Nell'aprile del 2013 “il
manifesto” pubblicò il testo qui ripreso come anticipazione dalla
rivista trimestrale “il reportage”. In esso l'autore, Adriàn N. Bravi,
uno scrittore argentino trapiantato in Italia, raccoglie le proprie memorie
su un vicino di casa di tempi assai lontani, Ernesto Sabato, uno
dei giganti del Novecento latino-americano. (S.L.L.)
Ernesto Sabato |
Ho vissuto fino ai
quattro anni in una casa accanto al fiume, nei "bajos" de San Fernando,
a Buenos Aires. La casa era piccola e puntualmente, ogni volta che il
fiume si ingrossava, si inondava assieme a tutto il quartiere. Un
giorno, dopo l'ennesima "crecida" (era così che i miei
chiamavano l'inondazione) ci siamo trasferiti a Santos Lugares, un
altro quartiere di Buenos Aires, dove non c'era rischio di dover
restare per ore sopra i tavoli ad aspettare che l'acqua tornasse al
posto suo. Era la fine degli anni Sessanta. La nuova casa si trovava
vicino alla ferrovia. D'altro lato della strada c'era l'abitazione
del grande scrittore Ernesto Sabato, conosciuto nel quartiere come
don Ernesto.
In quel periodo credo che
nessuno nella mia famiglia sapesse chi fosse Sabato, ma dopo un po'
spuntarono dentro casa due libri suoi, gli unici due romanzi che
aveva pubblicato allora, entrambi scritti nella casa del mio nuovo
quartiere: El tunel (1948) e Sobre héroes y tumbas
(1963). Li leggeva soprattutto mia madre, con i piedi dentro la
piscina smontabile che d'estate era in cortile (adesso che ci penso,
ricordare mia madre leggere Sobre héroes y tumbas con i piedi
a mollo, tenendo presente le cose terribili che si raccontano, mi fa
un po' ridere, ma penso sia un buon modo per esorcizzare gli incubi
che si descrivono in quel libro).
Sabato era andato a
vivere nel 1945 in quel quartiere appena fuori Buenos Aires. Lo aveva
definito nel suo terzo e ultimo romanzo del 1974, Abaddón el
exterminador, «un quartiere operaio, di gente che al massimo può
abbellire le case con statuette comprate dal mercato». La casa di
Sabato era grande, con un giardino davanti senza inferriata, dove si
poteva entrare scavalcando un piccolo muro. Quello era il mio posto
preferito per giocare a nascondino. La casa vera e propria si trovava
in fondo, e io rare volte arrivavo fin laggiù. Aveva la facciata
ricoperta d'edera, una cascata verde molto fitta che sembrava venire
giù dal tetto. Il giardino invece era pieno d'alberi, piante incolte
e strati di foglie cadute e accumulate nel tempo. Mi ricordo una
grossa araucaria, un gelso, un gomero (in Italia conosciuto con il
nome di fico del caucciù, un albero bello per arrampicarcisi da
bambini) e un paio di cipressi. Una buona parte della mia infanzia
l'ho trascorsa a giocare e a litigare con gli amici tra quegli
alberi, che io ricordo rigogliosi, quasi fantastici. Non credo che
don Ernesto sapesse di questo nostro passatempo.
Ricordo che nei primi
anni Settanta, quando andava alla stazione a prendere il treno
passando davanti casa mia e io ero seduto sulla soglia di casa, mi
salutava toccandomi la testa. Una volta però mi aveva chiamato per
nome, col diminutivo: «Hola Adriancito». Hola don Ernesto, avevo
risposto io. Forse si ricordava il mio nome perché il giorno prima
ero stato, per la prima e unica volta, a casa sua. Avevo accompagnato
il figlio del calzolaio, mio amico, a consegnargli delle scarpe. Mi
ricordo una stanza con tanti libri, un tavolo e una grossa finestra
col giardino davanti. Sabato aveva preso le scarpe e mi aveva chiesto
come mi chiamavo. In quello stesso periodo suo figlio Mario aveva
girato nel quartiere alcune scene del suo primo film, Yque
patatiny que patatan (premiato anche al Festival del Cinema di
Venezia). Era un film sui bambini e mi ricordo che un giorno aveva
riunito alcuni ragazzi per girare delle scene e Sabato ci guardava
interessato e parlava col figlio, forse gli suggeriva qualche
inquadratura.
Ma il ricordo più
intenso che ho di don Ernesto, e che oggi, dopo quarant'anni, mi
rivela l'aspetto più umano di quest'uomo, si riferisce a un sabato
pomeriggio d'estate. Era all'incirca il 1972 o il 1973 (periodo,
presumo, in cui lavorava a Abaddón el exterminador). Davanti
a casa sua quel sabato pomeriggio c'era un gruppo di ragazzi che
giocava a pallone. Io ero insieme al mio amico Gustavo, seduti su un
gradino del club Defensores de Santos Lugares, di fronte a casa di
Sabato. Noi li guardavamo senza giocare perché, essendo troppo
piccoli, non ci consentivano di unirci a loro. Mi ricordo che
facevano molto chiasso e buttavano il pallone dappertutto.
