Nel 1932, la Francia si
appassiona ad un «caso letterario». L’opera del dottor Ferdinand
Destouches, Viaggio al termine della notte, successivamente
fallisce il premio Goncourt, vince quello Renaudot e si rivela un
best-seller. La personalità dell’autore, nascosto dietro lo
pseudonimo Céline, vi ha molto contribuito: un medico, bello ed
elegante, che esercita in un quartiere popolare; un quarantenne,
romanziere per caso, solo per caso, che rilascia interviste e non
polemizza con la penna; un ex-combattente infine, pluridecorato ma
senza l’ombra di una fierezza marziale. Scrive in una lingua
incanaglita dalle ascendenze popolari, indottrinata da un’arte fine
del pastiche, sublime per la tensione retorica che l’anima.
Vende e piace. Piace molto, anche ai rotocalchi. Il suo viaggio
attraverso la guerra e il dopoguerra è di un pacifismo da codardi
d’istinto; più che un viaggio, un monologo, ora esasperato ora
piagnucoloso, che convince.
Dopo il Viaggio,
Morte a credito: altro successo, sforbiciato dalla censura
preventiva dell’editore, altra testimonianza, prima della grande
guerra, vicina al cuore decrepito dell’800. La questione delle
origini del XX° secolo, riviste con la memoria di un parigino di
estrazione piccolo borghese, non è irrilevante: nel 1936, Hitler è
già al potere, Parigi vacilla fra il Fronte Popolare, la guerra di
Spagna e una destra rissosa. Céline canta la miseria e gli ultimi
palloni aerostatici. Ma in lui non c’è nostalgia, o piuttosto lo
anima una gioia feroce e distruttiva nei confronti di una Francia
povera, sgangherata, malsana.
Il dottor Destouches,
divorziato, cerca la compagnia delle ballerine, cura le malattie
sociali e, nel 1937, misura, col metro della penna, l’entità del
disastro europeo. Lo fa, con il linguaggio, l’intemperanza,
l’accanimento di un discorso antisemita. Diventerà e resterà il
suo stile discorsivo anche quando la prudenza o la vergogna avranno
riconvertito i più fascisti. E Céline paga di persona, paga fino in
fondo, con una rabbia senza respiro, tutte le persecuzioni verbali,
prima inflitte da lui agli altri, ebrei, borghesucci, proletari, poi
farneticate fra sé e sé, infine sancite dai tribunali. Dopo la
guerra, un processo, una galera (in Danimarca) e un’amnistia, il
medico in doppiopetto assomiglia ad un barbone: ne ha i tic, la
diffidenza, lo sproloquio, tutto salvo l’alcoolismo. Continua a
considerare i connazionali come una razza di degenerati. Torna il
successo, prima di morire. È il pallido sole su un corpo
scarnificato, scheletrito dall’odio.
Non c’è un solo motivo
di onorare, studiare e divulgare Céline, se non se ne accetta, nella
tragedia personale, la legittimità del delirio. Il suo razzismo fa
parte della storia europea, degli annali novecenteschi, ma non come
tale appare plausibile. Quando esplode, al di là di ogni ragionevole
o razionale freno, allora diventa un indicatore di culture nazionali,
alimentate dalla paura e dalla fobia, Invecchiate fra rimpianti
omicidi. Le inclinazioni maligne, grette, crudeli dei suoi pazienti,
il dottor Destouches le coltivava per necessità, pur sanandone il
corpo. Aveva bisogno delle magagne e dei tradimenti, per credere
almeno in qualcosa, o per avere l’impressione di curare, di
pensare. L’inumano, nel cuore della più banale, scialba umanità,
la morte, al centro della reazione più istintivamente vitale: un
principio terapeutico ed etico distorto quanto certe ideologie
totalitarie di destra.
Perseguitare per venire
perseguitati, urlando sempre la propria innocenza. Nell’economia di
un’esistenza, può sembrare una semplice, lampante, patologia
paranoide. Non così, con due guerre, gli studi di igiene e la
galera, un successo letterario e dieci anni di silenzio involontario,
vergognoso. Céline, è chiaro, farnetica sempre, ma la chiave di
lettura delle sue giaculatorie e dei suoi piagnistei, pare oggi la
medesima che riserviamo alla declamazione dei grandi attori tragici.
Barcollando fra la simulazione e la più schietta sincerità, ha
detto tutto l’irripetibile, particolarmente in campo politico. Non
c’è sconcezza razziale che non gli abbia servito da spunto; non
c’è conformismo col quale non abbia fatto sbellicare dalle risa i
propri lettori. Per questo, è uno scrittore che ancora oggi non
funziona: insincero, disproporzionato, lercio, tagliente, squisito.
Vagheggiava la danza, il
corpo perfetto delle ballerine, e riempiva di merda le trincee, le
caserme, le case: neanche questa pazzia gli verrà perdonata. Che
abbia sognato la bellezza, conferendo un ritmo, un passo giusto alla
turpitudine, è stata l’ultima sua indecenza. Aveva tutto per
piacere, ha tentato di farlo fino in fondo, fino al disgusto. È
inutile riservargli una discreta e postuma ovazione. Del resto, dagli
anni 50 in poi, amerà solo i cani e i gatti, rintanato in una
villetta di periferia a scrivere Nord e Il ponte di Londra.
Non voleva capir nulla delle automobili sempre più numerose, delle
vacanze estive e della televisione. Lo intervistavano e sembrava
uscito da un copione allucinato.
Quando Bébert, il suo
micio più vecchio, muore, nel 1953, magro, sfiancato, pelle ed ossa,
Céline lo sostituisce con un pappagallo, Toto. Gli vivrà accanto,
negli ultimi anni. Era l’ultimo testimone, accettato, apprezzato,
alla sua tavola di lavoro.
“l'Unità”, 2 luglio
1986
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