Fortini a Ivrea, nello stabilimento Olivetti |
Sono stato assunto alla
Direzione Pubblicità e Stampa dell’Olivetti nel gennaio 1964 e ci
sono rimasto poco, due anni soltanto. Avevo incontrato Franco Fortini
nelle riunioni di redazione dei «Quaderni Rossi» e dei «Quaderni
Piacentini», quando il suo rapporto con l’azienda di Ivrea si era
già concluso. Adriano Olivetti era morto nel 1960, la sua eredità
stava per essere smantellata ma quattro anni dopo, se c’era un
luogo dove la sua memoria era custodita ancora con venerazione,
quello era la Direzione Pubblicità e Stampa in via Clerici, a
Milano, all’ultimo piano. La dirigeva Riccardo Musatti e per
segretaria aveva quella che era stata la segretaria personale di
Adriano, una figura leggendaria in azienda, partigiana combattente,
un pezzo di donna che m’incuteva soggezione ed alla quale non ero
proprio simpatico.
Non ho avuto pertanto
esperienza diretta del rapporto di Franco con l’Olivetti, tra di
noi ne abbiamo parlato pochissimo, perché quando entrai all’Olivetti
s’era già consumata la frattura nei «Quaderni Rossi» ed io avevo
seguito Mario Tronti e Toni Negri nella preparazione di «Classe
Operaia» mentre lui era rimasto legato ai seguaci di Panzieri che
avrebbero fatto uscire ancora alcuni numeri di «Quaderni Rossi». Le
nostre occasioni d’incontro erano diminuite, restavano quelle
officiate da Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio. Pertanto ne
parlo solo per dire qualcosa dell’atmosfera che si respirava in
azienda e che anche lui deve aver respirato, per dire com’era
organizzato il nostro lavoro, un sistema aziendale nel quale anche
lui ha operato, e per cercare di trasmettere le sensazioni e le
esperienze di chi si trovava a fare quel mestiere in un ambiente così
particolare e così raffinato. Procedo per deduzione, quindi.
La prima cosa che ricordo
è il grado di libertà e di autonomia che veniva lasciato al lavoro
“creativo”. In tutto il palazzo di via Clerici solo i componenti
del nostro ufficio non timbravano il cartellino, Franco per di più
stabilì dopo un certo tempo un rapporto di consulenza esterna e
quindi godette di un’indipendenza ancora maggiore. Ma questo non
voleva dire distacco, anzi. All’Olivetti si era costretti ad
imparare tanto sul sistema aziendale, l’organizzazione della
produzione, i suoi livelli tecnologici, così da capire meglio le
caratteristiche del prodotto che l’inventiva del copywriter doveva
saper comunicare al mercato. Non bastava prendere atto delle
caratteristiche funzionali della macchina, la pubblicità doveva
esaltare sia le sue performances che l’estetica del design. Nella
gerarchia dei valori creativi il copywriter non era certo al primo
posto, prima di lui c’erano l’ingegnere progettista, il designer,
il grafico. Il copywriter doveva sentirsi integrato in questo
processo, doveva essere consapevole che il suo talento artistico e
letterario era subordinato alla sapienza tecnica dell’ingegnere.
Doveva sapere di quale catena era un anello. Quindi meglio se fosse
un impiegato, un dipendente con orario d’ufficio uguale a quello
della segretaria. Come Giovanni Giudici.
Per il mio comportamento
indisciplinato (non riuscivo ad arrivare puntuale alle 9) dopo alcuni
mesi mi trasferirono in via Baracchini, nel laboratorio di produzione
della pubblicità. Era il regno dei grandi grafici, di Giovanni
Pintori, di Egidio Bonfante e là aveva la sua stanza Giovanni
Giudici. Nell’intervallo di pranzo – durava un’ora e mezza! –
scendevo un piano e lo andavo a trovare. Approfittava dell’intervallo
per scrivere le sue poesie, me le leggeva, mi chiedeva un parere, si
parlava spesso di Franco, oggetto privilegiato della sua amorevole
ironia. Si parlava assai poco di lavoro perché il mio mestiere era
diverso dal suo e da quello che era stato il mestiere di Fortini.
Loro dovevano fare la pubblicità a dei prodotti di ampio mercato, io
ero stato catapultato nel settore dell’elettronica, dovevo
comunicare le caratteristiche e le performances dei calcolatori Elea
9001, macchine che avevano un mercato limitato, erano installate
presso poche grandi aziende. Non dovevo cercare slogan accattivanti,
dovevo progettare e scrivere pubblicazioni similtecniche, opuscoli in
grado di descrivere i servizi che quelle macchine svolgevano
all’interno di un’organizzazione complessa. Erano dei main
frame, non erano dei personal computer. Pertanto non mi era
richiesto di avere un talento letterario ma semmai una conoscenza
dell’organizzazione del lavoro o almeno una capacità di
comprensione delle problematiche organizzative e gestionali di una
grande impresa. Imparai moltissimo, visitando le fabbriche di
produzione Olivetti e passando settimane intere nelle aziende
clienti, tessili o siderurgiche, meccaniche o farmaceutiche. Franco
Fortini e Giovanni Giudici invece dovevano inventare i testi da
collocare esattamente nello spazio che il formato scelto dal grafico
ti lasciava, dovevano trovare il nome alle macchine da scrivere e
alle macchine da calcolo, dovevano trovare le parole con cui dare un
senso ad uno stand fieristico, dovevano creare un linguaggio che
fosse espressione e crittogramma. I poeti abituati ai vincoli della
metrica, i poeti epigrammatici, si muovono a loro agio nel mondo
della pubblicità. Franco, che dell’epigramma era un maestro,
doveva eccellere in quel mestiere ma, ripeto, s’era dovuto creare
quel background di conoscenza dell’ambiente sociotecnico di
fabbrica che la frequentazione dei «Quaderni Rossi», negli anni
dopo la morte di Adriano, gli consentirà di leggere con occhio
marxiano, con uno sguardo rovesciato. Si è parlato molto del
rapporto tra Olivetti e gli intellettuali, io penso che l’esperienza
all’interno dell’organizzazione di una grande industria abbia
avuto un’importanza decisiva nella sprovincializzazione di una
parte della cultura italiana. Se non come poeta, l’esperienza
all’Olivetti, proprio per queste sue caratteristiche, a mio avviso
per Fortini ha avuto un grande peso nel suo modo di essere un
intellettuale, deve avergli dato una carica di modernità che faceva
la differenza rispetto a tanti suoi colleghi, Pasolini compreso,
rimasto ancora legato all’immagine di un’Italia rurale che
s’inurba ma rimane lontana dall’industria.
Nella Germania di Weimar
più di uno scrittore si mise al servizio della pubblicità, Frank
Wedekind per i dadi e le minestrine Maggi, Bertold Brecht per la
fabbrica di automobili Steyr, Erich Kästner per il suo giornale. E
tuttavia sin dall’inizio di questo rapporto tra talento letterario
e pubblicità ci fu chi lo giudicò un “tradimento”. Un’accusa
toccata solo ai copywriter, a nessuno è venuto in mente di
rimproverare i grafici. Non so come Fortini giudicasse la sua
collaborazione con l’Olivetti, se ne parla così poco vuol dire
forse che non ne era tanto orgoglioso? Non saprei rispondere, ricordo
solo di essermene andato di mia iniziativa, per non essere al
servizio del capitale. Uno stupidotto? Probabile, ma se non lo avessi
fatto mi sarei perso il maggio francese e l’autunno caldo.
“L'ospite Ingrato”,
sito del Centro Studi Franco Fortini, 3 gennaio 2018
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