Fra la vita di un uomo e
la sua opera letteraria esiste una relazione complessa: legami che
sentiamo intimi e irrevocabili e che tuttavia non hanno nulla di
ovvio. Leggiamo un romanzo, un poema; indebitamente, forse, ma con
umana curiosità, ci interroghiamo sull'individuo-scrittore che è
dietro di essi; e il più delle volte ne siamo ripagati con un
viaggio in un territorio infido, che spesso ci confonde le carte
della lettura o ci costringe a grossolane approssimazioni. Il
rischio, però, non ci scoraggia.
Quando l'artista di cui
invochiamo un profilo attendibile si chiama Miguel de Cervantes (e
perciò è in gioco una parte profonda della nostra stessa identità
culturale) il problema si fa più acuto, ma nella sua incertezza,
nella sua eventuale oscurità o torbidezza, anche più affascinante.
Ed è logico che continuiamo a chiederci: chi era in realtà, come
viveva, cosa pensava l'uomo dalla cui mente è uscito uno dei grandi
miti della civiltà moderna?
Dopo secoli di ricerche
pazienti, l'autore del Don Chisciotte è ancora, per noi, una
personalità in controluce: una figura sfumata, sfuggente, che i dati
in nostro possesso non affrancano da lacune insidiose, da pregiudizi
tenaci e spesso contraddittori. Si è detto che era un borghese, un
eroico soldato, un discendente di ebrei convertiti. Si è visto in
lui un geniale improvvisatore (un ingenio lego), poi un letterato
colto, di solida formazione umanistica. E ancora: un tendenziale
laico con propensioni erasmiane, un cattolico di stretta osservanza,
un reazionario, un ribelle. Le sue opere abbondano di memorie
indirette dell'uomo così come dell'epoca in cui visse, ma sono un
coacervo di ambiguità e di doppi messaggi per chi intenda ricavarne
indizi, suggerimenti obbiettivi. E i presunti ritratti? Perfino
questi ci ingannano: dei due attribuiti a Jauregui, uno è senza
dubbio un falso, l'altro non ritrae Cervantes, a quanto pare, ma un
certo conte de Uceda...
Com'era, dunque, il volto
di questo autore che si nasconde al nostro sguardo, di questo hidalgo
povero, che negli anni fra il Cinque ed il Seicento si sposta
incessantemente per la Spagna di Filippo II e III e sembra simulare o
rincorrere, scrivendo, la saldezza di un decoro sociale che stenta a
realizzarsi? Probabilmente, il massimo poeta della letteratura
spagnola fu anche un personaggio emblematico: un uomo che attestò
con i suoi gusti, col suo carattere, con la sua stessa precarietà
economica, un trapasso storico di mentalità e di culture.
Ma che cos'è in gioco
esattamente, quando ne scrutiamo i pochi eventi che ci sono noti? La
decadenza dell'universalismo cattolico e dell'egemonia spagnola in
Europa? Quella disfatta o tramonto della seconda cavalleria che
Arnold Hauser, in un'acuta pagina della Storia sociale dell'arte,
vide non soltanto nel Don Chisciotte ma anche nei modi e nei
disagi sociali del suo grande autore? O anche qualcosa d' altro?
[...] Immaginiamo
Cervantes giovane poco dopo la metà del Cinquecento: oscuro
cavaliere in cerca di fortuna, costretto, forse, a difendersi dalla
taccia di cristiano nuevo (quell'origine ebraica che segna un
discrimine sociale ineludibile, allora, per chiunque ne venga
sospettato); transfuga, prima, in Italia, poi soldato nell'armata che
sconfigge i turchi a Lepanto dov'è ferito e perde l'uso di una mano;
quindi rapito dai pirati barbareschi e trasportato ad Algeri, dove
resta in cattività per cinque anni, finché un riscatto non gli
consente di tornare in patria e di iniziare, finalmente, la carriera
letteraria. E' come leggere una vita romanzata, un novella d'
avventure a metà fra picaresca e moresca...
“la Repubblica”19
luglio 1987
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