13.4.16

“Non chiamatemi ribelle”. Intervista a Lou Castel (Elfi Reiter)

GLI OCCHI, LA BOCCA, LA VOCE RITROVATA
Un incontro che ci fa scoprire come ha vissuto all'estero l'attore che è stato il simbolo di una generazione, dai «Pugni in tasca» di Bellocchio all'impegno politico interrotto per estradizione

Ospite del Torino International Film Festival essendo tra gli interpreti del nuovo film di Tonino De Bernardi, Casa dolce casa, abbiamo incontrato Lou Castel per parlare della sua vita tra una forte militanza politica e il lavoro di attore. Nato a Bogotà nel 1943, padre svedese emigrato e madre irlandese, era cresciuto in vari luoghi, tra cui Giamaica e New York. Ha frequentato il Centro sperimentale di Roma per studiare recitazione e ha esordito nel film manifesto della ribellione negli anni sessanta, I pugni in tasca di Marco Bellocchio. Un ruolo che gli rimane addosso come marchio, il giovane ribelle provocatore che massacra la propria famiglia (sul piano simbolico ovviamente, la morte della famiglia era un tema frequente nel cinema degli anni settanta), e molti registi italiani lo chiameranno a interpretare personaggi inquietanti (da Damiani a Lizzani, da Festa Campanile a Ferrara). Quell'aria inquietante però è anche e soprattutto fonte inestinguibile di turbamento per creare le più svariate figure dis/turbanti, e non a caso Liliana Cavani lo scrittura per Francesco D’Assisi e per (il quasi sconosciuto perché scomodo) Galileo (nel 69); Rainer Werner Fassbinder lo vuole in Attenzione alla puttana santa (71); Bellocchio lo richiama nel 72 per Nel nome del padre e dieci anni dopo per Gli occhi, la bocca; Chabrol gli affida il ruolo di terrorista di sinistra nel suo affresco politico-rivoluzionario ispirato alle vicende della Raf in Germania e delle Br in Italia Sterminate il Gruppo Zero girato nel 1974. Recita a Berlino guidato da Helke Sander in DerBeginn aller Schreckenist Liebe (t.l. L'inizio di ogni terrore è l'amore, nell'84) e, ormai trasferitosi in Francia, è con Raul Ruiz (La presenza reale, L’isola del tesoro, entrambi nell'85), Philippe Garrel (Elle a passé tants d’heures sous les sunlights...) nell'85 e più tardi nel più noto La naissance de l’amour con Jean Pierre Léaud. Entra in contatto con Gérard Courant, cineasta, scrittore, critico e poeta francese tra i più prolifici nel campo sperimentale, per partecipare alla sua opera mammuth Cinématon (da Cinéma e photomaton) composta da tantissimi brevi ritratti delle più diverse personalità del mondo della cultura in generale (da Samuel Fuller a Youssef Chahine, da Arrabal a Jean François Lyotard, Otto Sander, François Mitterand, Félix Guattari, per nominare alcuni degli attualmente 2.716 ritratti raccolti). Lo stesso Lou Castel (il cui ritratto è il numero 501) ha iniziato da tempo a creare le proprie opere (in video) seguendo uno schema di inquadrature fisse di più o meno lunga durata nel tempo.

Ci racconti il tuo iter da attore a autore e viceversa?
La mia prima regia risale al 1998, quando realizzai Just in time con Robert Kramer (chi non ricorda i mitici film Route One e Doc’s Kingdom di questo grandioso cineasta di origini Usa morto a soli sessantanni nel 1999 in Francia? ndr). La storia narrata in tredici minuti, vedibile su youtube, si può riassumere in tre parole: sesso, pistole e droga. Avevamo capito da subito che eravamo uguali... A partire da lì era nata per me una ricerca durata alcuni anni per cui producevo inquadrature fisse con un determinato numero di immagini che poi moltiplicavo dapprima sedici volte, poi nove e infine sei volte, creando un
legame col fattore tempo, usando vari argomenti, evitando il montaggio. Per porre fine a questo periodo avevo spaccato la lente del proiettore.

