Trent’anni fa, 1987,
Bompiani editava il catalogo di una mostra tenuta a Torino su
progetto di Leonardo Sciascia, che univa fotografia e letteratura
attraverso il tema del ritratto fotografico. E in copertina Ignoto
a me stesso. Ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis
Borges poneva proprio una delle più celebri icone di Poe, il
dagherrotipo un po’ danneggiato di Marcus Root (1848/49, dunque
dell’ultimissimo scorcio di vita del soggetto) oggi conservato
all’Eastman Houses’s International Museum of Photography,
Rochester, New York. Poe vi compare con la mano sinistra infilata nel
panciotto, nella posa un po’ rigida di tante foto del tempo; ma ad
attrarre è ovviamente il volto. “La forma (…) era ovale, un
ovale i cui contorni sembravano, di un tratto, scivolare verso il
mento dalla linea molto classica, ma soprattutto, quando sorrideva,
davvero molto avvenente”, ricorda con simpatia un contemporaneo, il
medico e scrittore Thomas Holley Chivers (“at the same time one of
the best and one of the worst poets in America”, a maliziosa detta
di Poe), però qui il volto è serio, quasi duro. “A proposito di
teste – la mia è stata esaminata da diversi frenologi – i quali
hanno tutti parlato di me in un modo stravagante che mi vergogno di
riportare”, scrive sornione Poe stesso in una lettera all’amico
scrittore Frederick W. Thomas (27 ottobre 1841).
In realtà nella foto
cogliamo soltanto una fronte alta e capelli ribelli: e a colpire è
piuttosto qualcos’altro. Se infatti l’ovale del viso sembra
sfuggire, quasi l’obiettivo non riuscisse a fermarlo, la messa a
fuoco è sugli occhi che attraggono magneticamente. Occhi che fissano
il fotografo nel suo gabinetto di metà Ottocento ma, dietro di lui,
fissano noi a distanza di un secolo e mezzo: come a scrutarci dentro
– pensiamo ai rovelli psichici di cui i racconti di Poe offrono
descrizione e rivelazione, fino ai limiti ultimi dell’imbarazzante
– o a pretendere di rispecchiarci, in uno di quei giochi di doppi e
di provocazioni identitarie che tanto lo ossessionano. Se poi a
questo punto ci prendessimo la briga di andare a esaminare altri
ritratti (la raccolta definitiva è quella curata da Michael J. Deas,
The Portraits and Daguerreotypes of Edgar Allan Poe,
University of Virginia 1989, oggi a disposizione anche sul prezioso
sito della Edgar Allan Poe Society of Baltimore) ci accorgeremmo di
come sia una costante che quel viso cambi e sfugga, mentre a restar
fermi, lucidi e febbrili sono sempre gli occhi.
La foto della mostra
progettata da Sciascia recava anche una citazione dai Marginalia
di Poe: “Se qualche ambizioso avesse una fantasia da rivoluzionare,
con uno sforzo, il mondo universale del pensiero umano, dell’opinione
umana e del sentimento umano, l’occasione è sua, la strada verso
la gloria immortale giace dritta, aperta, sgombra davanti a lui.
Tutto quello che ha da fare è di scrivere e di pubblicare un
piccolissimo libro. Il titolo dovrebbe esser semplice, alcune parole
semplici: ‘Il mio cuore messo a nudo’. Ma questo piccolissimo
libro dev’essere fedele al titolo”. Come a dire che veramente a
nudo il cuore non lo mettiamo mai, o – se si preferisce – che il
nostro volto è sempre sfuggente, cangiante come in questi ritratti,
mascherato: qualcosa che per Poe figlio di attori e in qualche modo
attore lui stesso, tutta la vita, rappresenta una spudorata evidenza.
