Sul
“Ponte” di giugno con un titolo demodé
e, se si legge per intero l'articolo, un po' provocatorio, Lanfranco
Binni traccia un'analisi impietosa del quadro politico dopo i
risultati delle elezioni europee, sia a livello continentale sia a
livello della “provincia” italiana. La proposta è una uscita in
avanti dalla crisi della politica e della sinistra attraverso una
strategia rivoluzionaria che utilizzi tutti gli strumenti istituzionali e mediatici a
disposizione ma abbia al suo centro la presa di responsabilità e
di potere degli sfruttati e degli oppressi dal basso. Nel discorrere di Binni c'e molto da discutere e da precisare, ma penso che il
testo possa incontrare l'attenzione di chi non vuole
arrendersi alle nuove, sempre più insidiose, forme di barbarie. (S.L.L.)
Madrid. Una manifestazione degli "indignados" |
Con il non
voto al 45,61%, il 40,8% del Pd corrisponde al 22,19% degli elettori
“aventi diritto”. Il Pd ha attratto voti berlusconiani ed
ex-grillini, e ha fagocitato i suoi alleati di governo indebolendone
l’influenza parlamentare; il M5S, nonostante i linciaggi mediatici
alimentati dai suoi stessi errori di ordine politico (ne parla
diffusamente Mario Monforte in questo stesso numero della rivista),
ha comunque consolidato la sua area di secondo partito nazionale al
21%; prosegue il declino di Forza Italia, destinato ad aggravarsi.
Dall’analisi dei flussi elettorali emergono due dati
particolarmente significativi: nel Pd confluiscono aree elettorali di
“sinistra” tradizionale, di centro e di destra; dall’area del
M5S defluiscono verso il Pd (ma soprattutto verso l’astensionismo)
elettori di destra che lo avevano votato alle politiche del 2013
(emblematico il caso del Nord-Est). La sinistra della lista “L’altra
Europa per Tsipras” ha superato a fatica lo sbarramento del 4%, per
poi sprofondare immediatamente nelle endemiche contraddizioni dei
partiti che la componevano (Sel, Rifondazione comunista,
liberaldemocratici di «Repubblica»). Ora la partita si gioca a
livello europeo, in un Parlamento indebolito dalle conseguenze delle
politiche di austerità, ma soprattutto nel quadro italiano.
In Italia le
elezioni europee sono state elezioni politiche di pretesa
“legittimazione” del governo di Renzi e di rafforzamento
apparente degli interessi atlantici che l’hanno espresso; in realtà
la sua linea di conciliazione di interessi diversi (americani ed
europei) e le sue promesse elettorali insostenibili lo mettono in una
posizione di grande debolezza, anche in presenza di un’opposizione
parlamentare e sociale che è costretta (e questo è il dato più
positivo della situazione post-elettorale) a ripensare le proprie
strategie, ad affinare le proprie armi: il confronto che si è subito
aperto nell’area del M5S e della lista Tsipras potrebbe (deve)
andare in questa direzione. Anche nella base popolare del Pd potrebbe
aprirsi un limitato confronto sulla nuova natura centrista,
democristiana e berlusconiana, del partito di Renzi.
Un confronto
“aperto” (oltre le appartenenze e i recinti) su quali temi? Su
due questioni centrali: la «democrazia» e il «modello di sviluppo»
della società italiana. Nei risultati delle europee è presente
(latente o dichiarata, generica e confusa) una forte domanda di
cambiamento che attraversa gli elettorati del Pd, del M5S, della
lista Tsipras e il non elettorato degli astenuti. Alle
semplificazioni di una sfera politica marginale ed espressione di
interessi più o meno nascosti non corrisponde la complessità del
paese, della sua Storia, delle sue tradizioni culturali e politiche,
del suo invecchiamento demografico. La condizione dei senza potere e
senza voce, assordati dalle sceneggiate televisive degli imbonitori e
dei politicanti, è drammatica; lo spettacolo di una “società”
devastata è sotto gli occhi di tutti, e il futuro è chiaro: la
crisi strutturale del capitalismo si aggraverà, le politiche
malthusiane del Fmi, della Bce e della speculazione finanziaria
creeranno nuove dilaganti povertà, le oligarchie politiche ed
economiche coinvolgeranno nei loro conflitti (la guerra è la
continuazione della politica) il proletariato internazionale, vecchio
e nuovo. L’orrore economico di un capitalismo in crisi, alla
vigilia della prossima crisi finanziaria, produrrà nuovi ed estesi
disastri.
