Giorgio
Bignami, presidente del Forum Droghe, è uno scienziato ottantenne di
grande prestigio per le sue ricerche medico-farmacologiche ed è
probabilmente l'esponente più illustre dell'antiproibizionismo
scientifico e di sinistra. Questo suo scritto, di alcuni anni fa,
sviluppa una sorta di parallelismo tra la legislazione sulla droga e
quella sulla psichiatria. Il risultato mi pare assai valido sia per
la ricostruzione storica, sia per la permanente attualità di alcuni
spunti. (S.L.L.)
La riforma sulla droga
del ’75 e la legge psichiatrica del ’78, uno sguardo in parallelo
trent’anni dopo
Nella seconda metà degli
anni ’70 del secolo scorso, cioè proprio in uno dei periodi più
tormentati della nostra storia recente, vennero approvate le due
leggi – la 685/1975 e la 180/1978 – che avrebbero dovuto porre
fine al regime barbaro cui erano assoggettati i tossicodipendenti e i
malati mentali. Tali leggi erano il risultato di difficili mediazioni
tra parti politiche assai diverse, o addirittura in perenne scontro
tra di loro; quindi, ovviamente, non potevano essere perfette. Da un
lato aprivano spazi, per chi ne avesse la volontà civile e politica,
per azioni positive di notevole rilevanza; dall’altro di fatto non
impedivano il mantenimento dello status quo a tutti coloro –
politici nazionali e locali, amministrativi, tecnici – ai quali per
interessi economici, corporativi, clientelari, ideologici e politici
conveniva di non applicare le nuove norme, ignorandole o
dichiarandole assurde e/o inagibili.
Sugli eventi dei primi
anni successivi al varo delle due leggi è oggi possibile un giudizio
quasi-storico. Stridente infatti appare il contrasto tra le
situazioni nelle quali alcune parti hanno efficacemente utilizzato le
nuove norme per cambiare radicalmente il destino di molti soggetti in
precedenza bistrattati e puniti, e le molte situazioni in cui invece
tutto è rimasto fermo, o i cambiamenti hanno avuto un carattere
gattopardesco. In estrema sintesi, per la 685 si possono ricordare
alcune delle ricadute positive: il modo intelligente in cui parte dei
magistrati hanno applicato il criterio della «modica quantità»; la
determinazione con la quale il ministro socialista Aldo Aniasi varò
nel 1980 i decreti sui farmaci sostitutivi (metadone), incurante dei
furibondi attacchi di varie parti sociali e politiche; la dedizione
con cui molti operatori trasformarono le modalità di assistenza e
cura, in particolare in quei servizi nei quali i decreti Aniasi non
si ridussero alla pura e semplice erogazione di «droga di stato».
In campo psichiatrico, la
180 era stata preceduta da robuste esperienze ampiamente
pubblicizzate, come quella di Gorizia, di Trieste e altre; quindi, in
teoria, essa consentiva minori alibi per la sua mancata applicazione.
Allo stesso tempo, tuttavia, la legge era segnata da alcuni handicap
inevitabili, date le acrobatiche mediazioni di cui era il frutto;
cioè: 1) trattandosi di una sintetica legge-quadro, una volta
cessato il momentaneo accordo tra le parti politiche si apriva un
vuoto durato quasi vent’anni nei provvedimenti applicativi (sino al
primo Progetto-obiettivo degli anni ‘90); 2) la legge aveva un
carattere prevalentemente medico-sanitario, conditio sine qua non per
prevenirne la bocciatura: un carattere che spianava la strada alla
mistificazione buonista ancora oggi prevalente (il matto, poverello,
non è un colpevole da controllare e punire, ma un ammalato da
curare, mutatis mutandis, come un qualsiasi altro ammalato,
consegnandolo per l’addomesticamento a un potere medico da secoli
esperto in materia). In conseguenza la posizione basagliana, che da
un lato pienamente riconosceva la natura di vera e propria malattia
di buona parte delle patologie psichiche, ma dall’altro insisteva
sul fatto che i danni derivavano in massima parte dal modo in cui i
pazienti venivano trattati e spossessati dei loro diritti (per
incidens, questa tesi era sostenuta da ripetute indagini
multicentriche dell’Oms, le quali dimostravano come la cronicità
fosse in larga parte la conseguenza dell’organizzazione
socio-economica delle società più sviluppate, oltre che da
esperienze come quelle di Mosher negli Stati Uniti e di Ciompi in
Svizzera) veniva e tuttora viene strumentalmente interpretata come
una posizione estremista «antipsichiatrica». Tale indirizzo,
secondo gli oppositori, danneggerebbe gravemente sia gli utenti che
gli operatori, svalutando specifiche professionalità come quella
medico-farmacologica e quelle psicoterapiche, promuovendo un
assistenzialismo dequalificante. Quindi, per lungo tempo nelle sedi
di servizio e di formazione ci si è guardati bene dal promuovere e
dall’insegnare la professionalità almeno altrettanto ardua e
«nobile» della comunicazione con i soggetti, della comprensione dei
loro problemi, dell’assiduo sforzarsi nella ricerca di soluzioni
appropriate (per i soldi, la casa, il lavoro, i rapporti sociali, la
lotta allo stigma, la riappropriazione dei diritti): una
professionalità che ovviamente non è in opposizione al corretto
esercizio delle precedenti, in un lavoro di équipe ben integrata.
