Telemaco e Ulisse nell'Odissea televisiva RAI del 1968 |
Le avventure marinare di
Ulisse, concentrate in quattro libri centrali dell'Odissea,
rapida successione d'incontri con esseri fantastici (che compaiono
nelle fiabe del folklore d'ogni tempo e paese: l'orco Polifemo, i
venti rinchiusi nell'otre, gli incantesimi di Circe, sirene e mostri
marini) contrastano col resto del poema, in cui dominano i toni
gravi, la tensione psicologica, il crescendo drammatico gravitante su
un fine: la riconquista del regno e della sposa insidiati dai Proci.
Anche qui s'incontrano motivi comuni alle fiabe popolari, quali la
tela di Penelope e la prova di tiro all'arco, ma siamo su un terreno
più vicino ai criteri moderni di realismo e di verosimiglianza: gli
interventi soprannaturali riguardano soltanto le apparizioni degli
dèi olimpici, di solito celati sotto spoglie umane.
Dato che le avventure
fiabesche sono contenute nella narrazione in prima persona che Ulisse
fa al re dei Feaci, siamo tentati di pensare al nostro eroe come a un
fantasioso contaballe; però le stesse avventure (soprattutto quella
con Polifemo) vengono ricordate anche in altri luoghi del poema,
dunque Omero stesso ne dà conferma; non solo, ma gli dèi stessi ne
discutono nell'Olimpo. Non ci resta che attribuire le diversità di
stile fantastico a quel montaggio di tradizioni di diversa origine,
tramandate dagli aedi e confluite poi nell'Odissea omerica, che nel
racconto d'Ulisse in prima persona rivelerebbe il suo strato più
arcaico.
Più arcaico? Secondo
Alfred Heubeck, professore a Norimberga, prefatore del primo volume
d'un'edizione critica dell'Odissea che viene pubblicata con un
ricco apparato di note filologiche e storiche dalla Fondazione
Lorenzo Valla, le cose potrebbero essere andate in modo addirittura
opposto.
Ulisse prima dell'Odissea
(Iliade compresa) era sempre stato un eroe epico, e gli eroi
epici, come Achille e Ettore nell'Iliade, non hanno avventure
fiabesche di quel tipo, a base di mostri e incantesimi. Ma l'autore
dell'Odissea (che
per Heubeck è 1) un autore singolo e originale, non un
arrangiatore di materiali preesistenti, e 2) non è la stessa persona
dell'autore dell'Iliade, ma qualcuno che viene subito dopo, il
secondo poeta che affronta l'impresa d'un poema interamente scritto,
il che pone problemi compositivi del tutto nuovi rispetto all'epica
orale degli aedi) deve far stare Ulisse lontano da casa per dieci
anni, scomparso, irreperibile per i familiari e gli ex compagni
d'arme. Per far ciò lo deve far uscire dal mondo conosciuto, passare
in un'altra geografia, in un mondo extra-umano, un al di là (non per
nulla i suoi viaggi culminano nella visita agli Inferi). Per questo
sconfinamento fuori dai territori dell'epica, l'autore dell'Odissea
ricorre a tradizioni (queste sì più arcaiche) quali le imprese di
Giasone e degli Argonauti, le quali (e questo era già noto) hanno in
comune molti episodi con i viaggi d'Ulisse.
Dunque è la novità
dell'Odissea l'aver messo un eroe epico come Ulisse alle prese «con
streghe e giganti, con mostri e mangiatori d'uomini», cioè in
situazioni d'un tipo di saga più arcaica, le cui radici vanno
cercate «nel mondo dell'antica favola, e addirittura di primitive
concezioni magiche e sciamaniche».
E' qui che l'autore
dell'Odissea manifesta, secondo Heubeck, la sua vera
modernità, quella che ce lo rende vicino e attuale: se
tradizionalmente l'eroe epico era un paradigma di virtù
aristocratiche e militari, Ulisse è tutto questo ma in più è
l'uomo che sopporta le esperienze più dure, le fatiche e il dolore e
la solitudine. «Certo anch'egli trascina il suo pubblico in un
mitico mondo di sogno, ma questo mondo di sogno diviene l'immagine
speculare del mondo in cui viviamo, nel quale dominano bisogno e
angoscia, terrore e dolore, e nel quale l'uomo è immerso senza
scampo».