Quanto sta
accadendo nell’Europa dell’Est, in Ucraina, deve far riflettere.
Ne abbiamo già parlato su questa rivista (L. B., I cecchini della
libertà, «Il Ponte», aprile 2014) all’inizio della crisi
ucraina innescata dal tentativo di annessione europea che ha
provocato reazioni opposte: il processo si sta sviluppando, e la
risposta all’aggressione europea-americana è stata, oltre
l’indipendenza della Crimea e la sua annessione alla Russia e la
guerra in corso nei territori russofoni dell’Ucraina, il nuovo
rapporto di cooperazione politica ed economica tra Russia e Cina (non
solo gas). I grandi centri internazionali del capitalismo stanno
ridisegnando le proprie aree di dominio e influenza, preparandosi a
conflitti sempre più decisivi.
In questo
quadro geopolitico determinante, la crisi italiana (crisi economica
strutturale e politica) ha un aspetto prevalente: la cooptazione
delle oligarchie “nazionali” della politica e della rendita
finanziaria, storicamente deboli, eterodirette e straccione, la
«borghesia compradora» di cui parlava Mao, in compiti di
distruzione dei diritti e della democrazia “rappresentativa”, di
devastazione dello “Stato sociale”, di militarizzazione della
“società” (anche con le armi della comunicazione). Non ci sarà
crescita economica, aumenteranno la disoccupazione di massa e la
povertà, ma ci saranno gli F35 e il coinvolgimento dell’Italia
nelle imprese imperialistiche dell’area atlantica, nell’Europa
dell’Est e in Africa.
La politica
è oggi ridotta a inerte gestione dell’esistente, con il corredo
inevitabile di ruberie, corruzione (Denaro-Potere-Denaro),
sopraffazione. Ai sudditi delle classi subalterne è riservato uno
pseudo-potere elettorale, guidato ed estorto, anche comprato. Non è
una novità, nella tradizione di questo paese che è stato la culla
del trasformismo, del fascismo e del berlusconismo dilagato anche a
sinistra. Ma oggi questa politica ha un compito urgente: portare a
compimento la dissoluzione della democrazia rappresentativa e dei
suoi strumenti di controllo previsti dalla Costituzione del 1948. Il
disegno di trasformare il Senato in una camera del sottogoverno
locale (altro che autonomie!) rientra in queste urgenze; la legge
elettorale ultramaggioritaria deve garantire mano libera a chi
governa; in economia, bisogna portare a termine (e in fretta, per
ragioni geopolitiche) la precarizzazione del lavoro e la
privatizzazione dei «beni comuni», rafforzando le funzioni di
controllo autoritario dello Stato (per questo il monarca Napolitano,
dopo aver messo in guardia contro l’antimilitarismo della
tradizione socialista, allerta i prefetti e le forze armate di ogni
ordine e grado nella prospettiva della repressione “democratica”
di chi, dal basso, può opporsi).
