Nell'agosto del 2004, in una serie intitolata “Mi ricordo”,
pubblico non pochi interessanti articoli su eventi dell'Italia
recente oramai passati dalla cronaca alla storia, costruiti sul filo
della memoria personale. Tra di essi questo di Vincenzo Vasile che
ricostruisce la figura del giornalista Mauro De Mauro, la sua tragica
e misteriosa scomparsa, le indagini e i depistaggi dopo il suo
rapimento. Lo scenario è la Palermo degli anni 60 e primissimi
Settanta, quella in cui ho trascorso anch'io alcuni anni intensi e
“bellissimi”, almeno nel ricordo, e c'è uno spazio speciale per
l'altra Palermo, per “L'Ora”, per il movimento
studentesco: in alcuni passaggi la mia memoria si sovrappone a quella
di Vasile. Ma l'articolo, pieno di figure e di fatti, scritto con una
forte capacità di evocazione e di scavo, è, secondo me, - per
chiunque abbia un minimo di interesse per le storie palermitane di
quegli anni - di lettura assai utile oltre che piacevolissima.
Ho ripreso da “l'Unità” anche il box in sintesi che
riassume il percorso di vita di Mauro De Mauro.
IN SINTESI
Mauro
De Mauro, giornalista de «L'Ora», il 16 settembre 1970 scompare nel
nulla. Sta per rientrare nella sua abitazione di via delle Magnolie a
Palermo, quando viene visto da una delle figlie: tre uomini salgono
sulla sua Bmw che si allontana. Non farà più ritorno.
Nativo
di Foggia, in Puglia, volontario nella Decima Mas, De Mauro aveva
iniziato la sua carriera giornalistica durante la Repubblica Sociale
Italiana. Catturato a Milano nei giorni della liberazione, fu
imprigionato a Coltano. Nel 1948 venne processato a Bologna per
presunti reati commessi durante la guerra civile, ma venne assolto
per insufficienza di prove. In seguito la corte di Cassazione lo
prosciolse completamente, invalidando direttamente la prima
assoluzione.
Trasferitosi
a Palermo, nel 1959 divenne redattore del celebre quotidiano «L'Ora»,
per il quale condusse, nell'arco di un decennio, numerose inchieste
sul fenomeno mafioso. Poco prima di essere sequestrato, ebbe
l'incarico dal regista Francesco Rosi di compiere alcune ricerche
sugli ultimi giorni di vita del presidente dell'Eni Enrico Mattei, a
cui il regista dedicò poi il film con Gian Maria Volontè.
Era
un tipo strano. La sua faccia apparve in mezzo al telegiornale (a
quei tempi uno solo, in bianco e nero). Era il 18 settembre 1970,
stavo in albergo a Pesaro. Una faccia che conoscevo. Il bozzo sul
naso. La cicatrice sulla fronte. Quella specie di ghigno, che forse
era un sorriso. E a quel punto D. disse con voce febbrile: «Vicè,
guarda..., Mauro De Mauro, il giornalista del L'Ora,
il papà di Junia, ma che è successo?».
Il
conduttore stava leggendo: «I familiari e i colleghi del giornalista
del quotidiano palermitano della sera L'Ora,
Mauro De Mauro hanno lanciato un appello: da due giorni non è
tornato a casa.». Junia a Palermo non la trovammo, stava in Questura
ad aspettare. E quando parlammo erano silenzi e sospiri. Stringeva il
cuore pensare che la più brillante delle ragazze del «movimento»
vivesse un tale dramma. Noi proseguimmo, sbalestrati, la nostra
vacanza culturale: il Festival del Nuovo Cinema, il primo film del
cileno Miguel Littin, e Salomè di Carmelo Bene, un'ostica
«personale» di Garrel. Erano passati due anni dal Sessantotto, e
già si discuteva del «riflusso», Lino Micciché spiegava che può
essere politico anche un film apolitico, ogni tanto pioveva.
De
Mauro era un tipo strano. La redazione del L'Ora era un enorme, unico
stanzone. Il suo posto avvolto in una nuvola di fumo, nel cassetto la
bottiglia, come nei film americani. Si occupava prevalentemente di
morti ammazzati, l'argomento non ci interessava granché.