Per passare a quale arte?
Nel 1999 mi sono operato all'anca e volevo fare 99 dipinti di un metro quadrato, una visione cronologica, poi ridotti a quadrati di 33 centimetri. Ne ho realizzati cinquanta. Ora sono arrivato al rettangolo, più piccolo, colorati nella più pura astrazione.

•Sei stato assente dall’Italia per oltre ventanni, come mai?
Me n'ero andato negli anni ottanta, uno dei motivi, non l'unico, era che all'epoca nel cinema italiano c'era il cosiddetto volto-voce degli attori italiani, per cui molti doppiatori avevano trovato una loro faccia e una loro notorietà. Mi spiego, all'epoca molti attori erano doppiati, io ero tra quelli e a dire il vero mi sentivo molto alienato. Non avevo voce, ero soltanto un volto, un corpo. Ciò mi aveva creato un'esistenza monca sul piano professionale come attore. A mio avviso questo mio «essere muto» si era poi protratto anche nella mia vita privata. Mi sono sentito come centrifugato, buttato «fuori» dal mondo, e avevo capito - e quindi deciso - che avrei potuto recitare unicamente nel cinema francese, con certi autori però. Con cui poi ho anche lavorato: Philippe Garrel, nel suo La naissance de l'amour, Gerard Courant, Pascal Bonitzer. Ho partecipato anche a un corto, di cui non ricordo il titolo, in cui si era sperimentata per la prima volta la skycam a distanza e la cinepresa volava sopra di me come una farfalla mentre recitavo un monologo.

Prima ancora eri in un paio di film di Wenders, hai girato con Fassbinder in Germania...
Avevo girato un po' l'Europa, ma il mio centro artistico era la Francia, dove uno dei più importanti incontri era Raul Ruiz, nei primi anni ottanta e poi a metà anni novanta per Tre vite e una morte con Marcello Mastroianni: avevamo inventato lì per lì una scena, talmente forte era l'affinità attoriale e Ruiz ci chiese come mai nessuno aveva fatto recitarci assieme prima. Da copione c'era Roland Topor in coppia con me per fare due mendicanti straccioni.

Com’era lavorare con Ruiz?
C'era una gran stima reciproca. Mi conosceva dai precedenti film girati in Italia e Germania, e mi fece recitare liberamente. Era nata un'intensa amicizia intellettuale che ci aveva avvicinato molto, forse per analoghe esperienze vissute? Anche lui veniva dal Sudamerica e la Francia non era il suo paese. Mentre girava, ci raccontava il film come l'aveva in testa, le inquadrature, le scene, i tagli nel montaggio, aveva previsto tutto!
Mi ricordo che rimasi molto impressionato dai suoi racconti e di come si ricordava la prefigurazione di oltre duecento scene. Meraviglioso! E ancor più affascinante sono i suoi lavori più sperimentali, per non parlare di lui come teorico del cinema.
In occasione della sua morte (agosto 2011, ndr) ho ritrovato un suo saggio sul tempo nel cinema, che sono due tempi che si accompagnano vicendevolmente, uno più inciso che determina tempi e forme nel linguaggio cinematografico, e l'altro che scorre, e lui era sempre alla ricerca del primo da far incrociare con l'altro e gli stimoli per il suo sperimentalismo, li prendeva ovunque.

Hai accennato a esperienze politico-culturale tra te e Ruiz, ci racconti un po’ di più?
Forse perché entrambi venivamo da paesi latino-americani? L'aver vissuto in Colombia e nella giungla, credo, abbia influenzato il mio immaginario, ne avevo sentito rumori e profumi, la sua dimensione selvaggia da bambino l'ho sempre vissuta tra choc e sorpresa. Ruiz è stato militante nelle file del partito di Allende. Per entrambi però ai tempi del nostro incontro era già tutto molto cambiato, come lo è oggi rispetto ad allora. Certo, le idee sono sempre le stesse! (sorride) Ricordo che gli portavo i numeri di Alfabeta sul set, avendo sempre con me gli scritti politico-culturali che risalivano ai tempi in cui vivevo a Milano, dove conoscevo l'ambiente attorno alla rivista. Per farla breve, lavorando nel cinema con tutti quegli autori ho potuto portare avanti un discorso politico dopo che qua era finito tutto, dopo il 1979.