Della parola
«democrazia» è stato fatto scempio, non solo dagli anni Novanta
(basti pensare a quell’intruglio di populismo e autoritarismo che è
stata la Democrazia cristiana in tutto il suo percorso); oggi si
definiscono «democratici» i fascisti, i clericali, i liberisti. Il
campo semantico della «democrazia» è stato distorto e occupato
dalle oligarchie di ogni genere che ne hanno fatto la propria
maschera, come ci ricordano Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky nel
loro recente colloquio La maschera oligarchica della democrazia
(Bari, Laterza, 2014). Contro queste imposture, bisogna recuperare il
senso di quella parola nel lavoro teorico e nelle esperienze di
azione sociale. Questo compito riguarda tutti i segmenti dispersi
della resistenza sociale alle devastazioni politico-economiche del
liberismo e alle complicità con i disegni geo-strategici del
capitalismo in crisi. E allora torniamo alla riflessione sui
risultati italiani delle elezioni europee. Nella “vittoria” di
Renzi confluiscono gli aspetti peggiori della tradizione politica di
questo paese: il mito fascista del “capo” energico e
decisionista, l’asservimento dei sudditi al capo e ai suoi
gerarchi, il primato dell’orrore economico sulla vita quotidiana di
tutti, la denigrazione violenta di chi si oppone. Esattamente come
Berlusconi, l’egolatra tuttofare di Pontassieve si autopresenta
come l’incarnazione della volontà generale (il Pd comincia ad
autodefinirsi Pnr, partito nazionale di Renzi, all’ombra della
macabra tradizione del Pnf) e si appella al consenso di una pretesa
maggioranza «senza se e senza ma». L’ultima del capo è un
promesso decreto «Sblocca Italia» che garantisce mani libere a chi
ha trovato ostacoli nei “lacci e lacciuoli” della pubblica
amministrazione (e vedremo chi sono quelle povere vittime).
Ma
nonostante le rappresentazioni dei media al servizio delle oligarchie
italiane, il quadro sociale presenta altri caratteri: si sta
estendendo l’area potenziale di un cambiamento radicale,
rivoluzionario e dal basso. Di quest’area fanno parte le nuove
forme precarizzate della classe operaia, il ceto medio dei servizi,
gli schiavi dell’immigrazione. È in quest’area che si stanno
sviluppando embrioni di progettualità alternativa al sistema
politico, al modello di sviluppo capitalistico, alle strategie
imperialistiche: segmenti separati, tematici, e spesso su un terreno
di generica “cittadinanza attiva” (l’onestà è sicuramente un
grande valore in un paese educato alla furbizia e alla corruzione, ma
gli onesti sono comunque prigionieri di un sistema corrotto e
complice delle tante forme di criminalità). Si tratta di
trasformare, attraverso azioni di collegamento e confronto sulle
esperienze, questa debolezza della resistenza sociale in progetto
politico complessivo di attacco puntuale alle oligarchie (nelle
scuole, nelle fabbriche, sulle reti telematiche senza sostituirle mai
alla prassi sociale, in Parlamento) informando, sabotando, aprendo
contraddizioni, nella prospettiva di una “democrazia diretta” da
praticare ed estendere, capace di coniugare dal basso il metodo della
democrazia e le soluzioni di un socialismo (altra parola distorta,
occupata da farabutti e rimossa) consapevole e forte delle esperienze
complesse del ventesimo secolo (il leninismo, lo stalinismo, la
socialdemocrazia, ma anche e soprattutto il luxemburghismo, fino al
socialismo libertario «liberalsocialista» degli anni
Trenta-Quaranta, il «liberalsocialismo» di Capitini che niente ha a
che fare con il preteso liberalsocialismo liberale rivendicato da
Scalfari in una recentissima intervista televisiva).
E l’Europa?
