Pino Donaggio: "Da ragazzo avevo un sogno: diventare violinista" |
«Avevo un sogno negli
anni di conservatorio, diventare un grande violinista, un solista
richiesto dai teatri di tutto il mondo. Il destino ha deciso
diversamente». Al telefono, dalla sua casa di Venezia, Pino Donaggio
racconta a “la Lettura” le svolte della sua vita, dalla musica
classica a Sanremo, dal Festival al cinema. Domenica 15 aprile
riceverà il Premio Ubi Banca Milano per la Musica, un riconoscimento
che dal 1991 è stato attribuito ad artisti come Carlo Maria Giulini,
Lorin Maazel, Salvatore Accardo, Ennio Moricone, Carla Fracci,
Riccardo Chailly. Quest’anno, al Festival di Sanremo, Donaggio era
il presidente della Giuria degli esperti. Sempre a Sanremo, nel 2015,
aveva ricevuto il Premio alla carriera.
Cominciamo da Sanremo,
dove tutto ebbe inizio.
«Era il 1961, avevo
mandato alla selezione una canzone, Come
sinfonia; fu ammessa al concorso. Io volevo che a cantarla
fosse Mina, ma aveva già due canzoni e il regolamento non ne
permetteva di più. Mina mi disse: Cantala tu. Io provo. Per il
direttore artistico Ezio Radaelli va bene. E così cominciò la mia
carriera come cantante e autore».
Come sinfonia
ebbe subito un grande successo. Però allora non scriveva solo
canzoni diciamo così «sinfoniche».
«Certamente no, c’era
un twist, Giovane giovane, e motivi pop come Il cane di stoffa,
Villaggio sul fiume, Pera matura».
Dieci volte a Sanremo
come autore e interprete, più due solo come autore, ma l’anno più
importante è il 1965, l’anno di Io che non vivo (senza te).
«Sì, e anche lì giocò
il destino. La cantante inglese Dusty Springfield, che partecipava al
Festival ma non arrivò in finale, ascoltò la canzone, le piacque e
al ritorno in Inghilterra ne chiese i diritti. L’anno dopo,
nell’edizione in inglese, You Don’t Have to Say I Love You
vendette milioni di dischi in tutto il mondo».
Anche Elvis Presley
volle cantarla. A tutt’oggi si calcolano 70-80 milioni di copie
vendute.
«Non lo so, ho smesso di
contarle».
Lei scriveva sempre
anche le parole delle sue canzoni. Per Io che non vivo invece
il testo è di Vito Pallavicini.
«Era un momento in cui
avevo molti impegni, così chiesi le parole a Pallavicini,
grandissimo autore di testi. Negli anni Sessanta c’erano lui e
Mogol. Si dividevano le cover: Mogol traduceva dall’inglese,
Pallavicini dal francese. Poi Mogol incontrerà Battisti e insieme
daranno vita a un’incredibile stagione creativa. Pallavicini non ha
avuto un Battisti, però ha scritto Azzurro».
Tra le canzoni
presentate a Sanremo ce n’è qualcuna che secondo lei meritava di
più?
«Sì, Motivo d’amore,
del 1964. Quell’anno ero in una buona accoppiata, con Frankie
Avalon. Il testo era mio. C’è un verso della canzone che mi
piaceva molto, pensavo facesse effetto: “Io ti ringrazio perché te
ne vai”. Invece la canzone passò quasi inosservata».
All’inizio degli anni
Settanta c’è un’altra svolta. Anche qui c’entra il destino?
«Senz’altro. Era il
1973, a Venezia. Stavano girando un film, Don’t Look Now (in
Italia diventò A Venezia... un dicembre rosso shocking), con
Donald Sutherland e Julie Christie. Il regista era l’inglese
Nicolas Roeg, che ancora non aveva trovato le musiche. Bene, una
notte, mentre tornavo da una serata, su un vaporetto mi nota uno dei
produttori italiani del film. Mi riconosce, e pensa che l’avermi
incontrato su quel vaporetto sia un segno del destino. Così mi
cerca, parliamo e lui mi chiede se voglio scrivere le musiche per
quel film. È un lavoro per me sconosciuto, però decido di provare.
