Lo conoscevo da quarantacinque anni o
giù di li, anche se in tutti questi anni per una ragione o per
l'altra ci siamo incontrati poche volte. All'inizio della guerra
stava a Milano insieme a qualche altro giovane ebreo torinese che
aveva trovato lavoro nella grande città — dove per un ebreo era
più facile mimetizzarsi — e spesso essi trascorrevano le serate a
casa mia. Ma io allora ero già in Svizzera e ho un ricordo preciso
dì Primo solo quando venne a trovarci dopo la guerra: il suo
fortunoso ritorno da Auschwitz, raccontato nella Tregua.
Parlava molto, senza fretta e scegliendo le parole, come un reduce da
un altro pianeta che deve riprendere i contatti con i terrestri e sa
che non lo capiranno ma che il suo posto è tra di loro perché è di
là che viene ed è la speranza li ritornare là che l'ha tenuto in
vita in quei luoghi infernali. Anche di recente nei colloqui con
Philip Roth, Primo aveva insistito su questa speranza di chi ha casa,
famiglia amici che lo aspettano, di fronte alla situazione di tanti
ebrei il cui mondo era stato interamente distrutto. E nella
meraviglia degli ebrei polacchi di Se non ora, quando? alla.
vista di questa borghesia ebraica italiana rimasta largamente intatta
e omogenea all'ambiente, c'è la coscienza di questo privilegio. E'
esso che rese possibile a Primo di raccontare quasi subito,
recuperando il linguaggio che gli avevano così bene inculcato a
scuola e che nessuna Babele linguistica
aveva potuto intaccare.
Meno riuscita mi pareva la ripresa di
contatto con quel corpo che aveva perso quasi del tutto. Era come uno
zombie reincarnatosi di colpo, o come un dannato dantesco che il
giorno del giudizio ritrova il proprio corpo e lo indossa al modo di
un vestito dismesso da tempo e che gli sta troppo largo. Mi sembrava
che delle tracce di questa difficoltà fossero rimaste dopo tanti
anni. La caricatura di Pericoli in cui lo si vede di tre quarti con
la mano di ragno assomiglia (come dev'essere forse ogni buona
caricatura) più all'essenza che alla realtà di Levi, o al Levi di
prima di Auschwitz.
Auschwitz lo trasformò da chimico in
scrittore, prima occasionale, poi professionale, infine in uno
scrittore di successo la cui fama aveva invaso l'America. Era rimasto
quello di sempre, proteso a chiarire e spiegare se stesso e il mondo
con l'indefettibile razionalismo che appare nel volto arguto e nel
gesto della mano nella caricatura di Pericoli. Uno dei suoi ultimi
scritti fu un bellissimo trafiletto della Stampa a proposito della
polemica suscitata dagli storici tedeschi di destra che contestavano
l'unicità del massacro nazista degli ebrei. Egli ribadiva questa
unicità fermamente e serenamente, con ottimi argomenti, ma si
sentiva la stanchezza che deve continuare ad accennare con la mano al
gesto che dice: «Ma come fai a non capire?». Egli ricordava, con la
terminologia scientifica che era sua, che solo i tedeschi avevano
escogitato un campo come Treblinka che era un «buco nero», un luogo
dove si andava soltanto per scomparire. Per fortuna non era stato a
Treblinka ma a Auschwitz, era miracolosamente sopravvissuto e aveva
raccontato. La sua ragione aveva trionfato su Auschwitz ed è
estremamente improbabile che sia stato questo ricordo incancellabile
a ucciderlo, com'è successo nel caso di Paul Celan o di altri.
Non diamo la colpa a Auschwitz, questa
volta. Non c'è bisogno dei campi di annientamento nazisti per
mettere a dura prova la saldezza della ragione. I mostri si annidano
anche nelle forme più quotidiane e apparentemente innocenti
dell'esistenza, per esempio nello stress cui è sottoposto oggi lo
scrittore di successo, e quando meno ce lo si aspetta si spalanca qui
un buco nero che può risucchiare perfino chi ha soggiornato tredici
mesi nel buio dell'inferno.
“il manifesto”, 12 aprile 1987
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