Londra 1936 - Manifestazione operaia |
L'importanza della
dimensione urbana nello sviluppo capitalistico è una tesi da tempo
sostenuta dal geografo ed economista americano David Harvey. Il tema
è al centro del suo ultimo lavoro, Città ribelli. I movimenti
urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street (Il
Saggiatore, Milano 2013). Il titolo appare fuorviante: la rassegna
dei movimenti di lotta urbani degli ultimi secoli è solo una parte
della trattazione, e non la principale. Ben più interessante è
l'analisi storico-economica dell'interrelazione tra il processo di
accumulazione capitalistico e quello di sviluppo e trasformazione
della realtà urbane, due aspetti evidentemente centrali del mondo
contemporaneo.
Harvey prende spunto da
un saggio di Henri Lefèbvre del 1967, Il diritto alla città,
in cui il filosofo marxista francese, muovendo dalla storia della
Comune del 1871 e analizzando le trasformazioni della città
moderna, proponeva un'interpretazione estesa del soggetto
rivoluzionario: era il proletariato urbano, insieme di figure
lavorative varie e composite molto oltre gli operai di fabbrica, il
protagonista delle principali fasi rivoluzionarie. Di lì a poco il
'68 avrebbe confermato, in Francia e altrove, l'importanza - e non
solo come scenario - della città nei movimenti di protesta.
L'analisi di Lefèbvre è
confermata e rafforzata dall'evoluzione del capitalismo neoliberista:
tanto l'espropriazione capitalistica dell'urbanesimo quanto lo
sviluppo di movimenti a base urbana conoscono nell'ultimo trentennio
dimensioni inedite. Non si tratta di fenomeni inediti. Le città
nascono come "concentrazione geografica" di un surplus
produttivo, e fin dall'antichità evidenziano una articolazione
sociale gerarchica (oligarchie, caste sacerdotali, etc). Con il
capitalismo questo processo assume un'importanza crescente: poiché
la logica dell'accumulazione richiede un continuo reinvestimento del
profitto, il capitale è alla continua ricerca di spazi di
assorbimento delle eccedenze. L'urbanizzazione è il principale
strumento per aggirare gli ostacoli che si oppongono costantemente
alla realizzazione del plusvalore. Esiste quindi un nesso
statisticamente verificabile tra i cicli di accumulazione, con
l’alternanza di periodi di crecita e di crisi, e il processo di
urbanizzazione, che, a sua volta, nelle sue diverse fasi, comporta
trasformazioni profonda dell’organizzazione sociale, che incidono
sulla vita quotidiana, le abitudini e le relazioni tra le diverse
classi che abitano lo spazio urbano. Lo studio dell’investimento
immobiliare e della rendita urbana è quindi da mettere in primo
piano non solo perché chiarisce le dinamiche concrete del processo
di riproduzione e circolazione del capitale (che lo stesso Marx
subordina al processo di produzione solo dal punto di vista del
metodo di trattazione, considerandolo coessenziale al processo
complessivo della produzione capitalistica), ma perché sia nelle
fasi espansive che in quelle recessive è una variabile
importantissima delle relazioni di classe, spesso considerate anche
dal marxismo come limitate al rapporto (e al tempo) di lavoro.
