Simone Weil |
Morì a 34 anni nel letto
di un ospedale di Londra. Era il 1943. Simone Weil concluse il breve
tragitto terreno non immaginando che il suo pensiero sarebbe
diventato straordinariamente fecondo tra coloro che ebbero in odio
dottrine sicure e ideologie trionfanti. Abbracciò con pari
entusiasmo il pensiero religioso e quello scientifico. Ma di entrambi
privilegiò l'aspetto meno ortodosso. Oggi ci si interroga se fu una
mistica. Non c'è dubbio che su quella strada trovò spesso le
ragioni del suo pensare e agire. Nel nome di una purezza assoluta
scandagliò le passioni umane e le grandi storie. L'antica Grecia e i
suoi protagonisti e l'altra, riferita al Cristianesimo. Ci fu davvero
continuità tra i due eventi, come la Weil provò a raccontarci nei
saggi raccolti nel libro La rivelazione greca (Adelphi)? Per
discuterne abbiamo invitato il matematico Paolo Zellini e lo storico
delle religioni e, in particolare, del pensiero mistico Marco
Vannini.
In che senso si può
parlare di un pensiero mistico della Weil?
VANNINI: Farei una
premessa. L'attenzione della Weil per il mondo greco nasce dalla
lettura dei poemi, delle tragedie e da alcune opere filosofiche. Con
questa idea di fondo: qualunque cosa l'uomo faccia nel nome della
verità rivela la potenza divina. È un segno di Dio.
Anche se il mondo
greco è pagano?
VANNINI: Certamente. Del
resto, un grande mistico contemporaneo di Dante, Meister Eckhart,
disse che i maestri pagani conobbero la verità prima della
rivelazione cristiana. Non c'era ai suoi occhi una rottura sul senso
della verità. I due mondi si parlavano. La Weil non farà altro che
riprendere quella straordinaria intuizione fino ad estenderla alla
scienza greca.
Quando si dice
"scienza greca" cosa dobbiamo intendere?
ZELLINI: Per la Weil è
la scienza vera e propria. Tutto quello che successivamente accadrà
nel pensiero scientifico fu una continuità o un tradimento di quel
nucleo originario.
In cosa consiste
questo nucleo?
ZELLINI: I greci
stabilirono dei criteri e crearono delle teorie che permisero la
nascita di una episteme, cioè di un modo peculiare di pensare
che non aveva precedenti. La grande innovazione greca fu di cogliere
nella varietà dei fenomeni - nel mutamento delle cose ma altresì
nel mutamento dell'anima - delle invarianti. Scoprire, ad esempio,
che la stella del mattino è uguale a quella della sera, perché è
sempre Venere, consentì ai greci di darsi, pur nel mutamento, dei
punti fermi.
VANNINI: La scienza greca
in un certo senso stabilizzò il mondo dei fenomeni.
ZELLINI: Permise che quel
mondo potesse essere conosciuto. Non a caso furono i greci a mettere
a punto il concetto di dimostrazione, di cui la geometria di Euclide
fu la più classica delle realizzazioni. D'altronde, sono stati
sempre i greci, attraverso l'analisi e la sintesi, a inventare un
nuovo modo di ragionare. E quel ragionamento per analisi e sintesi,
via via che si procedeva, si estese ad altri ambiti che non erano
solo quelli della scienza o, più in particolare, della matematica.
Fu a questa estensione che la Weil guardò con interesse. Quando
prese concetti come forza, equilibrio, misura, numero, rapporto e
simmetria, lo fece consapevole di trasferirli nell'ambito ristretto
della matematica a quello più generale del mondo dello spirito.
La scienza greca,
diversamente dalla scienza moderna, era per la Weil un modo originale
per accostarsi alla religione?
VANNINI: Più che un modo
dia ccostarsi, un modo di essere religione. Fu la sua grande
intuizione, discutibile quanto si vuole, ma certamente in grado di
aprire a una lettura originalissima del mondo greco. Da questo punto
di vista, è chiara la lontananza della Weil dalla scienza moderna
che vide soggetta alla categoria dell'utile ed esposta allo
scientismo. Ai suoi occhi la scienza doveva avere per oggetto la
verità.
