computer dei Promessi sposi può
apparire deludente: il vocabolario manzoniano, infatti, non appare
molto ricco.
“Poco” e “bene”
Le parole usate una volta
soltanto non raggiungono neppure il 38 per cento del totale; quasi
tutto il dizionario di Manzoni si esaurisce all’interno dei primi
dieci capitoli. Ciò accade perché è rigida la norma linguistica
del romanzo: le parole sono usate per quello che significano
«propriamente». L’invenzione linguistica non è la caratteristica
dello scrivere di Manzoni: il suo stile si affida molto più alla
sola sintassi. E di questo dà prova lo stesso resoconto elettronico,
registrando varianti continue, e talvolta stravaganze sintattiche.
Fin qui il computer
rimane nel suo campo preferito: fa sfoggio di enigmi statistici, che
affascinano molto, ma dicono poco di nuovo; o meglio spiegano con
gran pompa di grafici complicati, di colonne fitte di numeri, ciò
che a naso s’intuisce assai prima. E qualcosa di simile accade, se
si resta alla legge dei grandi numeri, delle alte ricorrenze di
parola. I vocaboli di maggiore frequenza dei Promessi sposi risultano
«Casa» e «Parola» fra i sostantivi; «Grande» e «Buono» tra
gli aggettivi; «Bene» e «Poco» tra gli avverbi. Gli aggettivi e
gli avverbi di più alta ricorrenza rispecchiano con lampante ovvietà
il clima morale del romanzo; mentre i due sostantivi ci riportano a
nuclei tematici assai noti.
Gli esercizi elettronici
che fanno più spettacolo rischiano dunque di risultare superflui;
confermando impressioni di lettura già espresse, rendono comunque
credibile il computer. Il calcolatore elettronico tuttavia serve
anche ad altro, diventa davvero efficace per i dati che offre sui
piccoli numeri. La lettura di un testo, quando è fatta da un uomo, è
sempre una lettura emotiva; diventa un modo di leggere che porta a
sognare parole che non esistono, ma insieme a cancellare ciò che
Invece può essere evidente.
La lettura elettronica,
al contrario, fredda ma esatta, segnala — senza alcuna emozione —
ogni minimo particolare che significhi o meno qualcosa. E ciò accade
tanto più, quanto più complessa è la struttura di un testo, quanto
più accanita, ragionata, calcolata ne è stata la scrittura.
Quel birbone senza
artigli
Il cervello elettronico
va istruito con infinita pazienza: deve apprendere la grafia, la
grammatica, la sintassi di un testo, con le loro continue varianti,
coli le loro eccezioni; e poi ancora il discorso diretto e indiretto,
1 possibili accoppiamenti di parola, i sinonimi e i contrari, 1
limiti dei diversi campi semantici entro cui vanno e vengono i
vocaboli. Se le regole sono state rispettate a dovere, la lettura del
computer, riportando ai precisi contesti, può promuovere avventure
infinite di confronti e contrasti, può portare a scoprire incontri
verbali di nonsense, oppure inconsuete associazioni di parola,
che rivelano protezioni o condanne d’autore, può svelare qualche
lapsus assai strano.
Ci sono, per esempio,
molti «galantuomini» nel romanzo, pochi invece sono i
«brav’uomini»: fra di essi, comunque, a sorpresa, compare don
Rodrigo, proprio quando si parla della sua «scellerata» passione
per Lucia. Quest’errore di misura espressiva rende salva la
fanciulla (prediletta dall’autore) dalla «turpe» persecuzione di
quell’uomo. Don Rodrigo è un «birbone» senza artigli,
complessato, evirato nella propria cattiveria: anche i «santi»
tuttavia hanno i loro difetti segreti. Nel capitolo V, fra Cristoforo
arriva molto ansioso alla casa di Lucia e ne ascolta il resoconto
sull’oltraggio di don Rodrigo. La fanciulla rivolge una domanda al
plurale: «Non ci abbandonerà padre?». Renzo e Agnese sono lì,
presenti, «tutt’orecchi». Fra Cristoforo incurante parla invece,
non è dato sapere perché, al singolare. «Con che faccia»,
risponde, «potrei io chieder a Dio qualcosa per me, quando v'avessi
abbandonata». Abbandonata, dice proprio, non abbandonati,
cancellando d’un colpo Renzo e Agnese.
Sono questi due esempi
soltanto delle infinite paroline segrete d’un testo. Poi ci sono i
passaggi più complessi. Nel capitolo primo la parola con maggiore
frequenza è «due»: questo «due» fa coppia costante con don
Abbondio, diventa la misura espressiva del curato, lo qualifica come
l’uomo del dubbio e insieme della scelta forzata, lo umanizza tanto
più nella propria paura. La lettura pedante del computer procura
infinite emozioni, può portare a piccole o grandi scoperte. Insegna
tuttavia una cosa più importante di tutte: a restare dentro il
testo, a seguirne fino in fondo le regole, senza imporne di diverse.
“la Repubblica”, 27
giugno 1985
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