All'improvviso, Sabato è uscito da casa sua con una pistola in mano,
poteva essere una calibro 32 vista la dimensione (la stessa, penso
ora, che aveva usato Alejandra per uccidere suo padre, si ricordi la
Noticia preliminar a Sobre héroes y tumbas). Poi ha
cominciato a minacciare i ragazzi agitandola davanti a sé. Diceva
che avrebbe sparato se non la smettevano di urlare. Allora uno dei
ragazzi, con un gesto burbero, da descamisado peronista, si è tolto
la maglietta che indossava ed è andato incontro a Sabato con le
braccia aperte mentre ripeteva: «Mi spari, se ha il coraggio; mi
spari...». Per evitare il peggio Sabato ha abbassato la pistola ed è
tornato indietro senza aggiungere altro. I ragazzi hanno smesso di
giocare e poi se ne sono andati.
Sono quarant'anni che
penso a quel gesto e ogni volta mi sembra di vedere tutta la sua
umanità e la sua disperazione. Perché non era uscito per chiedere
semplicemente a quei ragazzi chiassosi di andare a giocare altrove,
senza ricorrere ai metodi drastici? Claudio Magris, riferendosi a
Sabato, ricorda in un articolo una frase di Ibsen che Sabato amava
riprendere: «Vivere significa lottare con i propri demoni». Credo
che don Ernesto lo facesse quotidianamente. Dopo d'allora, giocare a
nascondino nel giardino davanti a casa sua non era più un gioco, ma
una sfida. Sabato era un uomo talmente umano che riusciva a essere
"duale" senza contraddirsi. Come ha scritto Massimo
Rizzante: «Sabato sa bene che la vera patria dell'uomo è quella
"regione chiamata anima" in cui si mescolano senza
soluzione di continuità "le idee" e "il sangue"».
I suoi personaggi sono indimenticabili proprio per questo, perché
sanno esprimere tenerezza, fragilità e allo stesso tempo la più
spietata follia (chi legge Sobre héroes y tumbas non dimenticherà
mai Alejandra e la sua storia).
Bisogna ricordare però
che quest'uomo così iracondo, che ha saputo raccontare il
«sottosuolo» e la demenza come pochi, è stato capace di
sacrificare il suo talento di narratore per dedicarsi pienamente,
subito dopo la dittatura, ai diritti umani. È stato presidente della
Conadep (Commissione nazionale sulla sparizione di persone), creata
per ricostruire le vicende di migliaia di desaparecidos della
dittatura militare del 1976-1983. Queste ricerche, pubblicate sotto
il titolo Nunca mas. Informe dela Comisión nacional sobre la
desaparición de personas, nel1984, sono statefondamentali per
aprire il processo contro i militari. Nel 1998 Sabato pubblica un
libro emozionante, fatto di memorie e riflessioni,dal titolo Antes
del fin, in cui Sabato racconta la differenza tra quello che ha
scritto nei suoi saggi e quello che ha scritto nei suoi romanzi: «Non
devono aspettarsi di trovare in questo libro le mie verità più
raccapriccianti: quelle le troveranno solo nei miei romanzi, in quei
sinistri balli in maschera che, proprio per questo, dicono o rivelano
verità che non avrebbero il coraggio di confessare a volto
scoperto». È attraverso il velo della finzione, «quei sinistri
balli in maschera», che Sabato è riuscito a dare voce alle sue
spietate verità.
Nel 1975, l'anno prima
della dittatura, dopo che mio padre era stato licenziato dalla Fiat
(lavorava nello stabilimento di Caseros, quartiere confinante a
quello di Santo Lugares) ed era stato minacciato più di una volta da
alcuni attivisti dalla Triple A (Alleanza anticomunista argentina,
un'organizzazione paramilitare al servizio del potere, con lo scopo
di combattere gli oppositori e che poi darà il via alle repressioni
future), ci siamo trasferiti in un altro quartiere di Buenos Aires.
Ogni tanto tornavo a Santos Lugares, soprattutto per vedere il
giardino della casa di Ernesto Sabato, specie dopo che avevo iniziato
a leggere i suoi libri. In ogni pagina che leggevo cercavo il Sabato
dei miei ricordi, sia quello che mi aveva salutato con un
Hola Adriancito, sia quello che era uscito di casa brandendo la
pistola.
Anni dopo, trasferitomi
in Italia, stavo sfogliando alcuni testi all'Università di Macerata
quando mi sono imbattuto in una pubblicazione il cui titolo recitava:
Laurea honoris causa in Lettere a Ernesto Sabato (31 ottobre 1985).
Senza saperlo stavo inseguendo le sue tracce. Qualche mese prima
della sua morte, nel 2011, sono andato a Santos Lugares. Davanti al
giardino, a ridosso del marciapiede, c'era un'inferriata abbastanza
alta che sbarrava il passaggio. Gli alberi c'erano, non molti come
ricordavo, ma c'erano e c'erano anche le foglie sparse per terra.
Cercavo di mettere insieme il ricordo con il giardino che vedevo
adesso. Era tutto diverso, come se il giardino d'allora e il giardino
d'adesso appartenessero a tempi differenti che nulla avevano a che
fare l'uno con l'altro. Dentro la casa, con la facciata ancora
ricoperta d'edera, c'era uno scrittore ormai novantanovenne, che
lottava contro il tempo e che forse, dalla finestra della sua stanza,
guardava anche lui la scomparsa di quel giardino. Ero insieme a mio
figlio, che aveva la stessa età che avevo io quando mi nascondevo
tra quegli alberi. Come tante altre volte sono stato tentato di
suonare il campanello, ma non l'ho fatto. Don Ernesto è morto qualche
mese dopo, lo stesso giorno del mio compleanno.
il manifesto SABATO 13
APRILE 2013
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