30.4.16

L'ultimo Hemingway (Massimo Bacigalupo)

«Noi poeti si comincia in allegria; / ma infine ne deriva abbattimento e pazzia» dice un celebre distico di William Wordsworth. Esso ha trovato numerose conferme nel Novecento, ad esempio nella «generazione perduta» degli anni 20: Pound, Fitzgerald, Hemingway... A richiamare alla mente il declino di Hemingway provvedono le opere postume che i suoi editori continuano a mettere fuori, e che del vigore del suo primo periodo conservano rare tracce. Da parte loro, i critici si sono accaniti sull’idolo crollato in maniera tutta hemingwayana.
Nel 1964 uscì Festa mobile, memoriale della bohème parigina, in cui si denunciarono livori e meschinerie. Nel 1970 fu il turno di Isole nella corrente, che piacque ancora meno. Arriva ora, giusto a 25 anni dalla morte, Un’estate pericolosa, rivisitazione della corrida per cui qualcuno ha parlato di «macelleria sbronza», mentre all’orizzonte si annuncia Il giardino dell’Eden, romanzo che più degli altri testi postumi e piaciuto ai critici americani, ma che è proprio la storia di uno scrittore fallito.
Un’estate pericolosa (trad. di Vincenzo Mantovani, Milano, Mondadori, pp. 275, L. 25.000) nacque nel 1959 come un reportage per «Life», che voleva ripetere il successo del numero tutto dedicato a Il vecchio e il mare nel 1952. Allo scopo inviò il sessantenne laureato Nobel nelle arene spagnole a vedere cos’era rimasto del mondo della corrida ai cui egli aveva ragionato in Morte nel pomeriggio (1932). Ma qualcosa non funzionò. «Ritornato alla Finca Vigìa (Cuba)» scrive Giovanni Cecchin nel suo utile Invito alla lettura di Hemingway (Milano, Mursia, pp. 180, L. 5.000), lo scrittore «cerca di mettere in ordine gli appunti, ma il progettato articolo di 10.000 parole si allarga smisuratamente sino a divenire un incubo di 688 pagine dattiloscritte che lo esaurisce. Deve ora ridurlo, non ce la fa da solo e ne è sconvolto. Si fa aiutare da Hotchner: “Hotch, sto crollando, non ce la faccio più a scrivere”».
Il canovaccio sfuggito di mano a Hemingway passò così ai redattori di «Life» che ne ricavarono, senza molta soddisfazione, ciò che serviva loro. Ora la Scribner’s ha tentato un altro restauro e pubblica una più ampia redazione di 200 pagine, facendola precedere da una prefazione di 50 pagine di James A. Michener, noto per i suoi best-seller sulla Spagna e altro. Il risultato è meno infelice di quanto non ci si possa aspettare e può essere un modo per avvicinare il precocemente vecchio Hemingway in crisi.
Il testo è tutto centrato sulla sfida fra due stelle dell’arena, Luis Miguel Dominguin, il favorito di Picasso, e suo cognato Antonio Ordonez. «Hem» cerca di tenersi equidistante, tanto più che Dominguin lo tratta con deferenza e dedica un toro alla moglie Mary, ma in realtà tifa sfacciatamente per Ordonez, su cui proietta tutta la sua volontà di primeggiare, laddove in Dominguin surclassato e amareggiato dal brillante cognato possiamo intravedere una parte più vera del vecchio reporter. Seguiamo i due matador da una plaza de toros a un’altra e sentiamo la prosa di Hemingway vibrare sulla lama del rasoio del momento della verità. Egli cerca delle espressioni semplici che risultino nuove e aderenti alla vita autentica dei suoi beniamini, i quali difendono una corrida classica in un contesto in cui essa sta rapidamente divenendo una farsa turistica. Fra l’uomo e il toro nell’attimo del passaggio di petto «non si intravede nessuna luce» (e formule analoghe); il toro «non si accorge di essere morto», tanto perfetta e indolore è stata l’uccisione. Fra l’uomo e l’animale c’è un patto profondo, non odio, giacché il primo deve insegnare al secondo a morire, spesso organizzandone ed educandone i riflessi prima di poter compiere i passaggi più pericolosi. Così la corrida, questa «faccenda di denaro e di morte», non è troppo lontana dalle cose che più premono agli uomini: il piacere, il dolore, il coraggio, il potere...