In che senso?
C'è stata una sconfitta, benché avessimo cambiato molte cose, dopo la repressione del 7 aprile e gli arresti di Autonomia Operaia. Ci siamo detti piuttosto che farci ammazzare. Del resto ero già stato espulso in modo violento dall'Italia nel 1972, in base a una legge del Codice Rocco per cui potevano dire che ero un elemento pericoloso e chiedere l'espulsione. Assieme a me c'erano alcuni palestinesi, anche loro espulsi.

Perché ti avevano espulso?
Non lo so. Alla conferenza stampa organizzata da un gruppo di cineasti, tra cui Liliana Cavani, per denunciare lamia situazione assurda, in Vico del Piombo c'erano 15 poliziotti ad aspettarmi, perché mi ero nascosto per qualche giorno, mi invitarono a salire in macchina e mi portarono al commissariato centrale. Pensavano fossi armato, mi perquisirono e insultarono, per poi condurmi direttamente a Fiumicino e accompagnarmi fin dentro l'aereo. Per fortuna ci fu un giornalista del “Messaggero” che scattò quella foto di me col pugno alzato mentre salgo sull'aereo. Mi fecero partire senza niente, a inizio inverno, per Stoccolma, che non conoscevo, ma avendo il passaporto svedese... Là mi aspettarono i giornalisti di destra, perché ero il divo italo-svedese! Mi ricordavo il nome di un regista svedese, la cui sorella mi ospitava, mentre da subito c'erano manifestazioni a mio favore essendosi formato un movimento nella scena teatrale e cinematografica. Il gruppo del Filmverlag der Autoren era già al corrente, Wim Wenders mi volle per il suo film La lettera scarlatta e mi chiamò a lavorare con sé. Dopo ero andato su un'isola greca con una scrittrice nel periodo dei colonelli.
Ma il filo conduttore era sempre stato fare l'attore, era la bussola che mi motivava nella mia vita.
Voglio aggiungere due cose sul rapporto con la cinepresa: non ero mai passivo, ho sempre voluto sapere dov'era, fin dove si sarebbe mossa, eccetera. Gli altri attori no. Forse era dovuto a quella separazione tra voce e corpo, tra l'attore che agisce unicamente col corpo e l'attore che parla ripetendo le battute in scena?

Tu che hai vissuto quel periodo in cui si girava e poi si doppiava con altre voci: quali impressioni ti porti dietro?
Di storie del cinema ce ne sono tante, in fondo, a Roma non c'era un vero movimento, incisivo e importante, come lo era quello dei Cahiers du Cinema in Francia. Esisteva Filmcritica, ma non aveva cineasti seguaci per generare qualcosa di innovativo e fondante capace di creare una controcorrente. C'era un «essere nell'azione», come nel mio caso in Pugni in tasca, agito da pulsioni, dagli scatti durante le scene. Questo mio modo di recitare poi è proseguito negli altri film, alternando produzioni autoriali a commerciale, ma al centro rimaneva sempre il mio corpo, il mio agire fisico. La mia storia l'ho fatta così: ho detto no a Visconti e sì a Bellocchio. Nel Gattopardo non mi sarei sentito a mio agio come attore, e in questa scelta era già forte la mia consapevolezza politica. Sembra niente, ma definisce molto bene gli anni settanta.

