14.4.18

Un sognatore di futuro. La morte di Carlo Lizzani, un maestro del neorealismo (Aldo Colonna)


Il malore si è affacciato all'improvviso, nella tarda mattinata di quel sabato. Il malessere tipico dell'indigestione, con la difficoltà a respirare e, a tratti, il cuore in gola. E il presagio di morte che accompagna solitamente un infarto. Eppure, alle spalle, nessuna crapula, nessuna patologia ischemica. Un senso di morte ottundente, la smania di strapparti i vestiti di dosso come fossero preda del fuoco e divenuti essi stessi pelle. Alle quattro del pomeriggio il battito è ridiventato regolare, il respiro meno affannoso. E poi, a pensarci bene, c'era quel maledetto post-it giallo sull'agenda continuamente rimosso: «Chiamare Carlo alle 21:30», così per almeno due settimane. Ero amico di Carlo come lo sono stato di Mario per più di vent'anni. Con Carlo la frequentazione durò di meno ed era stata nel tempo più rada ma c'era sempre, come con l'altro, un senso di amicizia e comunanza forti, aliene dalla moda della pacca sulla spalla o di quel chiacchiericcio indistinto che spesso accompagna gli amici di circostanza.
E pensare che l'amicizia con Carlo era cominciata, da parte mia, con un espediente. Anni fa lo vidi camminare, con la falcata dinoccolata che lo contraddistingueva, in via XX Settembre. Io, che ero accompagnato da un'americana, camminavo dalla parte opposta e, a un certo punto, gridando feci: «Carlo, ciaooo!». Lui si voltò e mi guardò replicando: «Ah, ciao, come va, tutto bene?» Tutto bene, annuii e seguitammo. Fin qui niente di speciale. Solo che, quando incrociai Lizzani in via XX Settembre, in quel pomeriggio assolato di tanti anni fa, io ancora non lo conoscevo. Lo avevo salutato con gioia e con trasporto perché 'io do del tu a tutti coloro che amo', direbbe Prévert. E mesi dopo, durante il nostro primo incontro, Carlo sfoderò una memoria formidabile: «Volevi fare il paravento con la studentessa facendo vedere che mi conoscevi...». Disse proprio così, 'paravento', Mario che era uno sanguigno avrebbe detto 'paraculo'. Perché Carlo era un signore d'altri tempi, pacato, misurato, con un'eleganza rara in un uomo abituato all'odore di battaglia che serpeggia sempre in un set.
L'anno scorso fu un anno fecondo. Ci vedevamo spesso per il caffè di rito al baruccio d'angolo tra via dei Gracchi e via Fabio Massimo, che mi piaceva di più ed era sicuramente il suo preferito, ma che era sempre così rumoroso rispetto a quello dirimpetto a casa sua, più dimesso ma dove si poteva parlare senza il clangore di una musica improbabile e la presenza di avventori vocianti. Anche perché nel baruccio di cui sopra i nostri discorsi erano continuamente frammezzati da una sorta di inchino cui era tenuto Carlo ogniqualvolta entrava qualcuno (ed erano parecchi) che lo salutava con l'appellativo di rigore: «Buongiorno, maestro!». Ora, aneddoto a parte, non ricordo più le ore trascorse insieme a parlare di cinema, di neorealismo prevalentemente, ma anche dei nuovi autori, delle nuove tecniche e di letteratura. Anche se lui era un fagocitatore di saggistica. Aveva orari cadenzati per garantire continuità alla amatissima Edith, conosciuta in Germania quando era assistente di Rossellini: i nostri incontri non superavano i 45 minuti. Se poi doveva andare in banca o in giro per qualche altra incombenza prima faceva un salto a casa, poi riusciva. Seduti mi trovavo più a mio agio; quando parlavamo camminando facevo fatica a tenere la testa alzata per incrociare il suo sguardo.
Una immagine da "Achtung! banditi"
Ero incuriosito dal fatto che avesse conosciuto Cesare Pavese e ogni volta buttavo lì una domanda, cercavo di portarlo sul discorso e mi capitò, specie la prima volta, di restare con gli occhi sgranati per lo stupore, come un fanciullo. Pavese non aveva inflessioni dialettali, capivi che era un uomo del settentrione certo ma senza accenti o calate particolari. Allora provavo a immaginare quell'incontro tra due persone fisicamente simili, magre, alte, con il nasone e gli occhiali parlare della sceneggiatura di Riso amaro, della Mangano e di De Santis... Gli dissi una volta che mi faceva un certo effetto sedere 'accanto' alla Storia e lui si schermì perché i grandi conoscono tutti il senso della misura. E adesso mi ricordo quando feci un discorso del genere a Mario parlando della sua grandezza al che lui rispose sbuffando e facendo spallucce: «Grande, grande, ma che vor di' grande? Ho fatto quarche firm...».
Carlo mi aveva aiutato a fare la quadra sulla definizione del cinema di Monicelli. Per anni Mario mi veniva dietro ogniqualvolta asserivo che la definizione di maestro della commedia all'italiana fosse estremamente riduttiva. Il fatto che Mario vedesse il lato comico nella tragedia non poteva definire in modo schematico un cinema che aveva comunque registri più alti della commedia. E qui mi venne in soccorso lo studioso, lo storico, il teorico rilasciandomi un'intervista sul cinema di Mario in cui Monicelli poteva essere definito a pieno diritto un epigono del neorealismo.
Quando lo scorso anno accettò di presentare un mio libro, a parte la proverbiale cortesia, lo descrisse con gli strumenti del filologo e stemmo a guardarlo incantati, io e Marcello Teodonio, perché questo era Lizzani, non solo il cineasta che conosciamo, ma un intellettuale che aveva trascorso la vita sui libri e da questi aveva tratto linfa per la rappresentazione della realtà, per un'adesione mai formale alla mimesis, per il rigore con il quale ha attraversato il nostro secolo breve.
