L'Erma di Pitagora ai Musei Capitolini Copia di un busto del V secolo A. C. |
I primi a porre problemi
matematici non furono uomini, ma dei.
Le fonti lo comprovano
con un numero così impressionante di racconti, spiegazioni e
concordanze da sospettare che non si tratti di semplici favole, di
narrazioni ingenue o superflue. Eschilo ci dice che Prometeo è stato
il padre del numero e il primo a distinguere i segni astronomici che
scandiscono il tempo. Erano inventori del numero anche il dio egizio
Thot, alter ego del greco Ermes, nonché Palamede, allievo del
centauro Chirone ed eroe della guerra di Troia. Sarà calunniato da
Ulisse, che gli consigliava malignamente di rivolgere le sue ricerche
alla terra anziché al cielo, e ucciso dai suoi compagni con l'accusa
ingiusta di tradimento. Pitagora, che aveva una natura tra l'umano e
il divino, apprese dagli egizi e dai babilonesi un'arte della misura
trasmessa dagli dei. Da Eutocio, commentatore di Archimede,
apprendiamo poi che Minosse, il mitico re di Creta e figlio di Zeus,
voleva raddoppiare una tomba regale della forma di un cubo. La
costruzione a Delo di un altare di forma cubica doppio di quello
esistente sarebbe stata prescritta dall'oracolo di Apollo.
Nell'India del I
millennio a. C. troviamo problemi sorprendentemente simili a quelli
greci, ma meglio collegati, questa volta, a un sistema di
prescrizioni rituali e di libri sapienziali ispirati dagli dei. In
quei libri si parla dell'origine del mondo, del modo in cui
l'universo cominciò ad assumere una forma intelligibile e di come,
con esso, iniziarono a configurarsi il nostro pensiero e la nostra
coscienza. Occorre solo cautela nell'interpretare il rito come una
pura messa in scena del mito cosmogonico. Per un verso esso era pura
sintassi, una rigorosa esecuzione formale di azioni e recitazioni
virtualmente in grado di mettere in comunicazione con le potenze
celesti. Il rigore e l'esattezza (satyam) erano d'obbligo, gli
errori inammissibili. «L'esatto per eccellenza era il rito»,
avrebbe notato Louis Renou.
Non stupisce dunque che
alla matematica, nel rito, spettasse una parte importante. I diversi
"trattati della corda", gli Sulvasûtra, a partire
dal VI secolo a. C., insegnano nel modo più scrupoloso e laconico
come costruire altari di mattoni dalle complesse forme geometriche e
come ingrandirli, in scala, fino a oltre cento volte. Ma perché gli
altari vedici, come quello di Apollo a Delo, dovevano poter essere
ingranditi? In testi più antichi in cui sono esposte verità
rivelate, come gli Satapathabrâhmana, si racconta come
Prajâpati, il grande demiurgo, giacesse esausto e smembrato dopo la
creazione dell'universo. La creazione era un immane sacrificio che
l'azione rituale (karman) doveva rinnovare ogni volta. Agni,
l'altare del fuoco, era allora l'altro nome dello stesso dio
Prajâpati una volta ricomposto, restaurato e in condizioni di
«crescere per via di giunture e legamenti». C'erano altari di forma
quadrata o circolare, e l'area doveva essere la stessa: di qui la
difficile costruzione di un cerchio equivalente a un quadrato
assegnato e poi, inversamente, il celebre problema della quadratura
del cerchio. Gli altari di forma più complessa imitavano invece
l'immagine stilizzata di un falco, composta di quadrati e di
triangoli.
La crescita dell'altare
implicava quindi quella di un quadrato, e la questione matematica
correlata era in breve la seguente: in quale modo la crescita o la
diminuzione del lato del quadrato ne altera la superficie? Una
questione semplice ma decisiva, da cui derivarono le più note
procedure per risolvere un'equazione e alcune tecniche fondamentali
dell'analisi moderna. In origine era il dio, Agni o Apollo, a
crescere, e la crescita non ne alterava la forma. Invarianza nel
mutamento: è stata questa l'idea guida che molti matematici hanno
posto a fondamento della loro disciplina. Alla matematica degli dei
risalgono procedure di calcolo ancora oggi di straordinaria
efficacia. Ma cosa ne è stato poi del rapporto degli dei con la
matematica? In India si celebrano ancora i riti di Agni. Il logos
greco e la sapienza veterotestamentaria, inseparabili dalla
matematica, si trasmisero e rinnovarono nel logos cristiano fin dai
primi secoli della nostra era. Per questa ragione Agostino poteva
affermare che numero e sapienza sono la stessa cosa. Più tardi
Alberto Magno, maestro di Tommaso d'Aquino, indagando sulla natura
dell'infinito, ripensava alla crescita di un quadrato come già
l'avevano concepita i pitagorici, e ancor prima gli indiani. La
filosofia scolastica ripensò poi quella profonda adaequatio rei
et intellectus, la corrispondenza tra le cose e la nostra
intelligenza, tra l'uomo e l'universo, che gli altari matematici
dell'antichità già volevano realizzare.
La matematica ha sempre
avuto il ruolo di natura intermedia tra Cielo e Terra, esattamente
come Pitagora aveva mediato tra gli uomini e gli dei e come le
"intime giunture" di Agni avevano trasformato la materia
informe dell'universo in una regione del pensiero, ciò che in Grecia
divenne il kósmos noetós, il mondo ordinato e intelligibile
dei platonici. Ma questa posizione intermedia della matematica è
stata pure causa di oscillazioni e di virtuale instabilità. In
Grecia, osservava Alexandre Kojève, il cosmo intelligibile e
matematico fu una vetta assoluta, un limite estremo e invalicabile,
per ogni pagano, di tutte le possibili incarnazioni del suo Dio. Il
dogma dell'Incarnazione avrebbe cambiato le cose: Dio poteva esistere
nel mondo senza perdere nulla di sé; quindi ci si poteva limitare
allo studio della perfezione matematica sulla Terra. Il Cielo
cominciò allora a perdere la sua ingerenza, la matematica e la
teologia presero strade indipendenti e la matematica degli dei, come
ebbe a dire il celebre matematico Pafnutij L. Èebyšëv, fu presto
soppiantata da una matematica di tecnici. Ma quest'ultima, ci
chiediamo noi, riuscì mai a diventare solo profana? Ancora John von
Neumann, pur così coinvolto nelle sue prodigiose applicazioni
tecnologiche sulla Terra, ne rivendicava, in pieno ‘900, la natura
divina.
“la Repubblica”, 15
maggio 2014
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