Tutto ciò però Papà Hem non lo teorizza, come aveva fatto con la voce un po’ chiocchia di Gertrude Stein in Morte nel pomeriggio, ma lo dà per acquisito nelle sue descrizioni di combattimenti, brevi conversazioni con Antonio e Luis Miguel, serate passate sulla spiaggia a mangiare e bere, qualche emozione ulteriore strappata alla meglio alle circostanze, le ragazze di Pamplona, il lupo di Saelices: «Ispezionammo il bestiame, il pollaio, le stalle e l’armeria, e io entrai nella gabbia di un lupo che era stato appena catturato nei paraggi e lo feci giocare, con grande spasso di Antonio. Il lupo sembrava sanissimo e le probabilità che fosse idrofobo mi parevano molto scarse e allora pensai che l’unico rischio che correvo era che mi mordesse: perché dunque non entrare nella gabbia a vedere se si poteva giocare con lui? Il lupo era molto simpatico e riconosceva chi amava i lupi». Hemingway un po’ recita la parte che si è scelta nella letteratura del secolo, ma la sua prosa descrittiva imitata dovunque non fa pesare la cosa, anzi rende memorabili questo e altri episodi.
Morte nel pomeriggio era un libro sconclusionato ma tutto di Hemingway. Con Un’estate pericolosa ci lascia perplessi sapere che abbiamo a che fare con una redazione voluta dall’editore, insomma con un falso. Michener ci dice che il testo «era prolisso, a tratti sconclusionato, e appesantito da inutili minuzie sull’arte della corrida», e che i redattori hanno deciso di tagliare tutti gli episodi riguardanti altri toreri per lasciare che i due contendenti campeggiassero in un duello tutto americano. Certo che così leggiamo pagine che altrimenti difficilmente avremmo conosciuto.
È una faccenda paradossale ed emblematica. Nella plaza de toros l’uomo è solo con l’animale, e così voleva essere Hemingway con la scrittura. Ma la celebrazione dell’ardimento solitario si compie in un’opera che è essa stessa una corrida fallita, nella quale lo scrittore non ha avuto ragione del materiale e ha dovuto chiamare a soccorso i suoi aiuti. Un’ingloriosa celebrazione della gloria, dunque, un barare delle circostanze, che cospirano a confermare che la corrida-letteratura è divenuta fenomeno di massa, turismo, merce. Il lettore-spettatore può illudersi che tutto sia regolare, ma le corna del toro sono state segate.
Le corrispondenze non finiscono qui. Hemingway tifava per Ordonez, in una proiezione di machismo che potrebbe celare un’attrazione omosessuale. E il primato, già dubbio, di Antonio, ebbe breve vita. «Negli anni che seguirono», dice Michener, «lo vidi battersi forse due dozzine di volte, e immancabilmente si coprì di vergogna... era goffo e sfuggente, terrorizzato — evidentemente — da ogni toro, se era un vero toro, col quale doveva misurarsi. Ricorreva a tutti i trucchi più spregevoli, proprio quelli che Hemingway disprezzava, usando malamente sia la cappa sia la muleta e uccidendo la bestia con un’ignobile botta al volo laterale».
Alla paura ai Ordonez possiamo porre accanto quella di David Bourne, l’eroe di Il giardino dell’Eden (il suo nome significa «limite»): «Quando quel giorno smise finalmente di scrivere era pomeriggio. Aveva cominciato una frase appena era andato in studio e l’aveva finita ma non riusciva a scrivere nient’altro. La cancellò e cominciò un’altra frase e di nuovo arrivò al vuoto completo. Conosceva la frase successiva ma non sapeva scriverla. Ricominciò con una semplice frase dichiarativa... In capo a due ore era ancora lì. Non gli riusciva di scrivere più d'un periodo, e i periodi erano sempre più semplici e banali. Lavorò quattro ore prima di riconoscere che la volontà non serviva... Lo ammise senza accettarlo, chiuse e ripose il quaderno con le file di righe cancellate».
Meglio comunque il silenzio dei trucchi. Meglio quel colpo di fucile che svegliò Mary Hemingway la mattina del 2 luglio di venticinque anni fa.

“l'Unità”, 2 luglio 1986

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