8.6.14

Telemaco alla ricerca del racconto. Italo Calvino rilegge l'Odissea

Telemaco e Ulisse nell'Odissea televisiva RAI del 1968
Le avventure marinare di Ulisse, concentrate in quattro libri centrali dell'Odissea, rapida successione d'incontri con esseri fantastici (che compaiono nelle fiabe del folklore d'ogni tempo e paese: l'orco Polifemo, i venti rinchiusi nell'otre, gli incantesimi di Circe, sirene e mostri marini) contrastano col resto del poema, in cui dominano i toni gravi, la tensione psicologica, il crescendo drammatico gravitante su un fine: la riconquista del regno e della sposa insidiati dai Proci. Anche qui s'incontrano motivi comuni alle fiabe popolari, quali la tela di Penelope e la prova di tiro all'arco, ma siamo su un terreno più vicino ai criteri moderni di realismo e di verosimiglianza: gli interventi soprannaturali riguardano soltanto le apparizioni degli dèi olimpici, di solito celati sotto spoglie umane.
Dato che le avventure fiabesche sono contenute nella narrazione in prima persona che Ulisse fa al re dei Feaci, siamo tentati di pensare al nostro eroe come a un fantasioso contaballe; però le stesse avventure (soprattutto quella con Polifemo) vengono ricordate anche in altri luoghi del poema, dunque Omero stesso ne dà conferma; non solo, ma gli dèi stessi ne discutono nell'Olimpo. Non ci resta che attribuire le diversità di stile fantastico a quel montaggio di tradizioni di diversa origine, tramandate dagli aedi e confluite poi nell'Odissea omerica, che nel racconto d'Ulisse in prima persona rivelerebbe il suo strato più arcaico.
Più arcaico? Secondo Alfred Heubeck, professore a Norimberga, prefatore del primo volume d'un'edizione critica dell'Odissea che viene pubblicata con un ricco apparato di note filologiche e storiche dalla Fondazione Lorenzo Valla, le cose potrebbero essere andate in modo addirittura opposto.
Ulisse prima dell'Odissea (Iliade compresa) era sempre stato un eroe epico, e gli eroi epici, come Achille e Ettore nell'Iliade, non hanno avventure fiabesche di quel tipo, a base di mostri e incantesimi. Ma l'autore dell'Odissea (che per Heubeck è 1) un autore singolo e originale, non un arrangiatore di materiali preesistenti, e 2) non è la stessa persona dell'autore dell'Iliade, ma qualcuno che viene subito dopo, il secondo poeta che affronta l'impresa d'un poema interamente scritto, il che pone problemi compositivi del tutto nuovi rispetto all'epica orale degli aedi) deve far stare Ulisse lontano da casa per dieci anni, scomparso, irreperibile per i familiari e gli ex compagni d'arme. Per far ciò lo deve far uscire dal mondo conosciuto, passare in un'altra geografia, in un mondo extra-umano, un al di là (non per nulla i suoi viaggi culminano nella visita agli Inferi). Per questo sconfinamento fuori dai territori dell'epica, l'autore dell'Odissea ricorre a tradizioni (queste sì più arcaiche) quali le imprese di Giasone e degli Argonauti, le quali (e questo era già noto) hanno in comune molti episodi con i viaggi d'Ulisse.
Dunque è la novità dell'Odissea l'aver messo un eroe epico come Ulisse alle prese «con streghe e giganti, con mostri e mangiatori d'uomini», cioè in situazioni d'un tipo di saga più arcaica, le cui radici vanno cercate «nel mondo dell'antica favola, e addirittura di primitive concezioni magiche e sciamaniche».