Monumentale
raccolta
Tale preambolo non sembra
inutile di fronte alla monumentale raccolta delle Lettere di
Poe, ottimamente curata da Barbara Lanati per i tipi il Saggiatore
(pp. 757, € 48, Milano 2017). Il corpus dell’epistolario corre
per 332 testi di varia lunghezza, dal 1824 (il nostro, quindicenne,
sottoscrive una richiesta dei Giovani Volontari di Richmond al
governatore della Virginia per poter trattenere in custodia le armi
loro affidate durante il trionfale passaggio dell’anziano La
Fayette negli States) al 1849, con tre lettere composte una ventina
di giorni prima della tragica e misteriosa morte. Un volume di grande
importanza per migliorare la conoscenza in Italia di un autore
evergreen ma in genere assoggettato all’ipoteca dei luoghi
comuni, restituendogli così in certo modo carne e sangue; per la
possibilità di gettare uno sguardo, almeno idealmente, tra scrivania
e cassetti del suo laboratorio, e per così dire sul making of di
opere celeberrime; per la stessa opportunità di cogliere da
quest’ottica viva lo spaccato di un intero mondo americano della
prima metà dell’Ottocento in cui il nostro nasce, si forma (a
parte una breve parentesi in Gran Bretagna) e si afferma via via, e
di cui la curatrice offre a margine notazioni essenziali. Un volume
insomma prezioso per capire Poe. Anche se poi davanti a queste pagine
– e ciò ne rappresenta in fondo un ulteriore motivo di fascino –
il recensore è tenuto a ricalibrare tutte le affermazioni appena
espresse.
Anzitutto perché di
questo mondo americano noi cogliamo uno spaccato molto settoriale.
Vano cercare nelle lettere riflessioni sulla questione abolizionista
o sulle guerre coeve contro i nativi americani, sulla politica o le
scelte amministrative, sui profili dei presidenti o le vicende
elettorali: gli interessi di Poe sono altri, e l’amministrazione
(alle cui posizioni si allinea senza problemi) sembra toccarlo
soltanto per un possibile impiego pubblico che risolverebbe cronici
problemi di sussistenza. Qui troviamo invece un grande affresco
sull’editoria di un’epoca e il ruolo vivacissimo delle riviste,
per quanto destinate spesso a vita breve, o talora ad abortire
nonostante frenetici preparativi, come il “Penn Magazine” – poi
“The Stylus” – vagheggiato da Poe; sulla politica culturale, le
questioni del copyright e la nascita faticosa di una letteratura
americana in cui Edgar cerca sgomitando di trovare un ruolo, con idee
molto precise e ambizioni grandiose; sulla vitalità della poesia,
coltivata da innumerevoli autori e su cui egli (che nasce poeta,
prima che novellista, e anche nelle prose insuffla spesso fiati
poetici) reca consigli, lodi o censure. Un mondo di cacciatori
d’autografi e di lettere continue, ma anche di plichi postali in
continuo transito per mandare in visione agli amici qualcosa che poi
dovranno rinviare indietro (i postali dei film western della nostra
infanzia mostrano qui un peso nuovo); un mondo di polemiche al calor
bianco tra le colonne dei giornali e le lettere di risposta da
pubblicare o meno, usate come pugnali per regolamenti di conti
professionali o sentimentali. La Lettera rubata del celebre
racconto riceve da questo contesto di plichi trasmessi, dispersi,
magari persino rivenduti di nascosto, connotati persino più vividi e
materiali. D’altra parte Poe parla con competenza di pagine,
qualità di carta, caratteri, colonne, margini, rilegature,
copertine, tecniche di stampa e ovviamente prezzi: e chiunque abbia
svolto la professione del redattore, in particolare di riviste, trova
in questo cronico sognatore un approccio di concretezza e un richiamo
alla dignità di un lavoro che fa inorgoglire. Mentre i recensori che
oggi si interrogano sul senso di un proprio ruolo incontrano in lui
un patrono d’eccezione.