Ci eravamo visti il 17 aprile (la precisione è data da un impegno espletato quel giorno) e a maggio. Sono partito poi per un lunghissimo viaggio. Quando lo chiamai, al rientro, mi disse che era meglio risentirci a settembre, forse sarebbe riuscito a mettermi dentro come assistente nel film su Andreotti che aveva in progetto. Ed eccoci al post-it. Quando il malore che mi aveva chiuso la gola è passato ecco affacciarsi un amico a dirmi del suo salto nel vuoto. Accompagnato da un coraggio che non può essere descritto con parole di uso quotidiano perché - asseriscono quei pochissimi che si sono salvati – in quei pochi secondi c'è la vita passata che ti porta per mano davanti all'orrore della morte, una manciata di secondi con la leggerezza di un ubriaco sull'otto volante.
Dice Alvares: «I veri motivi che spingono un uomo a togliersi la vita sono altrove; appartengono al mondo interiore, tortuoso, contraddittorio, labirintico e perlopiù fuori della portata degli altri». In tempi non sospetti, quando ancora appunto il male non l'aveva aggredito, Mario mi disse che non avrebbe mai accettato un surrogato di vita su una sedia a rotelle («Nun me faccio puli' er culo dalle fije»). E alla base del gesto esiziale di Carlo c'è tutto e il contrario di tutto; la difficoltà di gestire il suo corpo, l'impossibilità di accudire la sua amatissima Edith come avrebbe voluto e come aveva fatto per anni. Pongo un interrogativo, senza peraltro che questo sia suffragato da elementi concreti: la possibilità che quell'ultimo film gli sia stato negato per mancanza di fondi o per una sopravvenuta sua incapacità motoria e allora prenderebbe corpo, come accadde in Pavese, che il rifiuto dell'industria cinematografica possa aver accelerato i tempi del congedo.
Succede spesso, troppo spesso, che fatti di tale drammaticità trascinino nella loro scia le amenità di chierici senza credito. Quando morì Mario fu una certa Binetti (chi era costei?) a sproloquiare su argomenti di cui non aveva, evidentemente, padronanza. Oggi leggiamo di un sedicente gazzettiere che, con baldanza futurista, ha scritto: «Lizzani si è lanciato dal terzo piano. Monicelli si gettò dal nono. Il che dimostra la differenza di livello fra i due anche nel suicidio». Ignoriamo per chi scriva costui, sicuramente il suo suicidio non avrebbe la valenza di un suicidio anomico, così come fu quello di Mario e oggi quello di Carlo. Non a caso gli è stato risposto che il suo suicidio potrebbe avvenire soltanto gettandosi dal marciapiede. Hanno scomodato persino un geriatra per spiegare le ragioni di un gesto perché Lizzani, in quel momento, non era più Lizzani ma un 'vecchio'. Pare sia andata così pure per Mario. Qualcuno ha detto che quello, ospedalizzato, ricevette la visita di un medico il quale deve avergli detto più o meno così: «A nonne', adesso la dimettiamo, lei se ne stia buono a casa, si faccia accudire dai suoi» e fu dopo l'uscita dell'incauto cerusico che Monicelli si gettò nel vuoto.
Il dolore invade anche il mattino, disse Pavese. Lizzani è riuscito con fatica a doppiare il mezzogiorno. Ha lasciato un biglietto in cui ha scritto: «Stacco la chiave». È lecito domandarsi se non sia questo un lapsus freudiano (stacco la spina) ma, conoscendo la puntigliosità del nostro amico, abbiamo quasi una certezza, che nella frase fosse racchiuso un messaggio: chiuso nella mia stanza, nel mio locus solus, 'stacco la chiave', tolgo cioè la chiave dalla toppa perché a nessuno sia permesso entrare in quel coacervo magmatico di ragioni, di refusi, di dimenticanze e di appuntamenti disattesi. Ci viene in aiuto Agostino Pirella: «La riduzione del suicidio a un atto patologico è semplicistica e fuorviante. Spesso esso rappresenta invece l'unico gesto possibile in una situazione bloccata, ed è perciò paradossalmente un atto di salute mentale». Può sembrare paradossale ma il suicidio di Carlo può essere considerato una forma di 'negazione della morte', il suicidio come affermazione della volontà. E, ancora, Camus: «Un gesto come questo si prepara nel silenzio del cuore, allo stesso modo che una grande opera». Ed è per tutto questo che il suo gesto esige il nostro rispetto: nessuno entri nella mia 'stanza'. Ma, soprattutto, «non fate troppi pettegolezzi» come lasciò scritto lo scrittore piemontese. Della sua uscita di scena egli ha curato, come un cineasta, l'ending: aprendo quella finestra egli ha chiuso il sipario. La sua eredità è infinita: fu molto, fu tutto, fu un divulgatore, fu un didatta ma soprattutto un sognatore di futuro abbarbicato alla progettualità fino alla notte che precedette il suo volo.
Carlo continua a camminare con noi, con quel fare dinoccolato e le ginocchia che sembravano piegarsi ma avevano la funzione di un ammortizzatore che consente alla macchina di superare gli avvallamenti. Ed io continuerò a prendere un caffè in quel baretto d'angolo tra via dei Gracchi e via Fabio Massimo alzando la tazzina alla volta del tavolo che lui era solito occupare - ed io con lui - come in un brindisi.

“Alias il manifesto”, 19 ottobre 2013

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