(Chi ha poco tempo o voglia di leggere sull’argomento, vada almeno
a vedere lo straordinario film «Si può fare» di Giulio
Manfredonia).
Da un certo momento in
poi i percorsi abbastanza simili – nel bene e nel male – della
droga e della psichiatria cominciano a divergere. Smanioso di
mostrarsi servo fedele degli Stati Uniti, forte delle paure
stigmatizzanti abilmente alimentate in modo indiscriminato nei
riguardi degli assuntori «pesanti» e di quelli innocui, Craxi
impone di cancellare le parti più positive della 685 col Testo unico
del 1990, firmato dalla teodem Rosa Russo Jervolino e dal socialista
Giuliano Vassalli. Il resto è sin troppo noto, dal varo della
Fini-Giovanardi al mancato rispetto, nei due anni del successivo
governo di centro-sinistra, degli impegni assunti in campagna
elettorale per la abrogazione di detta legge e per la promozione
delle strategie di riduzione del danno. Per contro i successivi
governi Berlusconi, mentre «fanno la faccia feroce» con i progetti
di controriforma della 180, di fatto non riescono a farli avanzare di
un millimetro; e forse, furbescamente, non hanno neanche l’intenzione
di farli avanzare. Perché una tale differenza?
Forse conta soprattutto
il diverso peso degli interessi nei due campi: da un lato i sempre
più stretti legami tra politica, economia legale ed economia
criminale, concimati dal proibizionismo, dall’altro le scaramucce
di rilevanza assai più modesta per l’appropriazione degli
spiccioli della spesa sociale e sanitaria destinati alla salute
mentale (spiccioli che comunque già ora vanno in buona parte al
privato, in particolare alle innumerevoli mini-strutture
convenzionate di «riabilitazione» – leggi lungodegenza –, per
lo più di basso profilo). O forse pesano le ricadute di storie
diverse, cioè i quasi due decenni di robuste esperienze di
innovazione in campo psichiatrico, prima del varo della 180, a fronte
di azioni meno decise e meno avvertite dall’uomo della strada prima
del varo della 685. O forse dobbiamo considerare soprattutto gli
sbalorditivi «progressi» nelle tecniche di comunicazione, che hanno
fatto sì che il consumo di droga – sia quello minoritario
«pesante» e a rischio, sia quello maggioritario «leggero» e
innocuo – e il disturbo mentale siano ormai visti in modo assai
diverso da una parte crescente dei cittadini: il primo sempre più
demonizzato, anche sfruttando le antiche incrostazioni ideologiche
contro la «ricerca del piacere» fuori dalle regole; il secondo,
decolpevolizzato e addomesticato soprattutto attraverso la
medicalizzazione, ormai relativamente più tollerabile.
In ultima analisi, per
costruire un’azione più incisiva, urgono chiare e documentate
risposte a questi e altri interrogativi. Ciò richiede un impegnativo
lavoro secondo indirizzi assai diversi da quelli oggi prevalenti
nella ricerca, un lavoro che mentre la casa brucia non può esser
delegato ai proverbiali posteri.
Fuoriluogo, 28 dicembre
2008
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