E' qui che l'autore dell'Odissea manifesta, secondo Heubeck, la sua vera modernità, quella che ce lo rende vicino e attuale: se tradizionalmente l'eroe epico era un paradigma di virtù aristocratiche e militari, Ulisse è tutto questo ma in più è l'uomo che sopporta le esperienze più dure, le fatiche e il dolore e la solitudine. «Certo anch'egli trascina il suo pubblico in un mitico mondo di sogno, ma questo mondo di sogno diviene l'immagine speculare del mondo in cui viviamo, nel quale dominano bisogno e angoscia, terrore e dolore, e nel quale l'uomo è immerso senza scampo».
La tesi è attraente e si è tentati di lasciarci subito convincere; Heubeck mette bene in rilievo la coerenza strutturale dell'Odissea e la funzionalità d'ogni sua parte a questa idea poetica e morale unitaria. Invece Stephanie West, docente a Oxford (che nello stesso volume della Fondazione Valla firma le introduzioni al testo e ai quattro primi canti, nonché un commento fittissimo di dati interessanti) sottolinea tutte le contraddizioni e incompatibilità tra le diverse parti del poema. Infatti questa studiosa segue una tesi opposta (almeno in parte) a quella di Heubeck, insistendo sulla stratificazione delle fonti orali a cui l'autore dell'Odissea avrebbe attinto, organizzandole in un mosaico composito. Ma anche per questa via, è la struttura compositiva, il disegno generale, la strategia narrativa che fa sì che l'Odissea sia l'Odissea; e sono proprio i primi quattro libri (i viaggi di Telemaco) che lo provano.
Il volume uscito ora (Odissea, Vol. I, Libri I-IV, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori) è una buona occasione per rileggere questi primi quattro libri, cioè la «Telemachia», nella traduzione di G. A. Privitera dell'Università di Perugia, e tenendo d'occhio per quanto si può il testo greco a fronte. Trent'anni fa Rosa Calzecchi Onesti era stata la prima a rendere il sapore arcaico dei poemi omerici. Su questa linea di fedeltà alla lettera e al sapore del testo, la traduzione di Privitera ha ritmo e incisività sia nei lampi di quella poesia del dettaglio preciso che è la sempre sorprendente qualità omerica, sia nelle ripetizioni di formule ed epiteti. (Questo repertorio di clichés convenzionali è l'eredità della composizione orale: infatti con essi gli aedi riempivano i vuoti e davano una continuità alla loro improvvisazione).
Nella Telemachia Ulisse è assente, ma, proprio attraverso la propria assenza domina sempre la scena, con un procedimento «in negativo» di grande efficacia narrativa. Per di più egli è ricordato in due flash-back sulla guerra di Troia, da cui risulta una delle sue qualità principali: l'astuzia contraffattrice. Nei due episodi egli si trova d fronte Elena, che nel primo (quando Ulisse penetra travestito nella città assediata) sembra collabori coi Greci, nel secondo (quello stupendo del cavallo con dentro gli Achei nascosti e Elena fuori che cerca di farli parlare) sembra lavori per il controspionaggio troiano; questa contraddittorietà del ruolo di Elena aggiunge una luce ambigua ai due racconti.
La Telemachia è tante cose: è la descrizione della confusa situazione politico-economica a Itaca coi Proci che dilapidano i beni del re assente (non si sa in forza di quale di ritto o costume; tutto l'aspetto «istituzionale» non è chiaro, ma su questa oscurità si fondano le cose più belle del poema, come l'esilio agreste del re Laerte); è il contrasto con le visioni da età dell'oro delle corti visitate da Telemaco, quella austera di Nestore e quella affluente di Menelao; è la rassegna degli alti «nostoi» ossia racconti del ritorno da Troia degli eroi achei (e su tutti si proietta l'ombra tragica di quello d'Agamennone, che torna per essere ucciso da Egisto); è anche il romanzo dell'educazione di Telemaco, sebbene uno sviluppo in questo senso non sia molto evidente, ma certo all'inizio Telemaco è un ragazzo incerto su tutto, più ancora di Amleto (sembra gli manchi pure la certezza d'essere figlio d'Ulisse!) mentre, attraverso le notizie raccolte nel viaggio, l'immagine del padre gli appare concreta e può identificarsi con lui.
