«Noi poeti si comincia
in allegria; / ma infine ne deriva abbattimento e pazzia» dice un
celebre distico di William Wordsworth. Esso ha trovato numerose
conferme nel Novecento, ad esempio nella «generazione perduta»
degli anni 20: Pound, Fitzgerald, Hemingway... A richiamare alla
mente il declino di Hemingway provvedono le opere postume che i suoi
editori continuano a mettere fuori, e che del vigore del suo primo
periodo conservano rare tracce. Da parte loro, i critici si sono
accaniti sull’idolo crollato in maniera tutta hemingwayana.
Nel 1964 uscì Festa
mobile, memoriale della bohème parigina, in cui si denunciarono
livori e meschinerie. Nel 1970 fu il turno di Isole nella
corrente, che piacque ancora meno. Arriva ora, giusto a 25 anni
dalla morte, Un’estate pericolosa, rivisitazione della
corrida per cui qualcuno ha parlato di «macelleria sbronza», mentre
all’orizzonte si annuncia Il giardino dell’Eden, romanzo
che più degli altri testi postumi e piaciuto ai critici americani,
ma che è proprio la storia di uno scrittore fallito.
Un’estate pericolosa
(trad. di Vincenzo Mantovani, Milano, Mondadori, pp. 275, L. 25.000)
nacque nel 1959 come un reportage per «Life», che voleva ripetere
il successo del numero tutto dedicato a Il vecchio e il mare
nel 1952. Allo scopo inviò il sessantenne laureato Nobel nelle arene
spagnole a vedere cos’era rimasto del mondo della corrida ai cui
egli aveva ragionato in Morte nel pomeriggio (1932). Ma
qualcosa non funzionò. «Ritornato alla Finca Vigìa (Cuba)» scrive
Giovanni Cecchin nel suo utile Invito alla lettura di Hemingway
(Milano, Mursia, pp. 180, L. 5.000), lo scrittore «cerca di mettere
in ordine gli appunti, ma il progettato articolo di 10.000 parole si
allarga smisuratamente sino a divenire un incubo di 688 pagine
dattiloscritte che lo esaurisce. Deve ora ridurlo, non ce la fa da
solo e ne è sconvolto. Si fa aiutare da Hotchner: “Hotch, sto
crollando, non ce la faccio più a scrivere”».
Il canovaccio sfuggito di
mano a Hemingway passò così ai redattori di «Life» che ne
ricavarono, senza molta soddisfazione, ciò che serviva loro. Ora la
Scribner’s ha tentato un altro restauro e pubblica una più ampia
redazione di 200 pagine, facendola precedere da una prefazione di 50
pagine di James A. Michener, noto per i suoi best-seller sulla Spagna
e altro. Il risultato è meno infelice di quanto non ci si possa
aspettare e può essere un modo per avvicinare il precocemente
vecchio Hemingway in crisi.
Il testo è tutto
centrato sulla sfida fra due stelle dell’arena, Luis Miguel
Dominguin, il favorito di Picasso, e suo cognato Antonio Ordonez.
«Hem» cerca di tenersi equidistante, tanto più che Dominguin lo
tratta con deferenza e dedica un toro alla moglie Mary, ma in realtà
tifa sfacciatamente per Ordonez, su cui proietta tutta la sua volontà
di primeggiare, laddove in Dominguin surclassato e amareggiato dal
brillante cognato possiamo intravedere una parte più vera del
vecchio reporter. Seguiamo i due matador da una plaza de toros a
un’altra e sentiamo la prosa di Hemingway vibrare sulla lama del
rasoio del momento della verità. Egli cerca delle espressioni
semplici che risultino nuove e aderenti alla vita autentica dei suoi
beniamini, i quali difendono una corrida classica in un contesto in
cui essa sta rapidamente divenendo una farsa turistica. Fra l’uomo
e il toro nell’attimo del passaggio di petto «non si intravede
nessuna luce» (e formule analoghe); il toro «non si accorge di
essere morto», tanto perfetta e indolore è stata l’uccisione. Fra
l’uomo e l’animale c’è un patto profondo, non odio, giacché
il primo deve insegnare al secondo a morire, spesso organizzandone ed
educandone i riflessi prima di poter compiere i passaggi più
pericolosi. Così la corrida, questa «faccenda di denaro e di
morte», non è troppo lontana dalle cose che più premono agli
uomini: il piacere, il dolore, il coraggio, il potere...