Il laboratorio
d’autore
Ma ai distinguo
sull’affresco storico si affiancano quelli sul suo laboratorio
d’autore. In qualche lettera Poe effettivamente parla dei propri
testi narrativi o poetici (il senso del cripticissimo Al Aaraaf,
le soddisfazioni per Morella e Ligeia, i successi del
Corvo…), per sottolineare quali ritenga migliori,
puntualizzare aspetti tematici, promuovere pubblicazioni; ma sulla
massa dell’epistolario si tratta in fondo di casi non frequenti.
Poe del resto ha altri canali per la riflessione critica, sia come
saggista che (appunto) come attivissimo recensore. L’epistolario
insomma, per quanto utile a comprendere singoli aspetti dell’opera
del Poe autore, tocca la materia dell’(auto)esegesi solo
saltuariamente; mentre il nesso è in genere indiretto, di stagione
in stagione, attraverso i giochi di emozioni, le spudoratezze, le
depressioni e gli istrionismi sottostanti prosa e poesia, e che
finiscono col rendere questo corpus epistolare una vera e propria
opera letteraria a sé.
Il che traghetta d’altra
parte alla questione successiva, che è però insieme la stessa da
cui siamo partiti: i distinguo cioè su carne e sangue di un autore,
sulla sua autenticità di pensieri ed emozioni come avvertibili in
queste pagine. L’epistolario può definirsi, secondo la formula da
lui ipotizzata, “Il mio cuore messo a nudo”? Certamente no, o
almeno non nel modo più ovvio. Dalle lettere concilianti o sdegnate
scritte da ragazzo al padre adottivo John Allan fino a quelle
indirizzate – tra ambiguità ed enfasi – alle donne dell’estrema
stagione da vedovo, ma in realtà per tutto il lungo corso dei suoi
scambi, il volto che emerge come nelle foto è appunto quello
sfuggente, cangiante di maschera in maschera tra disvelamenti e
autofiction, drammi autentici e teatro, fantasie affabulatorie (che a
volte assomigliano tanto a menzogne patenti) e verità sghembe,
dolorose. Un’ambizione che trascolora nella ricerca d’amore, un
continuo appellarsi ai più vari interlocutori proclamando l’unicità
di quel loro legame ai fini di raccogliere denaro o aiuti, un
macchinare tra il tortuoso e il candido sistemi di difesa dagli
attacchi di un mondo che non gli perdona gli eccessi alcolici –
peraltro spesso negati, con una spudoratezza che flirta con
l’autoconvinzione – e a cui lui non le manda a dire: dove lo
scarto ambiguo tra ciò che sappiamo dalla biografia e ciò che Poe
lascia intendere all’interlocutore del momento obbliga a porci
continue domande. Domande che forse, con la fantasia del “cuore
messo a nudo”, pone in realtà già a se stesso.
Qualunque pretesa
d’indagare i testi di Poe e i relativi fantasmi come proiezioni
cliniche è destinata a fallire di fronte al sofisticato, beffardo e
controllatissimo lavoro autorale che li giustifica; ma una cautela
almeno simile pretende questo epistolario, dove certamente
incontriamo l’uomo Poe in frustrazioni e impennate, sussieghi e
sofferenze, ma sempre con lo scarto di tratti che sfuggono. Ci
restano quegli occhi incredibili, che guardano al futuro. “La mia
vita è capriccio – impulso – passione – brama di solitudine –
disprezzo delle cose del presente e febbrile desiderio del futuro”,
scrive a James R. Lowell, 2 luglio 1844. E a Nathaniel P. Willis, 30
dicembre 1846: “La verità è che ho moltissime cose da fare, e ho
deciso di non morire finché non le avrò fatte tutte”. Poi ad
Annie L. Richmond, post 5 maggio 1849, “La mia tristezza è
inesplicabile e questo mi rende ancora più triste. Ho molti cupi
presagi, nulla mi rallegra o mi conforta. La mia vita sembra sprecata
– il futuro appare come un vuoto desolato. Ma continuerò a lottare
‘contro ogni speranza’”. Muore pochi mesi dopo, il 7 ottobre,
ma in effetti continua con quegli occhi a scrutarci dentro.
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