Intendi il dualismo tra Gattopardo e I pugni in tasca?
Non dei film in sé, ma per quanto riguarda il mio destino. Visconti aveva quasi tutti attori della mia
generazione, mi aveva visto come comparsa nella scena del ballo e mi chiamò per chiedermi se ballavo il tango. Gli dissi di no, lui mi avrebbe voluto, ma la mia giornata di lavoro era già terminata... Ricordo che era un'estate caldissima, girare quella scena in quel palazzo fu un vero inferno, le donne strette nei corsetti svenivano una dopo l'altra, gli uomini stavano in un altro piano, più riparati. Era tutto un po' strano quel dietro le quinte, di cui per altro non si parla mai in generale, di quei rapporti di forza e di potere che si instaurano su un set. Visconti mi aveva notato perché già allora rappresentavo quel che si diceva «un ribelle», termine che mi dava molto fastidio. Ricordo che entrò il direttore di produzione, io ero sdraiato per terra e lui mi disse, in inglese, che non si poteva stare sdraiati e che Visconti mi voleva vedere, subito! Io gli risposi con calma dicendo che mi poteva parlare in italiano e che non c'era bisogno di agitarsi. Eravamo oltre trecento comparse, la scena finita è bellissima! Mi piace molto con tutti quei costumi.

•Toglimi una curiosità: all’epoca non ti hanno fatto dire le battute perché eri straniero e non parlavi un italiano, come dire, perfetto, oppure perché era la prassi, come narrano certe leggende a proposito delle riprese dei film di Fellini, di far dire «un, due tre» agli attori e registrare l’intera colonna sonora in fase di post-produzione?
La mia storia è più complessa. Avevo frequentato i corsi dell'Actor's Studio a Roma in cui insegnavano sia tecniche di recitazione di Strasberg che la transe africana. Subito dopo ho fatto I Pugni in tasca buttandomici con impeto, in tutta la mia vulnerabilità, senza alcuna difesa dalle emozioni del personaggio, e ho inventato la tecnica che poi avrei chiamato «deformazione professionale» in cui usavo unicamente il corpo mosso da scatti nervosi. Una tecnica latente, perché non ne ero cosciente all'epoca. Solo nel 1984 ho scoperto cosa voleva dire recitare, ossia lavorare con la voce. Fu durante le riprese di Campo Europa nelle Cinque Terre, per la regia dello svizzero Pierre Maillard, in cui recitavo in inglese, e quindi la ragione non era la lingua avendo già recitato più volte in inglese mantenendo ferma quella separazione, no, il fattore importante fu il luogo: eravamo sul mare, c'era silenzio, i treni passavano o non passavano, i marinai parlavano a voce alta. Un giorno nel riguardare una scena sul monitor sentivo la mia vocina, piano piano, in lontananza, e tutto d'un tratto mi era salita un'identificazione, dentro. Quella era la «mia» voce?! Di getto scrissi un testo sulla separazione di lavoro che avevo sempre cercato di superare, il montaggio, le posizioni della cinepresa, etc., pensando che erano momenti di interruzione, di rottura, ma avevo capito che fino a quel momento mi ero sentito sdoppiato perché espropriato appunto della battuta.

È stato pubblicato?
Sul catalogo della retrospettiva dedicatami nel 2000 a Parigi.