Il risultato piace, e la mia prima colonna sonora vincerà quell’anno
un premio».
Scrivere musiche per
film, per lei, era un po’ come tornare alle composizioni classiche,
per orchestra.
«Nel 1975, Brian De
Palma stava cercando la musica per Carrie, pensava a Bernard
Herrmann, il compositore che aveva firmato i capolavori di Hitchcock,
Psycho, Vertigo, La donna che visse due volte,
L’uomo che sapeva troppo. De Palma e Herrmann avevano già
lavorato insieme, ma in quel momento il musicista era impegnato con
Martin Scorsese, per Taxi Driver: quella fu la sua ultima
partitura, morì infatti nel dicembre del 1975. Ma ecco di nuovo il
caso, o meglio, il destino: un amico di De Palma, a Londra, vede
Don’t Look Now e rimane impressionato dalla mia musica.
Compra l’Lp e glielo manda. E De Palma si fa proiettare il film di
Nicolas Roeg. Mi chiama, vuole che vada in America, a Los Angeles.
Arrivo e sono ospite in casa sua, dormo nel suo studio. Io non
parlavo inglese, ma il montatore dei film di Brian, Paul Hirsch,
figlio di un diplomatico americano che aveva vissuto a Roma, ci fa da
interprete. A De Palma piace l’impiego degli archi che ho usato nel
film di Roeg, gli ricorda lo stile di Herrmann. Mi fa vedere e
rivedere Carrie e mi mostra i momenti dove va la musica.
Comincio a comporre i temi».
Dal 1975 a oggi – in
questi giorni Donaggio registra la musica per il nuovo film di De
Palma, Domino – regista e compositore hanno lavorato insieme
in otto film («Sempre e solo per “film di paura”», dice
Donaggio). Per tanto tempo, prima dell’evoluzione della rete, il
rapporto era piuttosto complicato.
«Sì, io vedevo il film
a Los Angeles, tornavo a Venezia a comporre, registravo le musiche e
tornavo a Los Angeles. Solo allora De Palma ascoltava la musica del
suo film, c’era un effetto sorpresa che rendeva tutto molto
particolare. De Palma si affidava a me, e mi dava molto tempo per
scrivere. Non come spesso succede oggi, in Italia per esempio, che si
chiede la musica all’ultimo minuto e ti mettono una fretta
tremenda. Anche perché comporre musica per film non è come scrivere
una canzone».
Tra i film di De Palma
che lei ha musicato, per molti il capolavoro è Dressed to Kill –
Vestito per uccidere – del 1980, un omaggio ad Alfred
Hitchcock e al suo Vertigo.
«Sì, la sequenza
della visita al museo cita la visita al museo di Kim Novak nel film
di Hitchcock. Ma non c’è solo quella scena... Per quel che
riguarda la musica, anch’io mi sono ispirato alla partitura di quel
film, firmata da Herrmann. I violini soprattutto... La sequenza del
museo è molto importante per me. Perché non ci sono parole, solo le
immagini e la musica. De Palma non usa mai tante parole, lascia
parlare le immagini e la musica. Per questo mi piace lavorare con
lui».
Carrie, Vestito
per uccidere, Blow Out di De Palma. Ma nella sua
filmografia troviamo anche Dario Argento (Zombie), Joe Dante
(Piranha, L’ululato) e un gotico Pupi Avati, L’arcano
incantatore. Lei, Donaggio, ha una predilezione per il thriller,
l’horror?
«Io non sono solo il
musicista dei “film di paura”: ho scritto musiche per commedie,
film comici, serie tv come Don Matteo. Però nei thriller,
negli horror la musica diventa un elemento fondamentale: nelle scene
spaventose, di tensione, di suspense, non ci sono dialoghi, solo
immagini e musica. È qui che la musica diventa importante, perché
deve prendere lo spettatore e accompagnarlo, spingerlo fino al
momento in cui resterà scioccato».
“la Lettura –
Corriere della Sera”, 8 aprile 2018
Nessun commento:
Posta un commento