«Lo
sai come s'è rotto il naso e la gamba quel De Mauro? I partigiani se
lo sono messi sotto, gli hanno fatto pagare le torture di quando era
nella Decima Mas». «No, fu un incidente d'auto». «Sì, ma sbatté
contro un tronco che avevano messo in mezzo quelli della brigata
Garibaldi».
«E
adesso scrive sul giornale dei comunisti. ». «Ma dai, quelli del
L'Ora sono come una repubblica autonoma, è gente strana, senza
tessera. Il Pci mette i soldi, e basta.». «Guarda che De Mauro
scrive come un dio, e l'altra volta ha pubblicato una pagina
splendida sui morti del luglio Sessanta». «Sì, ma l'avrai visto
che si scorda di dire che erano manifestazioni antifasciste. presenta
la cosa come una rivolta di disperati». «A Palermo fu anche questo
l'8 luglio ‘60, un'insurrezione senza obiettivi: ha ragione De
Mauro». «Il fatto è che voi a Palermo siete proprio strani.».
«Vabbè, ma io quel mestiere lì, il giornalista, non lo farei mai:
improvvisazione, pressappochismo, strani giri. ».
Vediamo:
De Mauro quando sparì aveva quarantanove anni, e mi sembrava un
vecchio, non solo perché di anni ne avevo ventuno, ma perché quel
suo mezzo secolo, a pensarci bene, l'aveva attraversato con la furia
di un bisonte. Non sapevamo tante cose: che era stato sospettato e
processato come l'unico italiano che avesse sparato alle Fosse
Ardeatine, e che era stato assolto. Non sapevamo che aveva militato
nelle Ss, in quelle tedesche, o in quelle italiane, come adesso leggo
in un libro dello storico Massimiliano Griner (uno che in quei giorni
del '70 stava nascendo). Sapevamo su per giù che nel '48, dopo
l'evasione da un «campo» per collaborazionisti, De Mauro era
approdato a Palermo, con una carta d'identità che portava un altro
nome.
Andavamo
all'Università. Il mio corso di Filosofia partì con quaranta
«matricole», come una grossa classe di liceo. Ci conoscevamo tutti.
In Filosofia c'era Junia (la figlia di Mauro) che si chiamava così
in onore al principe nero Junio Valerio Borghese, e l'altra sorella,
Franca, che stava a Medicina, come secondo nome faceva Valeria. A
Lettere moderne c'era «un compagno bravo», uno di Cinisi, il
paesone accanto al «nuovo» aeroporto di Punta Raisi. Si chiamava
Peppino Impastato. E L'Ora aveva pubblicato le notizie delle
manifestazioni antimafia contro gli espropri per realizzare le piste,
organizzate dal gruppo di Peppino con alcuni militanti del Pci.
Peppino – venendo a studiare a Paler-mo - s'era iscritto a Lotta
Continua. L'Ora non stava a sottilizzare, raccolse la denuncia di
Impastato, figlio di mafiosi, che fece il nome del capomafia Tano
Badalamenti tra coloro che avevano brigato per la scelta speculativa
dell'ubicazione di quelle piste. Questa, lo so, sembra una
digressione, ma tanti fili si annodano: per esempio don Tano era in
cima alla lista dei mafiosi citati da De Mauro in una di quelle
inchieste che costarono al giornale una bomba mafiosa in rotativa.
Poi De Mauro, versatile, aveva anche scritto il pezzo di «colore» a
Punta Raisi sul primo Dc 8 Alitalia atterrato nel nuovo scalo.
De
Mauro aveva 49 anni, era stato nella Decima Mas e poi era tornato a
Palermo con un'altra identità... e aveva cominciato con L'Ora.
Ai
tempi della nostra «Bella (?) gioventù» sembrava un ben strano
giornalista. Di uno strano giornale. Di una strana città, che -
anche se ci nasci e poi te ne allontani - rimane il tuo «altrove».
La prima volta l'avevo visto – nei primi anni Sessanta – un
pomeriggio in redazione, che dettava per telefono a uno stenografo un
lungo «pezzo» su una faida mafiosa. La voce roca. «Sta leggendo?».
«Macchè, va a braccio». Cioè: senza l'ausilio di alcun testo
scritto. Punteggiatura e capoversi, date giorno mese e anno, nome
cognome età, congiuntivi e condizionali a posto, frasi scattanti, un
miracolo di mestiere, dettato in pillole per telefono al giornale più
innovatore, il Giorno, del presidente dell'Eni Enrico Mattei, di cui
De Mauro era anche il corrispondente siciliano.