La tesi è attraente e si
è tentati di lasciarci subito convincere; Heubeck mette bene in
rilievo la coerenza strutturale dell'Odissea e la funzionalità
d'ogni sua parte a questa idea poetica e morale unitaria. Invece
Stephanie West, docente a Oxford (che nello stesso volume della
Fondazione Valla firma le introduzioni al testo e ai quattro primi
canti, nonché un commento fittissimo di dati interessanti)
sottolinea tutte le contraddizioni e incompatibilità tra le diverse
parti del poema. Infatti questa studiosa segue una tesi opposta
(almeno in parte) a quella di Heubeck, insistendo sulla
stratificazione delle fonti orali a cui l'autore dell'Odissea avrebbe
attinto, organizzandole in un mosaico composito. Ma anche per questa
via, è la struttura compositiva, il disegno generale, la strategia
narrativa che fa sì che l'Odissea sia l'Odissea; e
sono proprio i primi quattro libri (i viaggi di Telemaco) che lo
provano.
Il volume uscito ora
(Odissea, Vol. I, Libri I-IV, Fondazione Lorenzo Valla,
Mondadori) è una buona occasione per rileggere questi primi quattro
libri, cioè la «Telemachia», nella traduzione di G. A. Privitera
dell'Università di Perugia, e tenendo d'occhio per quanto si può il
testo greco a fronte. Trent'anni fa Rosa Calzecchi Onesti era stata
la prima a rendere il sapore arcaico dei poemi omerici. Su questa
linea di fedeltà alla lettera e al sapore del testo, la traduzione
di Privitera ha ritmo e incisività sia nei lampi di quella poesia
del dettaglio preciso che è la sempre sorprendente qualità omerica,
sia nelle ripetizioni di formule ed epiteti. (Questo repertorio di
clichés convenzionali è l'eredità della composizione orale:
infatti con essi gli aedi riempivano i vuoti e davano una continuità
alla loro improvvisazione).
Nella Telemachia Ulisse è
assente, ma, proprio attraverso la propria assenza domina sempre la
scena, con un procedimento «in negativo» di grande efficacia
narrativa. Per di più egli è ricordato in due flash-back sulla
guerra di Troia, da cui risulta una delle sue qualità principali:
l'astuzia contraffattrice. Nei due episodi egli si trova d fronte
Elena, che nel primo (quando Ulisse penetra travestito nella città
assediata) sembra collabori coi Greci, nel secondo (quello stupendo
del cavallo con dentro gli Achei nascosti e Elena fuori che cerca di
farli parlare) sembra lavori per il controspionaggio troiano; questa
contraddittorietà del ruolo di Elena aggiunge una luce ambigua ai
due racconti.
La Telemachia è tante
cose: è la descrizione della confusa situazione politico-economica a
Itaca coi Proci che dilapidano i beni del re assente (non si sa in
forza di quale di ritto o costume; tutto l'aspetto «istituzionale»
non è chiaro, ma su questa oscurità si fondano le cose più belle
del poema, come l'esilio agreste del re Laerte); è il contrasto con
le visioni da età dell'oro delle corti visitate da Telemaco, quella
austera di Nestore e quella affluente di Menelao; è la rassegna
degli alti «nostoi» ossia racconti del ritorno da Troia degli eroi
achei (e su tutti si proietta l'ombra tragica di quello d'Agamennone,
che torna per essere ucciso da Egisto); è anche il romanzo
dell'educazione di Telemaco, sebbene uno sviluppo in questo senso non
sia molto evidente, ma certo all'inizio Telemaco è un ragazzo
incerto su tutto, più ancora di Amleto (sembra gli manchi pure la
certezza d'essere figlio d'Ulisse!) mentre, attraverso le notizie
raccolte nel viaggio, l'immagine del padre gli appare concreta e può
identificarsi con lui.
