La foto segnaletica di Maurizio Garino |
Mi fa piacere segnalare
il bel libro Il sogno nelle mani. Torino 1909-1922 che, come
recita il sottotitolo, raccoglie passioni e lotte rivoluzionarie nei
ricordi di Maurizio Garino, edito da Zero in Condotta (Milano, 2011).
Frammentariamente
pubblicate e utilizzate, le memorie di Garino (1892-1977) che venne
intervistato da Marco Revelli nel 1975, ci riportano con vivace
immediatezza ad un periodo cruciale della storia del movimento
operaio italiano del quale Garino stesso, come sindacalista e
anarchico, fu protagonista e testimone di primo piano, attraversando
tempi di rivoluzione, riformismo e reazione.
Appare fuor di dubbio
che, come ha osservato Marc Bloch, è necessario sempre tenere di
conto la “plasticità della memoria”, in quanto questa agisce da
meccanismo potente in grado di rielaborare e potare i ricordi; ma,
non di meno, “la storiografia – riprendendo Carlo Ginzburg –
può alimentarsi nella memoria, perché le memorie sono un documento
storico, nel momento in cui vengono trascritte oppure registrate al
magnetofono, dalla persona in questione oppure da un terzo. E la
memoria può trarre alimento dalla storiografia: si legge un libro di
storia e magari si integrano in maniera consapevole o inconsapevole i
propri ricordi”.
Quella “vecchia”
intervista tra Garino e Revelli, ossia tra chi aveva fatto la storia
e chi cercava di recuperarla, conferma proprio questa reciprocità, a
sua volta integrata, precisata e sviluppata da ulteriori documenti,
riflessioni e ricerche a cura di Tobia Imperato, dedicatosi per anni
a questo progetto, nonché di Guido Barroero, Maurizio Antonioli,
Cosimo Scarinzi. Inoltre vi è stato aggiunto un ormai raro
contributo di Pier Carlo Masini su anarchici e comunisti nel
movimento dei Consigli a Torino.
Gli avvenimenti, le
persone, le questioni e i conflitti che emergono dal racconto di
Garino, anche se circoscritti ad un periodo limitato e per lo più
relativi al contesto torinese, sono innumerevoli e in grado di aprire
utili porte per quanti studiano quel decisivo passaggio della storia
sociale; ma, a mio avviso, quella più stimolante – anche per
coloro che di solito non si appassionano alle vicende passate della
lotta di classe – riguarda la quotidianità vissuta da Garino
assieme a migliaia di compagni di lavoro e di rivolta nei luoghi di
socialità e aggregazione nei quartieri proletari: luoghi non meno
importanti, per implicazioni e sviluppi, dello spazio della fabbrica,
allo stesso tempo coagulo di antagonismo ma anche di alienazione.
E anche Cosimo Scarinzi
sottolinea, da parte sua l'importanza di questa “ricostruzione
dell'intreccio fra formarsi di una generazione militante, lotte di
fabbrica, comunità operaia e proletaria sul territorio, dialettica
fra culture politiche” in questi luoghi, fossero i Circoli
socialisti, quelli libertari di Studi sociali o le Case del popolo:
tutti accomunati da frequentazioni simili, trasversali ai “partiti
sovversivi”, e in grado di produrre sia relazioni personali che,
attraverso strutture di autoformazione come la Scuola Moderna, saperi
da condividere in modo orizzontale e consapevolezze di un'altra
condizione umana.
Le descrizioni di questi
ambienti che Garino ci offre, valgono più di ogni attuale astruso
dibattito sull'identità perduta della sinistra e meritano d'essere
parzialmente anticipate: “fondai con altri giovani compagni, tra
cui il povero Ferrero, il Circolo di Studi Sociali, cioè la Scuola
Moderna [...] il programma delineato in quei tre punti: lotta
sindacale, lotta politica e lotta culturale... erano tre temi che
spingevano avanti per far crescere la coscienza socialista negli
operai [...]. Allora c'era quel tipo di operaio lì, che dopo dieci
ore di lavoro aveva ancora la forza di venire al Circolo a discutere
di Marx, di Bakunin, di Stirner. Su cento ne troviamo cinque che
erano così, che sapevano perché Stirner era in disaccordo col
comunismo, e con tutte le altre forme di collettività. Ma c'erano!
Io questo problema me lo sono posto varie volte; secondo me era la
sostanza che derivava dalle lotte mazziniane fatte nel secolo
precedente, che rimaneva ancora [...]. Credo che questa parola,
volontarismo, spieghi tante cose. Ecco perché “Quello sa questa
cosa, io non la so! E allora mi faccio avanti”. E uno con l'altro
ci si formava una coscienza. Naturalmente molti operai andavano a
giocare alle bocce [...]. Noi ci occupavamo anche di poesia, si
declamava”.
E, all'interno di questi
luoghi, punto di riferimento per i lavoratori torinesi, ma anche
immigrati dal resto della regione e non solo (come la consistente
comunità operaia proveniente da Piombino), si andarono maturando
scelte radicali individuali e collettive in grado di mettere
ripetutamente in crisi il potere politico ed economico, attraverso
pratiche di lotta portate avanti in prima persona dai lavoratori che
si sentivano in grado di soppiantare in tutto e per tutto il
padronato e i governanti, occupando fabbriche e dando vita a scioperi
insurrezionali.
Non casualmente, a
Torino, il sindacalismo rivoluzionario si dimostrò a lungo forte,
ben oltre la sua rilevanza numerica, tanto da influenzare e
condizionare pure altre tendenze (basti pensare a Gramsci che ebbe a
definirlo come “l'espressione istintiva, elementare, primitiva, ma
sana della reazione operaia contro il blocco con la borghesia e per
un blocco coi contadini”); emblematica a proposito l'ammissione di
Garino che pur era stato un dirigente della Fiom: “Noi eravamo per
l'azione diretta, eravamo un pochettino soreliani, in sostanza. Non
tanto, eh!”.
A – Rivista anarchica,
n.383, ottobre 2013
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