Un'immagine dal Satyricon di Federico Fellini |
Del Satyricon di
Petronio Arbitro, dal 1928 a oggi, saranno comparse in Italia a dir
poco una quindicina di traduzioni; e alcune sono state più volte
ristampate, come quella di Nino Marziano ora ripubblicata da Mursia
(pagg. 200, lire 6.000). Le ragioni di tanta fortuna sono abbastanza
ovvie, ma forse varrà la pena farci su qualche osservazione.
Intanto, notiamo che quindici traduzioni (ma non pretendo che il
numero sia esatto) in pressappoco un cinquantennio sono veramente
troppe. Vuoi dire che nessuna è soddisfacente o che nessuna ha
saputo imporsi quale insuperabile (se non altro, stilisticamente).
Di fatto è proprio così.
Azzarderei a distinguerle in due categorie: le filologiche e le
disinvolte. Alla prima categoria, assai sparuta, appartiene per
esempio la traduzione di Cesareo riveduta da Terzaghi (Sansoni), che
tutto sommato io continuo a preferire, sebbene alquanto impettita e
argutamente professorale («quand'ecco ci si para alla vista», «ti
fo veder io»). La categoria delle disinvolte è ormai inflazionata,
e se volessi consigliarne una sceglierei quella di G.A. Cibotto,
ristampata due anni fa dalla Newton Compton, perché costava poco e
col testo latino a fronte.
Un santissimo
scapaccione
Un caso a sé è Il
gioco del Satyricon di Edoardo Sanguineti (Einaudi), che si
presenta come una «imitazione» da Petronio; in realtà è una
traduzione vivace e filologicamente corretta, però rifusa dentro una
maniera di stile parlato che civetta con la ridondanza («Ma dunque,
che siccome sappiamo che ci dobbiamo morire, viviamoci un po'! Ma vi
voglio vedere contenti, voi, io, che ci gettiamo tutti nel bagno,
adesso, che ci giuro che non ve ne pentite niente, voi, che quello è
caldo come un forno»). Insomma, si tratta di una disinvoltura
ultrasofisticata.
La disinvoltura del Nino
Marziano va invece per le spicce e riduce la scrittura di Petronio a
un volgarismo un po' trasandato, e di toni banali. Oltre alle
corrività bisogna poi lamentare le imprecisioni: un semplice caput
percussi, lo picchiai sulla testa, diventa «gli rifilai un
santissimo scapaccione», e nel capitolo precedente (95) una sventola
robustissima diventa «un solennissimo ceffone»; ma che c'entrano il
santissimo e il solennissimo? E i compediti, quelli destinati
ai ceppi, gli schiavi, è lecito farli diventare «quelli che ci
hanno i complessi»?
E perché il patrono
meo, il padrone, di Trimalcione diventa «quella buon'anima di
mio padre»? E la vecchia Enotea (138) infila il fallo di cuoio nel
sedere di Encolpio, a scopo magico-terapeutico, non già nel proprio,
come accade in questa versione. Non del tutto affidabile, anche se
l'intenzione è di rendere filata e gradevole la lettura, mi sembra
dunque il lavoro di Marziano. Lo stile, questo è il punto dolente di
ogni traduzione da Petronio; e i disinvolti, chi più e chi meno,
secondo le loro forze, l'hanno perfettamente intuito: che bisogna
andare sul leggero e giocare coi volgarismi perché la scrittura di
Petronio è così, tutta una parodia, una peripezia di mimetismi che
mette in burla, in fondo con bonario cinismo, un mondo intero di
persone, culti, istituzioni.
Il gaglioffo eroe del
Satyricon, il narratore Encolpio, studente squattrinato e
allegramente disponibile a qualsiasi bassezza, si moltìplica in
tutti i personaggi che racconta dando a ognuno la sua voce
particolare. La forma plurisoggettiva della narrazione, la crudezza
inconsapevole con cui ogni personaggio vive la propria parte,
l'assoluta mancanza di moralismo, l'ironia effervescente delle
situazioni, la spudoratezza degli appetiti, la comica voracità con
cui si consumano le avventure del romanzo, di cui l'episodio della
cena di Trirnalcione è l'abbuffante allegoria, sembrano caratteri
fatti apposta per gratificare il lettore contemporaneo e per sedurre
i traduttori alla disinvoltura. Ma se si va troppo sul leggero, se
non si azzecca un tono fondamentale che consenta di rendere le
svariate sfumature parodistìche, se si appiattisce la scrittura di
Petronio si finisce per ottenere quasi l'effetto contrario: la
scrittura peso-morto.
Si sa che il Satyricon
è conservato in piccola parte; un'antica annotazione su un codice ci
fa sapere che il testo raccoglie frammenti del quindicesimo e
sedicesimo libro; da che si deduce che l'intero romanzo doveva
spiegarsi in una grandiosa odissea comica fondata sul motivo
dell'eroe viaggiatore (un motivo che dalla letteratura greca risale
almeno fino all'Ulysses di Joyce). Sul contenuto generalmente
ipotizzabile valgono ancora perfettamente le parole del Cesareo: «Le
imprese che conosciamo ci danno a un dipresso l'idea di quelle che
dovettero formare la materia dell'opera: furti, sacrilegi, tranelli
tesi a gente credula e ricca, servigi inverecondi resi o accettati
presso signore rotte a ogni lussuria. Il continuo mutamento dei
luoghi da modo all'autore di descrivere tutta la vita del tempo:
fori, bagni, ville, scuole, alberghi, cripte, cene, orti,
pinacoteche, santuari, forse tribunali e teatri, dove vanno e
vengono, agiscono, piangono, ridono, persone d'ogni condizione...».