Harvey verifica questa
“centralità dell’urbano” attraverso una serie di esempi
storici. Il primo, molto noto, è la ristrutturazione di Parigi
all’indomani della rivoluzione del 1848. Il progetto di Napoleone
III è realizzato dal prefetto Hausmann, che dà alla città
l’inconfondibile profilo geometrico dei grandi boulevard,
eliminando interi quartieri popolari e rendendo impossibili le
barricate, forma tipica delle rivolte popolari urbane dal 1789. A
questa matrice politica, diretta filiazione del ciclo
rivoluzione-reazione del 1848, si intrecciano altre motivazioni. Il
1848 è il punto culminante della prima crisi generale del
capitalismo, e il programma di sventramenti, ristrutturazioni,
costruzioni infrastrutturali e immobiliari, consente sia di dare
sfogo al surplus di capitale inutilizzato, sia di assorbire la
disoccupazione di massa. Lo schema assicura crescita e stabilità
sociale per quindici anni, nel corso dei quali è evidente il
mutamento irreversibile dello "stile di vita" urbano. La
vicenda di Parigi è paradigmatica anche per il rovescio della
medaglia: il ciclo di investimento urbano, poiché innesta – per
usare il linguaggio del Capitale – l'integrazione rischiosa tra
capitale reale e "fittizio", tra produzione e speculazione,
moltiplica le occasioni e le manifestazioni della crisi. Nel caso
specifico, il crac finanziario del 1868 apre la strada al mutamento
di scenario, e la crisi culmina con la guerra franco-prussiana e la
caduta del secondo impero; dentro il crollo non a caso si colloca la
vicenda della Comune, che è anche da vedere come tipico esempio di
rivoluzione urbana. Prima di concentrasi su questo punto, Harvey
prende in considerazione altri esempi del ciclo "urbano" di
accumulazione: la ristrutturazione di New York, progettata a partire
del 1942, accompagna la crescita dei "gloriosi trenta", di
cui acquisisce anche i tratti "keynesiani", con lo sviluppo
di infrastrutture e servizi pubblici, ma senza evitare le distorsioni
economiche e sociali connaturate alla rendita urbana: la
sproporzionata crescita speculativa con relativa difficoltà di
rientro (data la lunghezza del ciclo di investimento immobiliare) da
un lato, e l'esproprio, espulsione, marginalizzazione dei ceti
popolari, nel caso specifico connotati razzialmente. Il '68
americano è non a caso introdotto da una serie di rivolte urbane
guidate dalle minoranze e centrate sulla rivendicazione del "diritto
alla città". Il caso più recente è anche il più evidente.
Negli ultimi trent'anni il fenomeno dell'urbanizzazione, ormai da
considerare su scala globale, è stato il principale meccanismo di
assorbimento dei surplus, nonché uno degli strumenti privilegiati
per l'elaborazione di quei meccanismi che hanno consentito una
crescita esponenziale dei mercati finanziari, che non poteva che
trovare un traumatico punto di arresto: è noto a tutti che l'innesco
della crisi del 2008 è nel crollo negli Usa dei subprime, quel
sistema di cartolarizzazione dei mutui che aveva coinvolto fino ai
più modesti proprietari di casa nella roulette finanziaria. Non è
solo la crisi a sconvolgere il tessuto sociale; il processo di
urbanizzazione è il più evidente esempio della distruzione
creatrice attraverso cui si svolge lo sviluppo capitalistico; per i
ceti subalterni ristrutturazioni, sventramenti, ricostruzioni,
significano come sempre espulsione e drastica riduzione dei diritti:
è il corrispettivo urbano dello sfruttamento.
Per questo gli episodi di
resistenza e rivolta urbana vanno considerati – secondo Harvey -
come specifico e centrale esperienza della lotta di classe. Il
proletariato urbano, protagonista delle azioni rivoluzionarie fin
dalla Comune, si è esteso sempre di più fino a divenire molto più
ampio e importante della classe operaia (che spesso ne costituisce un
sottoinsieme). Lo sfruttamento di classe continua anche fuori dalla
fabbrica, e l'urbanizzazione è essa stessa un prodotto: Perciò i
movimenti per il "diritto alla città" devono essere posti
al centro di ogni ragionamento sulle strategie rivoluzionarie.
Questa consapevolezza di
fondo deve però essere sviluppata e articolata. Un limite ricorrente
delle rivolte urbane è la difficoltà a generalizzarsi. Non è solo
una questione oggettiva: l'autonomia delle rivendicazioni locali e la
necessità del controllo dal basso vengono spesso elevati a principi
assoluti contrapposti ad ogni tentativo di estensione, vissuta come
imposizione dall'alto. Simili posizioni si ritrovano in forme
diverse, dalle polemiche tra Bakunin e Marx sulla Comune, al
dibattito sul bilancio partecipato, fino all'assemblearismo di Occupy
Wall Street. E' evidente che tutto ciò è conseguenza della
stratificata e complessa articolazione delle società urbane, d'altra
parte - sostiene convincentemente Harvey - senza un salto di qualità
geografico e "istituzionale", le esperienze locali non
potranno mai costituire l'alternativa di sistema che potenzialmente
rappresentano.
"micropolis", marzo 2014
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