Essere
ebrei è una faccenda terribilmente complicata. Io per esempio mi
ritengo ebreo pur non essendo sionista e trovandomi bene tra gli
italiani, di cui mi cullo nell’illusione che siano «brava gente»
(e in buona parte lo sono anche se ho appreso che per ordine del Duce
in epoca non sospetta - 1932 - Guglielmo Marconi scriveva una E
accanto ai nomi dei candidati ebrei all’Accademia d’Italia, che
così non venivano eletti), e pur essendo ateo. Questa seconda
precisazione è necessaria oggi in tempi di religioneria imperante
anche nella sinistra; non lo sarebbe stata ai tempi di Marx e di
Engels, quando costoro potevano scrivere che la critica della
religione era «cosa fatta» in Germania (ma anche in Inghilterra) e
quasi tutti gli intellettuali erano atei o facevano finta di esserlo.
Perché allora mi ostino a definirmi ebreo? Per la semplice ragione
che con minor fortuna sarei finito a Auschwitz. Come afferma Sartre,
non è l’ebreo che crea l’antisemita, ma l'antisemita che crea
l’ebreo.
Come
si situa nell’attuale costellazione del mondo, in cui ce rischio
che il conflitto del Medio Oriente si trasformi in una deflagrazione
definitiva, un siffatto «ebreo non ebreo», per riprendere il titolo
dell’ultimo libro di Isaac Deutscher? Anzitutto egli non farà
finta, come sembra fare Stefano Levi della Torre (in una lettera a
“l'Unità dell’11 aprile) che tutto cominci adesso. Per
utilizzare un immagine dello stesso Deutscher, si è trattato del
salto di un individuo malconcio e azzoppato, sopravvissuto ad
Auschwitz, sulle spalle di un altro che risiedeva da tempo in quel
luogo. Sarebbe stato bello se avesse avuto ragione Max Nordau con il
suo slogan: Una terra spopolata per un popolo senza terra.
Purtroppo
la Palestina non era spopolata. Io sono del parere che, una volta
risolto a favore dell’ebraico più o meno biblico il conflitto con
l’jiddish, non ci fosse ragione di ignorare la profonda parentela
tra popolazioni e lingue semitiche. È nel giusto Uri Avneri che
sottolinea la convergenza di entrambe, che già una volta, ai tempi
di Maimonide e di Averroè, aveva prodotto splendidi frutti. Ma la
storia non segue sempre, anzi quasi mai, le vie della ragione. Non si
era più ai tempi degli abassidi, l’impero ottomano era crollato e
gli ebrei che finanziavano il sionismo erano adepti del capitalismo,
se si prescinde dall’esperienza dei kibbutzim
di cui si sente la nostalgia negli scritti di Amos Oz. Quando nel
1948 il paese fu diviso e al dramma degli ebrei succedette il dramma
dei palestinesi, questo conflitto si presentò fin dall’inizio in
forma di conflitto tra civiltà rurale e cittadina, tra sviluppo e
sottosviluppo. E gli israeliani salvo rare eccezioni non fecero nulla
per dissipare tale impressione, per esempio accogliendo arabi ed
ebrei nello stesso sindacato. Ancor oggi un giornale certamente non
sospetto come “la Repubblica” parla della morte di «13
israeliani e alcune decine di palestinesi». Gli individui si
contano, gli altri no. Sicché Israele apparve sempre più come una
semplice emanazione degli Stati uniti, da cui almeno nei primi anni
dipendeva economicamente. Quando poi le grandi potenze si ridussero
ad una, questa continuò a identificarsi coi governi israeliani,
compreso quello di Sharon, responsabile della seconda Intifada e
dell’aggravarsi della situazione. Ora è arrivato Powell che si
destreggia tra i due campi tenendo fermo che solo uno può essere
accusato di terrorismo.
Perché?
È qui che l’ebreo non ebreo non ci sta più. Egli è senz’altro
d’accordo con Levi della Torre, Gad Lemer e (ahimè!) Giuliano
Ferrara sulla necessità di salvare lo stato d’Israele, che lo
merita, ma non condivide la paura che possa essere vittima del
terrorismo. L’indebita estensione di questo concetto è già stata
denunciata (cfr. “Le Monde diplomatique” dello scorso febbraio) e
può giovare solamente a una politica imperialista. L’abbattimento
delle torri gemelle è stato effettivamente un atto terroristico,
preparato da lungo tempo. Ma si può dire altrettanto dei kamikaze
palestinesi di ambo i sessi? Sottolineo: di ambo i sessi, poiché c’è
una certa vulgata islamica secondo cui i maschi sarebbero lieti di
suicidarsi per raggiungere il paradiso delle Uri. O non sarebbe
meglio parlare di differenza di livello tecnologico e di livello di
vita per cui è meglio rinunciare a questa se non si è in grado di
combattere ad armi pari? O forse tali supposizioni sono dovute al mio
inguaribile razionalismo, superato dalle tre confessioni religiose
che fraternamente si contendono i Luoghi Santi? Poiché è chiaro che
se non si fa la pace in Palestina non la si fa da nessuna parte e
siamo alla vignetta in cui le scimmie annunciano che devono
ricominciare da capo. Resta l’ipotesi di Heidegger: solo un Dio può
salvarci. E laggiù ce riè addirittura tre. Speriamo che ci salvino.
Dopo
tutto, a non crederci siamo rimasti solo in pochi.
“il
manifesto”, giovedì 18 aprile 2002
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