A
L'Ora, nel palazzotto di piazzetta Napoli, i ragazzi di sinistra
trovavano un porto di mare abbastanza accogliente. Il direttore, quel
vulcano d'uomo di Vittorio Nisticò, s'era inventato, tra le altre,
una «pagina della scuola»: portavamo notizie, scrivevamo lunghe
«articolesse» che, massacrate da forbici spietate, vedevano qualche
volta la luce. E L'Ora pubblicava anche lo stenografico dei dibattiti
al Centro di cultura, presieduto dal sociologo-profeta Danilo Dolci,
e anche lì a sedici anni davo una mano. Un po' narcisi, la
chiamavamo «l'altra Palermo»: porzione di città non
necessariamente «di sinistra», ma molto curiosa di letture, di
film, di quadri, di dibattiti, la porzione di città che trovava
spazio solo nel giornale della sera.
Quello,
plumbeo e paludato, del mattino semplicemente taceva. Non esistevamo.
Così
quel giorno sentii De Mauro che borbottava qualcosa riguardo al mio
intervento a un dibattito con Leonardo Sciascia. Con l'attenuante
dell'adolescenza, avevo mosso al suo Giorno della civetta,
appena uscito, un'accusa ideologica, sbagliata: non aver valorizzato
la battaglia contadina contro la mafia, per mitizzare, invece, il
protagonista, un capitano dei carabinieri. E Sciascia, paziente, mi
aveva risposto che esistono in Sicilia dove meno te li aspetti,
quindi anche nelle istituzioni, «uomini di tenace concetto» che
vogliono il rinnovamento. E che la sinistra fa male a non ascoltarli.
Più rude, De Mauro mi diede - meritatamente - del cretino.
Quel
timbro cavernoso l'avrei ascoltato in «viva voce» qualche anno più
tardi a un telefono della Questura. Al dirigente della Squadra Mobile
il giornalista palermitano che era più di casa tra gli «sbirri» e
che era noto per essere amico personale del ministro dell'Interno,
Franco Restivo, urlava: «Liberate quei ragazzi». Tra quei venti
«ragazzi» c'eravamo io e sua figlia Junia, beccati dalla polizia a
volantinare un invito alla diserzione scritto in inglese maccheronico
per i marines statunitensi sbarcati dalla portaerei «Nimitz»
attraccata in porto, in piena «escalation» del Vietnam. Peace,
Love, No war. Denunciati per aver violato mezzo codice penale, fummo
«liberati» da quella voce, roca, autorevole. Qualche anno più
tardi, la stessa voce impastata stonò accanto a me Bandiera rossa
che trionferà, un minuto prima che con ardore giovanile io
«ordinassi la carica» contro un picchetto di polizia sulla
scalinata monumentale del Teatro Massimo per la «prima» della
stagione del 1969, bagnata dal sangue dei braccianti di Avola. La
fanciulla del West fu contestata da noi dell'«altra Palermo»,
che stavolta il giornale amico della sera non trattò troppo bene,
perché liberammo una decina di sorci in mezzo alle gambe delle
signore e riverniciammo una Jaguar.
Ma
ho netto il ricordo di De Mauro che se ne stava in groppa a uno dei
due grandi leoni del «Massimo» (precisamente quello scolpito nel
tufo a inizio secolo dal nonno di Francesco Rutelli), e brandiva una
bottiglia di whisky. Con l'aria di divertirsi molto in mezzo a una
nuvola di pietre e di bottiglie di vernice. E siccome i fili dei
ricordi fanno strambi scherzi, si deve anche dire che quella stessa
notte il «movimento» si spostò dal Teatro Massimo alla Facoltà di
Giurisprudenza, che quegli allocchi deicattolici (Sergio D'Antoni,
Gigi Cocilovo, Vito Riggio) avevano avuto l'idea «trasversale» di
«occupare» con voto bipartisan assieme ai fascisti (Pier Luigi
Concutelli, Ciccio Mangiameli). I quali li avevano, subito dopo,
ingloriosamente cacciati, per issare sul portone dell'Università
«centrale» un labaro della Repubblica sociale. Così ci portammo
dietro anche Mauro De Mauro, quella notte a «liberare» l'Università
dagli «eredi» della Repubblica di Salò, nelle cui file Mauro alla
loro età aveva combattuto. Ci si perde in questo gioco di specchi,
in cui molti, troppi, e per ragioni le più diverse hanno fatto una
brutta fine: l'ex fascista De Mauro ucciso non si sa da chi, il
fascista Concutelli all'ergastolo responsabile di un lago di sangue,
il fascista Mangiameli ucciso da altri fascisti, il comunista
Impastato, figlio di mafioso, fatto a pezzi dalla mafia.
