Riprendo da un recente
domenicale del “Sole 24 Ore” uno stralcio della voce Raffaello
nel
Dizionario Biografico
degli Italiani,
che la Treccani va pubblicando. Esso documenta la passione per
l'antichità che orientò il lavoro di Raffaello Sanzio soprattutto negli ultimi
anni della sua
vita. (S.L.L.)
Raffaello Sanzio, La Loggia di Psiche alla farnesina, particolare |
Negli ultimi anni di
attività Raffaello si era imbarcato nella sua impresa antiquaria più
ambiziosa: la ricostruzione grafica, in pianta, in alzato e in
sezione, dei principali monumenti delle quattordici regioni di Roma
antica. Un progetto grandioso, sostanzialmente sfumato alla morte
dell’Urbinate (con grande rimpianto degli umanisti), basato sullo
scrutinio delle fonti letterarie classiche, su rilevamenti
topografici e su vere e proprie indagini archeologiche condotte ad
hoc.
Il 1519 è anche la data
più verosimile per la prima redazione della cosiddetta Lettera a
Leone X sull’architettura classica, a opera di Raffaello con il
supporto letterario di Baldassarre Castiglione (l’autografo di
Baldassarre, già nell’Archivio privato dei conti Castiglioni,
acquisito dallo Stato italiano, dal 2016 si conserva presso
l’Archivio di Stato di Mantova). Al 1519-20 è databile, invece,
una seconda redazione [...]
La Lettera va
collegata al progetto della ricostruzione grafica di Roma antica,
affidato dal pontefice all’artista. L’umanista ferrarese Celio
Calcagnini, a Roma dall’ottobre 1519, in una missiva a Jacob
Ziegler esaltava Raffaello come «pictorum omnium princeps»,
celebrando in particolare la sua ricostruzione di Roma antica.
In base al suo contenuto
la Lettera a Leone X si può dividere in tre parti. Una prima,
introduttiva, è inerente alle antichità («reliquie») di Roma e
alla necessità di preservarle, una seconda costituisce un’ecfrasi
storico-architettonica sull’esempio di quella presente nella Vita
di Brunelleschi di Antonio di Tuccio Manetti, e una terza,
decisamente più tecnica, che tratta del rilievo della città antica
e degli edifici, per il tramite di uno strumento dotato di bussola
magnetica, nonché della rappresentazione in pianta, alzato o «parete
de fora» e sezione o «parete de dentro» di alcune architetture
esemplari. In tal modo, per la prima volta, viene codificata una
tecnica rappresentativa propria dell’architetto, quella delle
proiezioni ortogonali. Non solo: i tre «modi» coincidono con la
terna vitruviana ichnographia, orthographia,
scaenographia (Vitr., I, 2, 2) e ben possono essere interpretati
quali recupero del modo di disegnare degli antichi.
Nelle ultime opere di
Raffaello si coglie sempre più prepotente l’ambizione di porsi su
un piano di emulazione nei confronti dei risultati, da molti ritenuti
inarrivabili, conseguiti dagli artisti antichi: le decorazioni
dell’appartamento del cardinale Bibbiena, della loggia di Psiche
alla Farnesina e delle logge Vaticane rivelarono agli occhi dei
committenti, degli umanisti e dei letterati presenti a Roma gli esiti
sorprendenti conseguiti da un artista moderno che, come un nuovo
Apelle, aveva riscoperto i segreti del linguaggio figurativo
classico.
Il 20 gennaio 1520
Alfonso I d’Este si lamentò aspramente per il comportamento
irrispettoso di Raffaello, a proposito del dipinto bacchico tante
volte promesso e mai consegnato per il «camerino d’alabastro»; il
20 marzo una lettera da Roma di Alfonso Paolucci al signore di
Ferrara lo informava che l’artista aveva preparato per il duca «tre
o quatro» studi di camini che non fanno fumo (abilità che Raffaello
aveva dimostrato nella progettazione di quelli di villa Madama).
Secondo la testimonianza
del diario di Marcantonio Michiel, Raffaello morì la notte tra il 6
e il 7 aprile, a causa di una febbre «continua e acuta, che già
octo giorni l’assaltò», come si apprende da una sconfortata
lettera di Paolucci al duca di Ferrara : «Dolse la morte sua
precipue alli litterati, per non haver potuto fornire la descrittione
e pittura di Roma antiqua che ’l faceva, che era cosa bellissima
[...]. Morse a hore 3 di notte di Venerdì Santo venendo il Sabato,
giorno della sua Natività» (M. Michiel, Diarii, in Cicogna,
1860, p. 410).
Il 7 aprile 1520
Raffaello venne sepolto nella tomba che aveva acquistato al Pantheon,
facendo restaurare un’edicola di quell’antico monumento che era
stato decisivo, fin dagli anni fiorentini, per la messa a punto del
proprio linguaggio architettonico: lo stesso giorno Pandolfo Pico
scrisse a Isabella d’Este, informandola della morte di Raffaello,
«lasciando questa corte in grandissima et universale mestitia per la
perdita della speranza de grandissime cose che se expectavano da lui,
quale havere bono honorato questa etade». L’epitaffio in distici
elegiaci, composto per l’artista dal Tebaldeo o da Bembo, esalta la
forza creatrice di Raffaello, tanto che la Natura, mentre era in
vita, temette di esser vinta da lui e quando morì temette, invece,
di morire anch’essa («Ille hic est Raphael, timuit quo sospite
vinci / rerum magna parens, et moriente mori»).
Il 12 aprile, in una
lettera a Michelangelo, dove si ricorda la morte del «povero»
Raffaello, «dil che credo vi habbi despiaciuto assai», Sebastiano
del Piombo chiese un intervento presso il cardinale Giulio de’
Medici perché gli fosse affidata la decorazione della Sala di
Costantino, «del che e’ garzoni de Raffaello [Giulio Romano e
Giovan Francesco Penni] bravano molto e voleno depingerla a olio».
Nel maggio gli eredi di
Raffaello al lavoro nella Sala di Costantino si offrirono di eseguire
il dipinto lungamente atteso da Alfonso I d’Este, ma il duca di
Ferrara comunicò che «non havendo noi potuto haver la pictura
nostra di sua mano, non la volemo far fare in Roma».
Il Sole 24 Ore Domenica,
7 gennaio 2018
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