30.4.16

Ritratto di Céline (Alberto Capatti)

Nel 1932, la Francia si appassiona ad un «caso letterario». L’opera del dottor Ferdinand Destouches, Viaggio al termine della notte, successivamente fallisce il premio Goncourt, vince quello Renaudot e si rivela un best-seller. La personalità dell’autore, nascosto dietro lo pseudonimo Céline, vi ha molto contribuito: un medico, bello ed elegante, che esercita in un quartiere popolare; un quarantenne, romanziere per caso, solo per caso, che rilascia interviste e non polemizza con la penna; un ex-combattente infine, pluridecorato ma senza l’ombra di una fierezza marziale. Scrive in una lingua incanaglita dalle ascendenze popolari, indottrinata da un’arte fine del pastiche, sublime per la tensione retorica che l’anima. Vende e piace. Piace molto, anche ai rotocalchi. Il suo viaggio attraverso la guerra e il dopoguerra è di un pacifismo da codardi d’istinto; più che un viaggio, un monologo, ora esasperato ora piagnucoloso, che convince.
Dopo il Viaggio, Morte a credito: altro successo, sforbiciato dalla censura preventiva dell’editore, altra testimonianza, prima della grande guerra, vicina al cuore decrepito dell’800. La questione delle origini del XX° secolo, riviste con la memoria di un parigino di estrazione piccolo borghese, non è irrilevante: nel 1936, Hitler è già al potere, Parigi vacilla fra il Fronte Popolare, la guerra di Spagna e una destra rissosa. Céline canta la miseria e gli ultimi palloni aerostatici. Ma in lui non c’è nostalgia, o piuttosto lo anima una gioia feroce e distruttiva nei confronti di una Francia povera, sgangherata, malsana.
Il dottor Destouches, divorziato, cerca la compagnia delle ballerine, cura le malattie sociali e, nel 1937, misura, col metro della penna, l’entità del disastro europeo. Lo fa, con il linguaggio, l’intemperanza, l’accanimento di un discorso antisemita. Diventerà e resterà il suo stile discorsivo anche quando la prudenza o la vergogna avranno riconvertito i più fascisti. E Céline paga di persona, paga fino in fondo, con una rabbia senza respiro, tutte le persecuzioni verbali, prima inflitte da lui agli altri, ebrei, borghesucci, proletari, poi farneticate fra sé e sé, infine sancite dai tribunali. Dopo la guerra, un processo, una galera (in Danimarca) e un’amnistia, il medico in doppiopetto assomiglia ad un barbone: ne ha i tic, la diffidenza, lo sproloquio, tutto salvo l’alcoolismo. Continua a considerare i connazionali come una razza di degenerati. Torna il successo, prima di morire. È il pallido sole su un corpo scarnificato, scheletrito dall’odio.
Non c’è un solo motivo di onorare, studiare e divulgare Céline, se non se ne accetta, nella tragedia personale, la legittimità del delirio. Il suo razzismo fa parte della storia europea, degli annali novecenteschi, ma non come tale appare plausibile. Quando esplode, al di là di ogni ragionevole o razionale freno, allora diventa un indicatore di culture nazionali, alimentate dalla paura e dalla fobia, Invecchiate fra rimpianti omicidi. Le inclinazioni maligne, grette, crudeli dei suoi pazienti, il dottor Destouches le coltivava per necessità, pur sanandone il corpo. Aveva bisogno delle magagne e dei tradimenti, per credere almeno in qualcosa, o per avere l’impressione di curare, di pensare. L’inumano, nel cuore della più banale, scialba umanità, la morte, al centro della reazione più istintivamente vitale: un principio terapeutico ed etico distorto quanto certe ideologie totalitarie di destra.
Perseguitare per venire perseguitati, urlando sempre la propria innocenza. Nell’economia di un’esistenza, può sembrare una semplice, lampante, patologia paranoide. Non così, con due guerre, gli studi di igiene e la galera, un successo letterario e dieci anni di silenzio involontario, vergognoso. Céline, è chiaro, farnetica sempre, ma la chiave di lettura delle sue giaculatorie e dei suoi piagnistei, pare oggi la medesima che riserviamo alla declamazione dei grandi attori tragici. Barcollando fra la simulazione e la più schietta sincerità, ha detto tutto l’irripetibile, particolarmente in campo politico. Non c’è sconcezza razziale che non gli abbia servito da spunto; non c’è conformismo col quale non abbia fatto sbellicare dalle risa i propri lettori. Per questo, è uno scrittore che ancora oggi non funziona: insincero, disproporzionato, lercio, tagliente, squisito.
Vagheggiava la danza, il corpo perfetto delle ballerine, e riempiva di merda le trincee, le caserme, le case: neanche questa pazzia gli verrà perdonata. Che abbia sognato la bellezza, conferendo un ritmo, un passo giusto alla turpitudine, è stata l’ultima sua indecenza. Aveva tutto per piacere, ha tentato di farlo fino in fondo, fino al disgusto. È inutile riservargli una discreta e postuma ovazione. Del resto, dagli anni 50 in poi, amerà solo i cani e i gatti, rintanato in una villetta di periferia a scrivere Nord e Il ponte di Londra. Non voleva capir nulla delle automobili sempre più numerose, delle vacanze estive e della televisione. Lo intervistavano e sembrava uscito da un copione allucinato.
Quando Bébert, il suo micio più vecchio, muore, nel 1953, magro, sfiancato, pelle ed ossa, Céline lo sostituisce con un pappagallo, Toto. Gli vivrà accanto, negli ultimi anni. Era l’ultimo testimone, accettato, apprezzato, alla sua tavola di lavoro.


“l'Unità”, 2 luglio 1986

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