Di
De Mauro si è scritto tutto, e si sa niente. È in corso l'ennesima
inchiesta. Trentaquattro anni dopo. L'ultima a vederlo vivo, l'altra
figlia, Franca, ricorda che sulla Bmw accanto al marciapiede di casa
in viale delle Magnolie c'erano tre persone. Con suo papà erano
salite a bordo, e una voce disse «amunì», che significa «andiamo».
Chi si mise alla guida partì a strappi, non doveva essere pratico.
De Mauro li conosceva. Si fidava? Un giornalista investigativo si
fida di tutti e non si fida di nessuno. Ma c'è un momento in cui
oltrepassa come un confine. E quando quella frontiera viene varcata,
la fonte fidata può diventare un Giuda. E il Giuda un boja.
Piombarono
a Palermo decine di giornalisti, la strana vita dello strano
giornalista fu passata al setaccio, nel ventilatore venne messo a
frullare molto veleno, sport locale preferito. Fu un grande, tragico
spettacolo. Con polizia e carabinieri l'una contro gli altri armati
che raccomandavano ai testimoni di nascondere le prove a quegli altri
lì, e dicevano ai giornalisti del L'Ora e ai familiari di non
fidarsi (non fidarsi del corpo di polizia concorrente, della
famiglia, del giornale). Nel mio personale Spoon River palermitano
sale così l'ombra di altri fantasmi: il capitano dei carabinieri
Giuseppe Russo, il commissario della Squadra Mobile Boris Giuliano,
il comandante della Legione dell'Arma, Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Tutti e tre indagarono su De Mauro. Anche loro massacrati dalla mafia
tra il 1979 e il 1982. Ma queste, si dirà, sono altre storie. A
quell'epoca ancora sui giornali non ci scrivevo, ma li leggevo,
avidamente. E leggevamo della pista dei Cc: De Mauro indagava sul
traffico mafioso della droga, aveva scoperto qualcosa, per questo era
stato messo a tacere. Semplice, pressoché banale, nessuna prova. E
leggevamo della contro-pista della polizia: stava indagando per conto
del regista Francesco Rosi sugli ultimi due giorni di vita del
presidente dell'Eni, Enrico Mattei, per questo l'hanno eliminato.
Pista suggestiva, non a caso tutto parte da una sceneggiatura
cinematografica, nessuna prova. Un incastro di misteri, anzi una
«matrioska», qualcuno titolò, ammiccando al giornale «comunista»
per cui lavorava quel balzano, estroverso, mi-sterioso, ex-fascista.
Dosi di veleno saranno destinate anche al suo giornale.
Proprio
per questa strada, un giorno - era sempre il 1970 - la mia vita di
«dirigente del movimento studentesco» tornò a incrociarsi a
sorpresa con quel delitto. Bisogna sapere che l'università di
Palermo era piena di studenti greci, metà spie dei colonnelli, metà
resistenti esuli. Da noi studiava anche il fratello di Alekos
Panagulis, Statis, e da Palermo una mattina partì - dopo decine di
riunioni e una sottoscrizione - una barca a vela che doveva sfidare i
gendarmi dell'isola-prigione dove languiva l'eroe-poeta, figlio di
colonnello, disertore dopo il golpe dei colonnelli di Atene.
L'equipaggio perse, però, ancor prima la sfida con le onde.
