Marchesa
Colombi fu lo pseudonimo di Maria Antonietta Torriani (Novara
1846-Milano 1920), una scrittrice e giornalista che fece parte del
primo movimento italiano per l'emancipazione femminile, nel giro di
Anna Maria Mozzoni.
Fu anche moglie, dal 1975, di Eugenio Torelli-Viollier, il fondatore
e primo direttore del “Corriere della sera”, ma si separò presto
da lui. Conferenziera efficace, è nota soprattutto come autrice di
novelle e romanzi, originariamente pubblicati a puntate sulla stampa
femminile o nei supplementi domenicali dei quotidiani.
È
autrice anche di una sorta di galateo moderno, borghese La
gente per bene. Leggi di cortesia, che
uscì per la prima volta nel 1877 per le Edizioni del Giornale delle
Donne e che trovò la sua forma definitiva, nella seconda edizione,
“migliorata e accresciuta”, stampata nel 1878 dall'editore Morano
di Napoli. Notevoli mi paiono del libretto, che ho trovato in una
bancarella, la capacità di restituirci l'odore di un tempo e di un
mondo perduto e l'ironia sempre garbata e talora pungente che
accompagna la sua scrittura. Riprendo qui il primo capitolo della
prima parte, intitolata Pagine
rosee (S.L.L.)
Il
bimbo
In
tutte le leggi umane, ad ogni diritto fa riscontro un dovere. Ma il
bimbo, piccino, inconsapevole, fragile come il vetro, ed imperioso
come un sultano, fa solo eccezione alla legge generale.
Per
lui tutto è diritto, nulla è dovere.
Gli
Inglesi, più seri, più freddi di noi, malgrado le loro esclamazioni
continue sulla famiglia, sull’Home, passano metà dell’anno
girovagando in paesi stranieri, e pel poco tempo che rimangono at
home, hanno provato il bisogno d’inventare la nursery, una
camera a parte, dove relegano i bambini colle nutrici e le bambinaie.
Noi
invece amiamo meglio la famiglia, la casa in cui passiamo tutta la
vita. I bimbi non ci disturbano, non li isoliamo. Vivono con noi.
Sono padroni di tutto 1’appartamento. Impariamo il loro linguaggio
monco, e nell’intimità ne adottiamo la nomenclatura strampalata;
li mettiamo a tavola con noi; vegliamo ai loro bisogni, li
vezzeggiamo, li chiamiamo con nomignoli graziosi ed insensati, Ninì,
Rirì, Lolò; conosco un bimbo che ha nome Fulvio, ed è chiamato
Fufù.
È
il giorno di ricevimento. La signora ha molte visite.
Ad
un tratto risuonano alte grida; non ci si intende più a discorrere.
È Mimì che si desta; e significa alla famiglia su cui regna,
ch’egli è stanco della posizione orizzontale. La mamma sorride di
beatitudine; se occorre, lascia un momento la compagnia e corre ad
esprimere con un bacio la sua ammirazione per quelle gesta del
piccolo despota. Nessuno pensa a biasimarlo ; figurarsi ! — Sono
così carine e commoventi quelle note scordate d’una vocina di
bimbo.
Mimì
fa il suo ingresso in sala nelle braccia della nutrice. Qualche cosa
di grave lo preoccupa ; s’ è sognato male ; è ancora di cattivo
umore. Egli non si degna di salutare la compagnia ; all’ invito
della mamma di compiere colla sua manina quell’ atto di civiltà,
alza le spalline rosee, e nasconde il volto in seno alla balia,
presentando la sua personcina... dal rovescio. È ancora nei suoi
diritti. E poi Mimì è così bellino da tutte le parti.
Avete
un amico di famiglia a pranzo; la mamma ha sorvegliato gli apparecchi
con affetto. Mimì troneggia vestito di bianco sul seggiolotto.
Egli
osserva che il babbo e la mamma fanno ogni maniera di cortesie a quel
vecchio signore, che essi sono felici di ospitare. Pensa che egli
pure deve, come rappresentante della famiglia, dimostrare la sua
deferenza all’ospite intimo e caro. E togliendosi dai labbruzzi il
proprio cucchiaino non completamente vuoto, lo porge rovesciato al
vecchio commensale. Tutti sorridono. Mimì sente d’aver compreso
bene il suo dovere, e per incoraggiare l’invitato ad accettare la
sua offerta gli carezza il volto colla manina unta.... Com’è
gentile Mimì!
Eppure
Melchiorre Gioia dice che è atto inurbanissimo il palpare il
volto ad un proprio eguale e peggio se maggiore d’età; e su
questo argomento non transige neppure cogli Dei, e scaglia acerbi
rimproveri ad Omero, per la sconvenienza d’averci
rappresentata Teti, in atto di palpare volto a Giove. Ma il bimbo è
più padrone nel mondo che gli Dei nell’Olimpo.
La
nutrice entra con Mimì in una chiesa. Mimì ha il sentimento
musicale sviluppatissimo. L’organo lo commove piacevolmente ; ed
egli accompagna con modulazioni che va improvvisando quelle note
solenni. Tutti si voltano, la nutrice gli dice che quella è la casa
del Signore. Ma Mimì è superiore a queste considerazioni. I
lumicini dell’altare lo divertono, è al colmo del tripudio, ed è
troppo sincero ed espansivo per dissimularlo, e si dà a far galloria
con sussulti, e grida, e contorcimenti.
Il
sacerdote intuona le litanie, il pubblico fa coro. Quelle voci alte,
discordi, stonate, offendono il senso artistico di Mimì. Egli
esprime con alte strida il suo disgusto, la sua disapprovazione.
La
balia ha avuto torto di esporlo a quella contrarietà. Ma Mimì ha
ragione. Egli è logico e schietto. La sua legge è l’istinto. Non
ne conosce altre.
Finché l'uomo non fruisce dell’intelligenza e della parola, i due grandi e fatali privilegi dell’umanità, il mondo non domanda nulla da lui...
Finché l'uomo non fruisce dell’intelligenza e della parola, i due grandi e fatali privilegi dell’umanità, il mondo non domanda nulla da lui...
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