È interessante, e del tutto condivisibile, la conclusione
dell’importante Manifesto per un’Europa egualitaria di
Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitrou (Derive Approdi, 2014):
«L’Europa di oggi è resa fosca da disoccupazione di massa,
condizioni di lavoro precarie e dal progressivo smantellamento dei
diritti democratici. Non è più l’Europa della Resistenza
antifascista degli anni Quaranta. Si tratta dell’esatto contrario
della Federazione europea che avevano in mente il socialismo di
sinistra della Resistenza italiana, della Resistenza francese e di
alcuni gruppi di resistenti tedeschi. Chi sa oggi che antifascisti
berlinesi e del Brandeburgo hanno salvato moltissimi ebrei e creato
un collegamento con le cellula della resistenza dei lavoratori
deportati stranieri, poiché in questi passaggi vedevano la
preparazione a una “Unione europea”? E chi ricorda il programma
federale europeo dei socialisti italiani di sinistra, che dopo la
fine della guerra cadde vittima dei vortici della Guerra fredda e fu
così stravolto attraverso l’imporsi della concorrenza borghese,
diventando materia a buon mercato per la liberalizzazione delle merci
e del mercato capitalistico? Oggi, settant’anni più tardi,
possiamo ancora rifarci a questa eredità. Naturalmente non in senso
letterale. Eppure, i progetti dell’antifascismo europeo sono
congeniali allo spirito e agli scopi di un’associazione per
l’Europa egualitaria: la Federazione dovrebbe portare non solo la
pace nel continente, ma anche diritti umani, democrazia del lavoro,
proprietà comune e benessere. Vorremmo partire da questi progetti e
svilupparli, in assonanza con i tempi attuali. Esortiamo gli
attivisti e le attiviste della resistenza sociale, gli attori e le
attrici dell’economia alternativa, le correnti di sinistra dei
sindacati e dei partiti, così come gli intellettuali impegnati, a
fare fronte comune per elaborare una prospettiva d’azione che apra
la strada a un’Europa socialmente giusta, libera dalla violenza,
federale ed egualitaria».
Non un
«fronte comune» politicistico e «compatibile», per partecipare
più o meno passivamente ai riti e agli imbrogli del dominio
oligarchico, ma un fronte comune di soggettività rivoluzionarie
capaci di agire all’interno e all’esterno del sistema politico:
all’interno per disarticolare le catene di comando, per mettere a
nudo le dinamiche di potere e ostacolarle con scelte di
noncollaborazione assoluta; all’esterno per sperimentare «nuova
socialità» (il termine fu introdotto nel 1944 dal Capitini
sperimentatore dei Centri di orientamento sociale in Umbria) e
costruire reti di contropotere nell’intera area di cambiamento
potenziale. La «democrazia» è la lotta per la democrazia, il
«socialismo» è il percorso politico e teorico di due secoli di
esperienze da rielaborare e sviluppare in un progetto che ridisegni
completamente l’assetto istituzionale di questo paese, sulla base
della Costituzione del 1948, nella prospettiva di uno Stato federale
costruito dal basso, fondato su reali autonomie locali, federato a
sua volta su scala continentale e in relazioni di cooperazione a
livello internazionale. All’interno di questo processo, la
«democrazia diretta», il potere reale dei cittadini, l’«omnicrazia»
(ancora un termine capitiniano: il potere di tutti) sono obiettivi di
orientamento dell’azione sociale sul terreno di un «pubblico» non
statuale nel quale i «beni comuni» sono soprattutto le pratiche di
liberazione, di confronto e cooperazione tra donne e uomini, giovani
e anziani, nativi e migranti, e la costruzione di una realtà capace
di liberare le potenzialità di tutti.
Non c’è
tempo da perdere. Ognuno si faccia «centro», partendo da sé per
interagire con gli altri, per costruire relazioni e reti di «centri»,
collegando menti ed esperienze, in verticale nei territori e in
orizzontale su scala internazionale. La prossima ondata
rivoluzionaria, democratica e socialista, sarà planetaria.
All’occupazione negata dal capitalismo finanziario e dalle
politiche malthusiane opponiamo la piena occupazione nel lavoro
politico di resistenza e di attacco, nei luoghi di lavoro e di non
lavoro, usando i ruoli sociali e le competenze per avvelenare i pozzi
del potere, approfondire la crisi del capitalismo, produrre
soggettività liberate, costruire dal basso progetti di
organizzazione sociale e contemporaneamente aggregare le forze
necessarie a realizzarli. Il lavoro nelle condizioni del capitalismo
è comunque miseria e sfruttamento, costrizione servile. La piena
occupazione dedicata a cambiare la vita (la propria e altrui) e a
cambiare il mondo (di tutti) è liberazione in atto. Con apertura e
rigore, «candidi come volpi e astuti come colombe», raccomandava
Fortini.
Il Ponte, Giugno 2014
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