Questa
del naufragio è un'altra storia. Ma quel che intreccia il caso De
Mauro con la vita di molti studenti di sinistra palermitani è un
episodio connesso all'ambiente dei greci. Lo definisco nell'esatta
maniera di 34 anni fa: una provocazione. Eccolo: circolava tra noi un
ex-dirigente di Ordine nuovo, che ritenevamo (e tuttora ritengo)
sinceramente maturato a idee democratiche (ora è un affermato
professionista). Si scoprì che, però - in nome della
«controinformazione» sulle attività del giornale dei
«revisionisti» del Pci - stava dando più di una mano a «un
poliziotto dell'Interpol di origine siciliana che veniva da lontano,
forse da Milano» il quale indagava sul seguente romanzaccio: uno dei
greci in contatto con noi, frequentatore del L'Ora, avrebbe compiuto
a maggio un attentato politico: l'accoltellamento dell'onorevole
Angelo Nicosia, deputato missino dell'Antimafia. Il quale stava
preparando - ecco la terza, effimera pista su De Mauro - un rapporto
sulla speculazione edilizia e la mafia, coinvolgendo un finanziere
soprannominato dai giornali «mister X», che la polizia aveva
larvatamente indicato nei giorni precedenti come il bersaglio grosso
della «pista-Mattei». Si faceva capire che i trascorsi rapporti di
costui con L'Ora e con la sinistra gettavano ombre sul rapporto di De
Mauro con il suo stesso giornale, fino a trascinare quest'ultimo, il
Pci e gli antifascisti greci sul banco degli imputati per la
sparizione di De Mauro.
Complicato,
come un rompicapo, men che meno di uno straccio di prova, solo balle.
Perquisizioni, interrogatori, uno psicodramma nella federazione del
Pci, (dove noi della Fgci eravamo una specie di gruppo
extraparlamentare camuffato), chiuso dalla radiazione del
giovane«studente-investigatore». Atto dovuto, che rimase poi agli
atti della città-tritacarne come la prova provata del nostro
«stalinismo» (mentre eravamo tutto - troztskisti, castristi,
guevaristi, confusionari - ma non avevamo l'età per rimpiangere
Baffone). Lacrime, urla. Rapporti umani nella spazzatura. E sul piano
delle indagini, altro tempo perso. La sensazione era questa: tempo
perso, misteri da archiviare. Non sapevamo molte cose. Che la «pista
dei greci» era il frutto di una precisa direttiva dei servizi
segreti i cui vertici s'erano riuniti a Palermo nella saletta
riservata di una villa settecentesca. Le indagini dovevano essere
«stoppate», deviate, inquinate, fu l'ordine di scuderia, come
troveremo scritto - nientemeno: a Pavia, ormai nel 2002 – in
un'altro faldone giudiziario, quello relativo alla morte di Mattei.
Soprattutto ci sfuggiva che quel 1970, quando De Mauro svanì nel
nulla, fu l'anno del golpe. Per l'appunto, ilgolpe Borghese. Fallito.
Ma golpe. Non sapevamo, ancora, che a quel golpe, mafia e massoneria
avevano dato la loro adesione, il supporto organizzativo: uno dei
Rimi - vecchia conoscenza di De Mauro - in trasferta a Roma la notte
di «To-ra, Tora»; Buscetta che portava Totò Greco a Catania a
perorare la causa del colpo di Stato presso Lucianeddu Liggio, capo
carismatico dei corleonesi. Buscetta aveva rivelato le stesse cose,
intanto, a Falcone, una specie di prova del nove giudiziaria.
Ora
Buscetta, e Falcone, e Liggio non ci sono più. Non c'è più Mauro
De Mauro, che era l'unico ad avere in quel settembre 1970 tutte le
carte per fare quello scoop «in diretta» e sventare le trame dei
suoi ex-camerati: secondo me l'hanno ucciso per questo. Non c'è più
Junia, che aveva male al cuore. Non c'è più neanche D., che le
telefonò quella sera da Pesaro per confortarla. Di tutto questo non
sapevamo il perché. L'avrei capito, io cronista, proprio dalla voce
di Liggio, che si vantò di aver respinto le profferte golpiste
sedici anni dopo nell'aula del maxiprocesso a Palermo: «Salvai il
culetto della democrazia». I giornali titolarono che Liggio
vaneggiava su un golpe da operetta. E «misero» malissimo la
notizia, perché proprio quella sera Gheddafi sparò un missilotto
contro Lampedusa. Ma i giornalisti «fanno un mestiere del c.., che
non farei mai», dissi quella sera di settembre a D., che mi sospirò
(con la sua voce più seria, come quella di una professoressa, che
non fece in tempo a diventare): «Adesso ci tocca di tornare a
Palermo».
“l'Unità”,
5 Agosto 2004
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