L'ira di Priapo
Da quanto conosciamo si
ricava anche qual è l'incalzante e irresistibile agente provocatore
del viaggio: il narratore Encolpio ha profondamente oltraggiato il
dio Priapo e la gravis ira, il tremendo furore, di costui lo
perseguita implacabile. Dopo ogni malandrinata, c'entri o no Priapo,
Encolpio se la squaglia portandosi dietro l'efebo Gitone e la
minaccia del dio. E' questa la chiave parodistica (e Marziano non
manca di sottolinearlo nell'introduzione) che apre le avventure del
romanzo al gioco esilarante della dissacrazione.
L'ironia di Petronio, a
quanto pare, affabula con imparziale serenità i culti, le credenze,
i costumi, le sciocchezze e le nefandezze, le volgarità e le miserie
di un campionario sociale molto vasto; non possiamo dire se questa
universale ironia toccasse direttamente anche la classe più in alto
e i reggitori dello Stato imperiale (siamo nell'epoca neroniana).
Forse indirettamente. Quel che si può dire è che Petronio non
risparmia quelle che noi chiameremmo le istituzioni letterarie.
Quanto ci resta del Satyricon comincia con una sbeffeggiata
delle scuole di retorica; ed è evidente nelle pagine che seguono,
prima della cena di Trimalcione, la caricatura del romanzo erotico
greco; non parliamo poi della sminchionatura che si accanisce con
insuperabile grazia satirica nel raffigurare lo spiantato, frenetico
e priapesco poeta Eumolpo, personaggio altrettanto immortale del
prodigo arricchito Trirnalcione.
Se poi aggiungiamo le
imitazioni burlesche della poesia epica, soffiate attraverso le
declamazioni di Eumolpo, e le perorazioni più sottilmente
caricaturali dello stesso Encolpio (vedi il delizioso capitolo 132 di
cui tra poco diremo qualcosa), ci viene il sospetto che quanto ci
resta miracolosamente del Satyricon derivi da una sola
trascrizione originaria, per mano di un letterato che badava a
stralciare dal romanzo i passi che sfottevano, in un modo o in un
altro, la letteratura. Sfottimenti, intendiamoci, allegri e di
suprema abilità, maliziosamente rispettosi della fatica letteraria:
il fabulosum sententiarum tormentum, l'ingegnoso macchinario
della fantasia.
Veniamo così per un
momento al capitolo 132. Castigato da Priapo, il misero Encolpio per
ben due volte ha fatto cilecca con la bellissima e bramosa Circe,
gentildonna di Crotone (è lì che si trovano alla fine i nostri
eroi, Encolpio, Eumolpo e il cinedo Gitone, scampati a un naufragio).
Frustato, sputacchiato e buttato fuori della porta dai servi di
Circe, Encolpio si caccia nel letto e comincia a inveire, in versi e
in prosa, contro quella parte del proprio corpo che ormai non merita
più di essere noverata tra le «cose serie» e di cui, del resto, le
persone serie non vogliono sapere niente. La forbita rabbia di
Encolpio verso il proprio «coso» contumace è una tale novità che
Petronio si diverte a rilevarla con gran finezza retorica. Dopo le
invettive, Encolpio ha un buffo moto di pentimento e di vergogna.
Come ho potuto parlare al mio coso? Poi ha un soprassalto riflessivo,
e grattandosi la fronte si dice: Ma che male c'è a sfogare il dolore
con un po' di insulti? Ulisse non parla col proprio cuore prima di
affrontare i Proci? E non ce la pigliamo malamente ora col ventre,
ora con la gola, ora col capo o con gli occhi, quando ci dolgono?
Di qui Encolpio trapassa
a declamare il famoso epigramma che comincia: “Perché, Catoni
censori, mi guardate con cipiglio severo e condannate la moderna
franchezza della mia opera?”. Ecco il punto essenziale: novae
simplicitatis opus esprime ovviamente la consapevolezza lucida di
Petronio, che si serve di Encolpio per concludere il capitolo con la
persuasione che nihil est... ficta severitate ineptius, niente è più
stupido che la falsa severità. Questo è forse l'unico tratto in cui
ci è dato di avvertire, appena camuffata, la filosofia esplicita, la
poetica dell'autore.
La fortuna crescente di
Petronio negli ultimi decenni ha buone ragioni formali e materiali.
La ragione principale è probabilmente questa: che il Satyricon
rappresenta non gli uomini, ma gli homunci, gli omettini, i
poveri diavoli magari invasati, che sono poi gli uomini che
conosciamo e che sappiamo di essere (non intendo ingiuriare i
sublimi, che esisteranno nel ciclo delle idee). Nello stravaccamento
vanitoso, nell'orgiastica pacchianeria e ignoranza di Trimalcione si
rispecchia troppa realtà perché sia il caso di insistervi. Ma è
anzitutto lo stile, letterario e morale, a fare di Petronio un nostro
contemporaneo. Il grottesco e l'ironia inesorabile mescolati con una
sferzante e serena indulgenza. Proprio ciò che ci vuole per
rassicurarci.
“la Repubblica” -
ritaglio senza data, ma 1982
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