Tutto ciò però Papà
Hem non lo teorizza, come aveva fatto con la voce un po’ chiocchia
di Gertrude Stein in Morte nel pomeriggio, ma lo dà per
acquisito nelle sue descrizioni di combattimenti, brevi conversazioni
con Antonio e Luis Miguel, serate passate sulla spiaggia a mangiare e
bere, qualche emozione ulteriore strappata alla meglio alle
circostanze, le ragazze di Pamplona, il lupo di Saelices:
«Ispezionammo il bestiame, il pollaio, le stalle e l’armeria, e io
entrai nella gabbia di un lupo che era stato appena catturato nei
paraggi e lo feci giocare, con grande spasso di Antonio. Il lupo
sembrava sanissimo e le probabilità che fosse idrofobo mi parevano
molto scarse e allora pensai che l’unico rischio che correvo era
che mi mordesse: perché dunque non entrare nella gabbia a vedere se
si poteva giocare con lui? Il lupo era molto simpatico e riconosceva
chi amava i lupi». Hemingway un po’ recita la parte che si è
scelta nella letteratura del secolo, ma la sua prosa descrittiva
imitata dovunque non fa pesare la cosa, anzi rende memorabili questo
e altri episodi.
Morte nel pomeriggio
era un libro sconclusionato ma tutto di Hemingway. Con Un’estate
pericolosa ci lascia perplessi sapere che abbiamo a che fare con
una redazione voluta dall’editore, insomma con un falso. Michener
ci dice che il testo «era prolisso, a tratti sconclusionato, e
appesantito da inutili minuzie sull’arte della corrida», e che i
redattori hanno deciso di tagliare tutti gli episodi riguardanti
altri toreri per lasciare che i due contendenti campeggiassero in un
duello tutto americano. Certo che così leggiamo pagine che
altrimenti difficilmente avremmo conosciuto.
È una faccenda
paradossale ed emblematica. Nella plaza de toros l’uomo è solo con
l’animale, e così voleva essere Hemingway con la scrittura. Ma la
celebrazione dell’ardimento solitario si compie in un’opera che è
essa stessa una corrida fallita, nella quale lo scrittore non ha
avuto ragione del materiale e ha dovuto chiamare a soccorso i suoi
aiuti. Un’ingloriosa celebrazione della gloria, dunque, un barare
delle circostanze, che cospirano a confermare che la
corrida-letteratura è divenuta fenomeno di massa, turismo, merce. Il
lettore-spettatore può illudersi che tutto sia regolare, ma le corna
del toro sono state segate.
Le corrispondenze non
finiscono qui. Hemingway tifava per Ordonez, in una proiezione di
machismo che potrebbe celare un’attrazione omosessuale. E il
primato, già dubbio, di Antonio, ebbe breve vita. «Negli anni che
seguirono», dice Michener, «lo vidi battersi forse due dozzine di
volte, e immancabilmente si coprì di vergogna... era goffo e
sfuggente, terrorizzato — evidentemente — da ogni toro, se era un
vero toro, col quale doveva misurarsi. Ricorreva a tutti i trucchi
più spregevoli, proprio quelli che Hemingway disprezzava, usando
malamente sia la cappa sia la muleta e uccidendo la bestia con
un’ignobile botta al volo laterale».
Alla paura ai Ordonez
possiamo porre accanto quella di David Bourne, l’eroe di Il
giardino dell’Eden (il suo nome significa «limite»): «Quando
quel giorno smise finalmente di scrivere era pomeriggio. Aveva
cominciato una frase appena era andato in studio e l’aveva finita
ma non riusciva a scrivere nient’altro. La cancellò e cominciò
un’altra frase e di nuovo arrivò al vuoto completo. Conosceva la
frase successiva ma non sapeva scriverla. Ricominciò con una
semplice frase dichiarativa... In capo a due ore era ancora lì. Non
gli riusciva di scrivere più d'un periodo, e i periodi erano sempre
più semplici e banali. Lavorò quattro ore prima di riconoscere che
la volontà non serviva... Lo ammise senza accettarlo, chiuse e
ripose il quaderno con le file di righe cancellate».
Meglio comunque il
silenzio dei trucchi. Meglio quel colpo di fucile che svegliò Mary
Hemingway la mattina del 2 luglio di venticinque anni fa.
“l'Unità”, 2 luglio
1986
Nessun commento:
Posta un commento