Ma soprattutto la Telemachia è la ricerca d'un racconto che non c'è, quel racconto che sarà l'Odissea. Il cantore Femio alla reggia d'Itaca sa già i «nostoi» degli altri eroi; glie ne manca solo uno, quello del suo re; per questo Penelope non vuole più sentirlo cantare. E Telemaco parte alla ricerca di questo racconto presso i veterani della guerra di Troia: se trova il racconto, finisca esso bene o male, Itaca uscirà dall'informe situazione senza tempo e senza legge in cui si trova da tanti anni.
Come tutti i veterani, anche questi hanno molto da raccontare: ma non il racconto che Telemaco cerca. Finché Menelao non se ne vien fuori con un'avventura che potrebbe situarsi tra quelle d'Ulisse della serie più fantastica: camuffatosi da foca, Menelao catturò il «vecchio del mare», cioè Proteo dalle infinite metamorfosi, e lo costrinse a raccontargli il passato e il futuro. Proteo certo conosceva già tutta l'Odissea per filo e per segno: comincia a raccontarla dallo stesso punto in cui attacca Omero, con Ulisse nell'isola di Calipso; poi s'interrompe. A quel punto Omero può dargli il cambio e seguitare il racconto.
L'Odissea è un contenitore d'Odissee una dentro l'altra. Alla corte dei Feaci, Ulisse ascolta un aedo cieco come Omero che canta le vicende d'Ulisse; l'eroe scoppia in lacrime; poi si decide a raccontare a sua volta. In questo suo racconto, egli giunge fino all'Ade a interrogare Tiresia, e Tiresia gli racconta il seguito del suo racconto. Poi Ulisse incontra le Sirene che cantano; che cosa cantano? Ancora l'Odissea, forse uguale a quella che stiamo leggendo, forse diversissima.
Arrivato a Itaca sotto mentite spoglie, Ulisse racconta, prima al pastore Eumeo, poi al rivale Anti-noo e alla stessa Penelope le avventure che l'hanno portato fin lì da Creta (patria del personaggio fittizio che lui dice d'essere), aggiungendo ogni volta nuovi dettagli. E' un'altra Odissea, tutta diversa, una storia di naufragi e di pirati molto più verosimile del racconto che lui ha fatto al re dei Feaci. Chi ci dice che non sia questa la «vera» Odissea? Il cretese nei suoi viaggi aveva incontrato Ulisse: ecco dunque Ulisse che racconta d'un Ulisse in viaggio per paesi dove l'Odissea non l'aveva fatto passare. Sarà là che s'apre la «vera» Odissea?
Qui Stephanie West fa un'ipotesi interessante: che vi sia stata un'Odissea alternativa, un altro itinerario del ritorno, precedente a Omero. Omero (o chiunque egli fosse, e qui l'ipotesi della West si salda bene con la tesi di Heubeck) trovando questo racconto di viaggi troppo povero e poco significativo, l'avrebbe sostituito con le avventure favolose, ma serbandone traccia nei viaggi dello pseudo-cretese. Difatti nel proemio c'è un verso che si presenta come la sintesi di tutta l'Odissea: «Di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri». Quali città? Quali pensieri? Questa sintesi s'adatterebbe meglio al racconto dei viaggi dello pseudo-cretese...
Però, appena Penelope l'ha riconosciuto, nel talamo riconquistato, Ulisse torna a raccontare dei Ciclopi, delle Sirene... Non è forse l'Odissea il mito d'ogni viaggio? Forse per Ulisse-Omero la distinzione menzogna-verità non esisteva, egli raccontava la stessa esperienza ora nel linguaggio del vissuto, ora nel linguaggio del mito, così come ancora per noi ogni nostro viaggio, piccolo o grande, è sempre Odissea.


“la Repubblica”, 20 ottobre 1981

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