25.4.18

Un ebreo non ebreo (Cesare Cases)


Essere ebrei è una faccenda terribilmente complicata. Io per esempio mi ritengo ebreo pur non essendo sionista e trovandomi bene tra gli italiani, di cui mi cullo nell’illusione che siano «brava gente» (e in buona parte lo sono anche se ho appreso che per ordine del Duce in epoca non sospetta - 1932 - Guglielmo Marconi scriveva una E accanto ai nomi dei candidati ebrei all’Accademia d’Italia, che così non venivano eletti), e pur essendo ateo. Questa seconda precisazione è necessaria oggi in tempi di religioneria imperante anche nella sinistra; non lo sarebbe stata ai tempi di Marx e di Engels, quando costoro potevano scrivere che la critica della religione era «cosa fatta» in Germania (ma anche in Inghilterra) e quasi tutti gli intellettuali erano atei o facevano finta di esserlo. Perché allora mi ostino a definirmi ebreo? Per la semplice ragione che con minor fortuna sarei finito a Auschwitz. Come afferma Sartre, non è l’ebreo che crea l’antisemita, ma l'antisemita che crea l’ebreo.
Come si situa nell’attuale costellazione del mondo, in cui ce rischio che il conflitto del Medio Oriente si trasformi in una deflagrazione definitiva, un siffatto «ebreo non ebreo», per riprendere il titolo dell’ultimo libro di Isaac Deutscher? Anzitutto egli non farà finta, come sembra fare Stefano Levi della Torre (in una lettera a “l'Unità dell’11 aprile) che tutto cominci adesso. Per utilizzare un immagine dello stesso Deutscher, si è trattato del salto di un individuo malconcio e azzoppato, sopravvissuto ad Auschwitz, sulle spalle di un altro che risiedeva da tempo in quel luogo. Sarebbe stato bello se avesse avuto ragione Max Nordau con il suo slogan: Una terra spopolata per un popolo senza terra.
Purtroppo la Palestina non era spopolata. Io sono del parere che, una volta risolto a favore dell’ebraico più o meno biblico il conflitto con l’jiddish, non ci fosse ragione di ignorare la profonda parentela tra popolazioni e lingue semitiche. È nel giusto Uri Avneri che sottolinea la convergenza di entrambe, che già una volta, ai tempi di Maimonide e di Averroè, aveva prodotto splendidi frutti. Ma la storia non segue sempre, anzi quasi mai, le vie della ragione. Non si era più ai tempi degli abassidi, l’impero ottomano era crollato e gli ebrei che finanziavano il sionismo erano adepti del capitalismo, se si prescinde dall’esperienza dei kibbutzim di cui si sente la nostalgia negli scritti di Amos Oz. Quando nel 1948 il paese fu diviso e al dramma degli ebrei succedette il dramma dei palestinesi, questo conflitto si presentò fin dall’inizio in forma di conflitto tra civiltà rurale e cittadina, tra sviluppo e sottosviluppo. E gli israeliani salvo rare eccezioni non fecero nulla per dissipare tale impressione, per esempio accogliendo arabi ed ebrei nello stesso sindacato. Ancor oggi un giornale certamente non sospetto come “la Repubblica” parla della morte di «13 israeliani e alcune decine di palestinesi». Gli individui si contano, gli altri no. Sicché Israele apparve sempre più come una semplice emanazione degli Stati uniti, da cui almeno nei primi anni dipendeva economicamente. Quando poi le grandi potenze si ridussero ad una, questa continuò a identificarsi coi governi israeliani, compreso quello di Sharon, responsabile della seconda Intifada e dell’aggravarsi della situazione. Ora è arrivato Powell che si destreggia tra i due campi tenendo fermo che solo uno può essere accusato di terrorismo.
Perché? È qui che l’ebreo non ebreo non ci sta più. Egli è senz’altro d’accordo con Levi della Torre, Gad Lemer e (ahimè!) Giuliano Ferrara sulla necessità di salvare lo stato d’Israele, che lo merita, ma non condivide la paura che possa essere vittima del terrorismo. L’indebita estensione di questo concetto è già stata denunciata (cfr. “Le Monde diplomatique” dello scorso febbraio) e può giovare solamente a una politica imperialista. L’abbattimento delle torri gemelle è stato effettivamente un atto terroristico, preparato da lungo tempo. Ma si può dire altrettanto dei kamikaze palestinesi di ambo i sessi? Sottolineo: di ambo i sessi, poiché c’è una certa vulgata islamica secondo cui i maschi sarebbero lieti di suicidarsi per raggiungere il paradiso delle Uri. O non sarebbe meglio parlare di differenza di livello tecnologico e di livello di vita per cui è meglio rinunciare a questa se non si è in grado di combattere ad armi pari? O forse tali supposizioni sono dovute al mio inguaribile razionalismo, superato dalle tre confessioni religiose che fraternamente si contendono i Luoghi Santi? Poiché è chiaro che se non si fa la pace in Palestina non la si fa da nessuna parte e siamo alla vignetta in cui le scimmie annunciano che devono ricominciare da capo. Resta l’ipotesi di Heidegger: solo un Dio può salvarci. E laggiù ce riè addirittura tre. Speriamo che ci salvino.
Dopo tutto, a non crederci siamo rimasti solo in pochi.

il manifesto”, giovedì 18 aprile 2002

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