Per molti anni ho tenuto
l’edizione completa delle opere di Paolo Volponi, curata da
Emanuele Zinato per Einaudi, sulla mia scrivania. Mi arrampicavo
sulla prosa ardua, visionaria, cogitativa e poetica di uno scrittore
di cui sentivo appartenermi i temi e quella lacerazione, tutta
italiana, fra una modernità mal assimilata e un patrimonio storico
ingombrante e sontuoso.
Volponi nasce a Urbino
nel 1924 e muore settant’anni dopo, nel 1994. Nello stesso anno io
mi laureavo, cadeva il primo governo Berlusconi, cominciavano a
vedersi le conseguenze dei processi di Mani pulite e di un nuovo,
irrazionale, assalto al territorio di cui avrebbe reso conto, in
seguito, Salvatore Settis nel libro Paesaggio, costituzione,
cemento (2010). Nei romanzi di Volponi, nato nella bella terra di
Leopardi e per gran parte della vita dirigente di azienda presso
l’Olivetti a Ivrea, cercavo l’espressione di un conflitto
irrisolto. Di chi conosce la provincia italiana e le sue infinite
riserve di meraviglia e arretratezza, e al tempo stesso è passato
attraverso il boom economico e la speculazione edilizia, di chi ha
vissuto dall’interno i processi della concentrazione
manifatturiera, coltivando la fiducia che l’industria potesse
tradursi in progettazione e mediazione per migliorare la vita di
tutti, per poi constatarne il fallimento.
Sono gli argomenti non
solo dei suoi romanzi, ma anche dell’epistolario che intrattiene
lungo un ventennio con Pier Paolo Pasolini, conosciuto a un premio di
poesia, vinto ex aequo, nel 1954. La lettura di quell’ottantina di
missive depositate presso il fondo Bonsanti al Gabinetto Vieusseux di
Firenze, e quasi integralmente pubblicate da Daniele Fioretti nel
2009, fa capire l’affetto, la grandissima stima reciproca e
l’intimità fra i due, nonostante la distanza di mondi frequentati.
Basta notare, in merito, il tono con cui Pasolini, nel ’57,
suggerisce all’amico la correzione di alcuni versi della poesia Il
cuore dei due fiumi: «Ci sono qua e là degli emendamenti che
io, pazzo, frenetico e amoroso ti propongo». Nell’orizzonte comune
di riflessioni e sensibilità riguardo a quella che Pasolini chiamava
mutazione antropologica, emerge anche una differenza sostanziale.
Volponi gli scrive, nel
1960, dopo aver vinto il premio Viareggio con la raccolta poetica Le
porte dell’Appennino: «Mi pare che l’Appennino contadino non
sia soltanto una poesia lirica dettata dalla nostalgia per la vita
dei contadini e della campagna, o soltanto un saggio sociologico; ma
che lamenti la condizione d’infelicità in cui si trovano ancora
quelle popolazioni nella soggezione agli dèi e alla natura e che
dica come per salvarle, la cultura, che fino a oggi le ha aiutate a
vivere, non vada dimenticata nelle abbreviazioni di un discorso
politico, ma guidata verso una coscienza moderna». Mentre Pasolini
idealizzava la cultura rurale, Volponi la storicizzava; vedeva la
natura come matrice biologica, paesaggio, intreccio fra destino
organico ed esperienza sociale, e la storia come luogo in cui tutta
l’umanità, anche quella in apparenza meno rilevante, è corpo
politico. I polmoni ammalati e il sistema nervoso compromesso del
reduce di guerra, Albino Saluggia, protagonista del suo primo
romanzo, Memoriale (1962), sono l’espressione fisica di un
carattere, di un personaggio, ma anche il modo in cui il corpo
reagisce alla storia e alle sue pressioni. Anteo Crocioni,
protagonista del romanzo successivo, La macchina mondiale
(1965), è un contadino filosofo dominato dal proprio sentire
vorticoso, da un ruminare che è dialogo, quasi mai armonico, fra
corpo e mondo, così come avviene all’intellettuale Gerolamo Aspri
protagonista di Corporale (1974).
Ma se dovessi indicare il
romanzo in cui i temi volponiani raggiungono la più alta saturazione
simbolica, tanto da costituire un archetipo della cultura italiana
del ’900, quanto lo sono Agostino di Alberto Moravia e
Aracoeli di Elsa Morante, direi Il lanciatore di giavellotto
(1981). Un racconto di fallita iniziazione alla vita, ai sentimenti e
al sesso. Una tragedia edipica e fratricida, di cui è protagonista
Damìn Possanza, un ragazzo che cresce in pieno regime fascista,
nella provincia sonnacchiosa e bella di Fossombrone. Per quanto
affiancato da pedagoghi, come il nonno e l’amico calzolaio, liberi
nel pensiero e nell’agire, inclini a riconoscere pari diritti
sessuali alle donne, Damìn rimane prigioniero di una fissazione
edipica con la madre che ha per amante un gerarca fascista, aborrito
e al contempo mitizzato dal ragazzo. Nutrito dai rituali ginnici del
regime, dalla retorica superomistica dei fumetti dell’Intrepido,
Damìn si rode di dolore, vergogna, gelosia e masturbazione, incapace
di concepire il rapporto con l’altro, e quindi la sessualità, se
non come degradazione. L’unica fuoriuscita da se stesso, oltre al
lancio che gli fa vincere i giochi regionali, è quella che compie
gettandosi da un ponte, dopo aver ucciso la sorella, ingelosito per
averla vista ballare con un ragazzo.
Pubblicato all’inizio
del decennio della gaudente celebrazione consumistica, della rinuncia
al conflitto ideologico e all’impegno, Il lanciatore di
giavellotto è apparso ad alcuni controtempo. Mi domando se non
sia da leggere, invece, al pari di Aracoeli (1982) di Morante,
come l’espressione di un nodo ancora irrisolto dell’identità
maschile, fra regressione edipica e incapacità a strutturarsi, se
non intorno al mito di una virilità tutta muscoli e sopraffazione.
Mettere a nudo la radice repressiva fascista, diluita e mai veramente
superata nel perbenismo borghese di una cultura a dominio maschile,
non era inattuale negli anni ottanta e non lo è, purtroppo, nemmeno
oggi. Fa impressione notare la ricorrenza della parola cazzo
nel testo di Volponi. Sottratto all’eden fusionale con la madre,
bella come l’architettura di una Urbino idealizzata, Damìn è
preda di una costante follia fallocentrica, una «coazione
biopsichica dell’età crudele», come la definì Gadda in relazione
ad Agostino di Moravia, tutta tesa a negare il femminile ed
esaltare il maschile nella sua versione più aggressiva e
distruttiva. Il romanzo termina con l’uccisione dell’inerme
sorella e con il suicidio di Damìn. Il lanciatore di giavellotto,
non è affatto controtempo, anzi è ancora dolorosamente dentro il
nostro tempo, fin troppo vicino alle cronache dei nostri quotidiani
“Il Sole 24 ore –
Domenica”, 8 aprile 2018
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