In che lingua avevi recitato con Bellocchio?
Dapprima in inglese, poi in italiano, anche se non bene, l'ho imparato recitando. Nella figura di Bellocchio vedevo una certa cultura italiana, d'impegno, lucida, il suo creare tensione nel senso positivo - ho incorporato tutto. C'erano stati due registi a farmi recitare in passato: Monicelli e Chabrol. A Monicelli andava bene il mio accento romano per il suo Rosa, in teatro nel 1981 con Carla Gravina. Mi aveva visto come attore comico e aveva ragione! A Chabrol suonava un accento di una certa regione francese e anche per lui ero comico, d'altronde lui ha un humour incredibile! Va aggiunto, forse, che in Francia ho passato alcuni anni felici della mia infanzia, tra i dieci e i tredici anni, nella scuola con pedagogia rivoluzionaria di Freinet (fondata nel 1935 da Céléstin Freinet a Vence fu la prima scuola senza classi, in spazi aperti, supportata dal movimento operaio, dove l'insegnamento era basato sull'espressione libera dei bambini; ndr). Poi c'era il condizionamento di parlare cinque lingue, di cui una sola senza accento, lo svedese. Tardi, ma non troppo ho cominciato a vivere lo spazio attorno a me come casa, e ciò è avvenuto grazie alla pittura. Ero nella casa vuota a Parigi, piena di enormi rulli di plastica trasparente, mi piaceva rollarmici dentro e dipingere sul mio corpo nudo, protetto dalla pellicola, a volte in modo anche violento col colore steso a mani nude nel buio o sul balcone sotto la pioggia. Mi scatenavo per l'effetto finale dove, appena srotolato dalla plastica, la dimensione della pittura era sparita e sentivo attivarsi profondamente dentro di me quella dell'abitare: stavo conquistando un nuovo stare nello spazio. Un fenomeno bellissimo, tuttora lo pratico, in modo diverso, raccogliendo pezzi per strada da cui compongo sculture. Il mio periodo francese è stato per me una vera liberazione, un'apertura in me.

Com’eri passato a suo tempo dal personaggio dei Pugni in tasca al Francesco d’Assisi sotto la guida di Liliana Cavani? Così diversi ma anche simili...
Ci fu una grande distanza: un anno di inattività nonostante il successo del primo film. Ricordo con affetto una visita di Stefania Sandrelli per incoraggiarmi. Poi, improvvisamente, per strada il figlio di Prosperi mi disse che la Cavani faceva i provini per il suo Francesco, c'andai e appena mi vide, disse: è lui! Secondo me, non era proprio così, so che le era piaciuto molto anche un mio amico fotografo che lavorava per un quotidiano di Roma, con cui una volta ero andato in casa di Gina Lollobrigida, giusto per vederla dal vivo! Fu lui, benché non attore, a rappresentare per lei la figura fragile di Francesco d'Assisi, ma poi s'era convinta grazie al rapporto instauratosi durante il provino, analogo a quanto era avvenuto con Bellocchio. Un episodio stranoto: la cinepresa pronta, lui dà «azione», sento il click, la macchina non parte e io scoppio in un fou rire, per cui rido a crepapelle e lui grida felice: è lui, è lui! Per me fu davvero comico il fatto che la cinepresa non fosse partita. Poi, dopo Francesco arrivò il ruolo nel western Quien Sabe? di Damiani, seguito da Requiesciant di Lizzani, personaggio nuovamente opposto. Questo alternarsi si era fermato nel 68 con Grazie zia!, opera prima di Salvatore Samperi, che in modo sbagliato vedevo come continuazione dei Pugni in tasca, quando fu un film molto creativo e sperimentale e il regista aveva scelto me perché avevo appena recitato con Aldo Braibanti, accusato di plagio, in una pièce sperimentale.

Un compagno di strada di Alberto Grifi.
Ho girato con lui Virulentia, dove Grifi sperimentava coi suoi obiettivi. Mi fece vedere un video poco prima di morire, una delle ultime volte che venne a Parigi per mostrare le sue opere vidigrafate, era diventato un vero scienziato del cinema! Eravamo un bel gruppo allora, con Aldo,
Alberto e altri, ci divertivamo un sacco, negli anni sessanta. È curioso come di quel gruppo poi non fosse rimasto quasi nulla. In Germania, ne parlo perché sono appena tornato da Berlino dove ho partecipato a una manifestazione sulle esperienze teatrali negli anni sessanta, c'era l'Aktionstheater e una volta sciolto ognuno ha intrapreso carriere diverse, da Werner Schroeter a Fassbinder, da Margarethe von Trotta, Hanna Schygulla E non è importante quello che facevano dopo, ma bisogna immaginare che erano un gruppo di amici che vivevano e lavoravano insieme nella quotidianità. Come avevamo fatto noi, e il tema a Berlino era proprio questo: condividere esperienze artistiche nel quotidiano per poi elaborarle professionalmente.


Alias – il manifesto, 5 gennaio 2013

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