Ma soprattutto la
Telemachia è la ricerca d'un racconto che non c'è, quel racconto
che sarà l'Odissea. Il cantore Femio alla reggia d'Itaca sa
già i «nostoi» degli altri eroi; glie ne manca solo uno, quello
del suo re; per questo Penelope non vuole più sentirlo cantare. E
Telemaco parte alla ricerca di questo racconto presso i veterani
della guerra di Troia: se trova il racconto, finisca esso bene o
male, Itaca uscirà dall'informe situazione senza tempo e senza legge
in cui si trova da tanti anni.
Come tutti i veterani,
anche questi hanno molto da raccontare: ma non il racconto che
Telemaco cerca. Finché Menelao non se ne vien fuori con un'avventura
che potrebbe situarsi tra quelle d'Ulisse della serie più
fantastica: camuffatosi da foca, Menelao catturò il «vecchio del
mare», cioè Proteo dalle infinite metamorfosi, e lo costrinse a
raccontargli il passato e il futuro. Proteo certo conosceva già
tutta l'Odissea per filo e per segno: comincia a raccontarla dallo
stesso punto in cui attacca Omero, con Ulisse nell'isola di Calipso;
poi s'interrompe. A quel punto Omero può dargli il cambio e
seguitare il racconto.
L'Odissea è un
contenitore d'Odissee una dentro l'altra. Alla corte dei
Feaci, Ulisse ascolta un aedo cieco come Omero che canta le vicende
d'Ulisse; l'eroe scoppia in lacrime; poi si decide a raccontare a sua
volta. In questo suo racconto, egli giunge fino all'Ade a interrogare
Tiresia, e Tiresia gli racconta il seguito del suo racconto. Poi
Ulisse incontra le Sirene che cantano; che cosa cantano? Ancora
l'Odissea, forse uguale a quella che stiamo leggendo, forse
diversissima.
Arrivato a Itaca sotto
mentite spoglie, Ulisse racconta, prima al pastore Eumeo, poi al
rivale Anti-noo e alla stessa Penelope le avventure che l'hanno
portato fin lì da Creta (patria del personaggio fittizio che lui
dice d'essere), aggiungendo ogni volta nuovi dettagli. E' un'altra
Odissea, tutta diversa, una storia di naufragi e di pirati
molto più verosimile del racconto che lui ha fatto al re dei Feaci.
Chi ci dice che non sia questa la «vera» Odissea? Il cretese
nei suoi viaggi aveva incontrato Ulisse: ecco dunque Ulisse che
racconta d'un Ulisse in viaggio per paesi dove l'Odissea non
l'aveva fatto passare. Sarà là che s'apre la «vera» Odissea?
Qui Stephanie West fa
un'ipotesi interessante: che vi sia stata un'Odissea
alternativa, un altro itinerario del ritorno, precedente a Omero.
Omero (o chiunque egli fosse, e qui l'ipotesi della West si salda
bene con la tesi di Heubeck) trovando questo racconto di viaggi
troppo povero e poco significativo, l'avrebbe sostituito con le
avventure favolose, ma serbandone traccia nei viaggi dello
pseudo-cretese. Difatti nel proemio c'è un verso che si presenta
come la sintesi di tutta l'Odissea: «Di molti uomini vide le città
e conobbe i pensieri». Quali città? Quali pensieri? Questa sintesi
s'adatterebbe meglio al racconto dei viaggi dello pseudo-cretese...
Però, appena Penelope
l'ha riconosciuto, nel talamo riconquistato, Ulisse torna a
raccontare dei Ciclopi, delle Sirene... Non è forse l'Odissea
il mito d'ogni viaggio? Forse per Ulisse-Omero la distinzione
menzogna-verità non esisteva, egli raccontava la stessa esperienza
ora nel linguaggio del vissuto, ora nel linguaggio del mito, così
come ancora per noi ogni nostro viaggio, piccolo o grande, è sempre
Odissea.
“la Repubblica”, 20 ottobre 1981
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