La mappa "ecumenica" di Claudio Tolomeo (II sec. a.C.) |
«In questo libro si fa
qualche luce su un problema generale di grande rilievo risolvendone
uno molto particolare». Così inizia un notevolissimo saggio di
Lucio Russo, L'America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e
un errore di Tolomeo. Il problema generale riguarda la storia
delle civiltà: le culture si sono evolute separatamente, per via di
un determinismo biologico e di leggi universali, oppure si sono
sviluppate per via di interferenze di cui si sono perse le tracce?
Gli oceani che separano i continenti parrebbero dimostrare che le
diverse civiltà hanno seguito percorsi indipendenti. Ma la tesi
reggerebbe ancora se scoprissimo, come confermano numerosi indizi,
che alle coste dell'America approdarono le navi di Fenici e
Cartaginesi?
Claudio Tolomeo, autore
nel II secolo d.C. di un trattato di geografia, ci consegnò una
mappa deformata e rimpicciolita dell'ecumene, cioè del mondo
ritenuto abitabile. Era la terra che si estendeva a Nord fino a Tule,
all'intersezione della Groenlandia col Circolo polare artico (già
raggiunti nel IV secolo a.C.), e si allargava in longitudine tra le
"Isole Fortunate" e la capitale della Cina. Assumendo una
lunghezza di soli 500 stadi per grado di meridiano, invece dei 700 di
Eratostene, Tolomeo finiva per spostare Tule a Est dell'Irlanda e
avvicinare le Isole Fortunate alla costa africana fino a confonderle
con le Canarie. A queste isole assegnava pure latitudini sbagliate,
con errori che equivalevano a collocare Napoli in Svezia. Anche alle
luci di altre fonti, sarebbe allora evidente per Russo che le Isole
Fortunate identificate da Tolomeo erano piuttosto le Piccole Antille,
verosimilmente già conosciute in epoche remote.
Il rimpicciolimento
dell'ecumene di Tolomeo diventa così una grandiosa immagine
del decadimento scientifico e del brusco tracollo culturale del mondo
antico tout-court provocato dalle conquiste romane nel biennio
146-145 a.C.. Proprio a quei due anni fatali risalgono infatti la
distruzione di Cartagine e di Corinto di cui riferisce in modo
drammatico Polibio e quindi lo smantellamento di intere biblioteche
ridotte a prede di guerra. Paradossalmente, sarebbe stato l'Impero
romano a restringere l'ecumene nei confini di un imponente sistema
militare, politico-amministrativo e giuridico. Abituati a vedere in
quell'Impero il simbolo di una vasta civiltà, dimentichiamo che già
nel V millennio a.C. il mondo era solcato da linee di transito tali
da consentire viaggi a lunga distanza e interferenze tra culture
diverse. Le comunicazioni tra Mesopotamia e valle dell'Indo sono
documentate da antichi testi sumerici e già da tempo le affinità
tra le matematiche greche, indiane e cinesi hanno autorizzato
l'ipotesi di una loro origine comune.
Ma il libro di Russo non
è solo lo scoop di una scoperta dell'America antecedente a Colombo.
Gli errori di Tolomeo si spiegherebbero, anche in base a un trattato
precedente di Russo, La rivoluzione dimenticata, con l'oblio
della geografia matematica di Eratostene e Ipparco e della scienza
ellenistica del III-II secolo a.C., quando vissero pure Euclide,
Apollonio e Archimede. Sarà stato forse l'attento confronto di
scienziati di quella grandezza con autori post-ellenistici di
mediocre genio scientifico a suggerire a Russo un'ardita definizione
di scienza mutuata sul modello di quella ellenistica: un sapere
teorico rigorosamente deduttivo, applicabile a problemi concreti
grazie a precise "regole di corrispondenza" tra teoria e
mondo reale. Di per sé si tratta di una definizione problematica,
anche se chiarisce quale scienza andò smarrita. Per Russo la scienza
nacque una sola volta: con l'Ellenismo; ma certe idee nacquero prima
dell'Ellenismo e la "rivoluzione" ellenistica "dimenticata"
se ne è a tratti dimenticata a sua volta. So che Russo potrebbe
eccepire, ma tra i suoi meriti c'è anche quello di accendere la
passione del dibattito. Proprio il suo stile erudito, a volte
ruvidamente polemico, serve a recuperare il valore inestimabile delle
lingue antiche e del sapere trasmessoci da quelle fonti. Certo, se ci
si attiene alle fonti, le navi che solcano il mare non incontrano
sempre un destino benevolo. L'esplorazione di Tule, come il mitico
viaggio di Giasone alla conquista del vello d'oro, assumono nei poeti
tragici un senso ambivalente, in cui prevale se mai il pessimismo e
il tono apocalittico. Il Coro della Medea di Seneca profetizza
che «Giorno verrà, alla fine dei tempi, che l'Oceano scioglierà le
catene del mondo, si aprirà la terra, Teti svelerà nuovi mondi e
non ci sarà più un'ultima Tule». Ma la conquista dei "nuovi
mondi" (un presagio delle scoperte di Colombo) si accompagna a
colpe e vendette che evocano le potenze infernali e risvegliano le
fiamme del drago della Colchide. Il mare infido e infinito già
narrato da Euripide ritorna così nei versi di Seneca, in cui "il
prezzo del viaggio" degli Argonauti è Medea, un "male
maggiore del mare", il rischio incombente per chiunque osi
affidarsi a «un legno sottile, confine troppo gracile tra le vie
della vita e della morte».
“la Repubblica”, 19
agosto 2013
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