Anche le scienze
moderne hanno come oggetto la verità.
VANNINI: Certo, ma non
era a quel tipo di verità che la Weil faceva riferimento. Non era
alle verità sperimentali che lei pensava. Piuttosto si riferiva a
quella verità che l'uomo razionale cerca e non trova nella semplice
correttezza o accordo con i fatti, bensì gli si impone attraverso la
rivelazione. È ciò che i greci chiamavano aletheia, un
concetto che apre a un modo di pensare religioso.
Zellini: Per Simone Weil,
e su questo è molto esplicita, fu la religione a innescare in
qualche modo i problemi della scienza e, in particolare della
matematica. Le figure della geometria, i numeri, secondo lei, erano
immagini divine. E di una intensità tale che richiedevano, per forza
di cose, un'esattezza del pensiero. Di qui la necessità della
dimostrazione rigorosa.
Non può apparire
sconcertante questo accostamento?
ZELLINI: Non più di
tanto. Perché gli storici della matematica hanno recentemente
mostrato come effettivamente non solo in Grecia, ma anche in altre
civiltà, possa essere stata proprio la religione a introdurre dei
problemi matematici. Ad esempio, in India, la costruzione di certi
altari per i rituali religiosi richiedeva competenze matematiche
notevoli.
Tornerei alla
questione religiosa e alla relazione che la Weil stabilì tra mondo
greco e cristianesimo. Si può far partire questa relazione dal
saggio bellissimo, compreso in questo libro, che lei dedica
all'Iliade come poema della forza?
VANNINI: Porrei la
questione in questi termini: la Weil vide nei Vangeli l'espressione
estrema di quello spirito greco che nell'Iliade aveva già una
sua compiutezza. Il testo omerico va interpretato a partire dalla
forza, cioè dalla sottomissione dell'uomo alla necessità. È la
comprensione della forza che apre alla "regina delle virtù",
ovvero all'umiltà.
Insomma la forza non è
solo quella che si esercita ma anche quella che si subisce?
VANNINI: Meglio: che si
accetta. Già nei Sermoni di Meister Eckhart troviamo
declinata l'umiltà non come espressione di generica virtù o di
devozione, ma come sapere. L'umiltà è allora il sapere che noi
siamo quasi in tutto e per tutto soggetti alla necessità - o a ciò
che oggi chiamiamo determinismo - cioè al fatto che le
circostanze, l'educazione, la disciplina, in una parola l'imperio
della forza, ci dominano.
Ma questa assunzione
della forza in che modo si traduce nel messaggio evangelico?
VANNINI: La Weil ci dice
che nessun poema ha saputo, come l'Iliade, mettere sullo
stesso piano nemici e amici. La stessa comprensione, lo stesso
dolore, la stessa trascendenza si rivolgono tanto alla morte dell'uno
quanto alla morte dell'altro. E questo senso di eguaglianza, starei
per dire di compassione, lo si ritroverà pienamente nei Vangeli.
ZELLINI: È giusto il
richiamo di Vannini all'idea di equità presente nell'Iliade.
Equo ci dice la Weil è Ares, il dio della guerra, che uccide coloro
che uccidono. Quindi l'Iliade non è solo il poema della forza ma
anche della debolezza e del rapporto che si stabilisce tra il forte e
il debole. Perché quando la forza è senza limiti, quando è
esercitata in tutta la sua hybris, diviene problematica. Colui
che esercita la forza senza limiti perde il pensiero e smarrisce
anche il senso di giustizia ed espone se stesso a una condizione
psichicamente caotica.
La forza gli si
ritorce contro?
ZELLINI: Egli stesso
finisce col diventare vittima della forza degli altri. Il gioco della
guerra, nota Simone Weil, è pendolare. È un'oscillazione dove il
forte non vince mai in maniera definitiva. Il simbolo di questa
oscillazione è la bilancia. E viene in mente la bilancia d'oro di
Zeus che pesa le sorti dei contendenti. Ma anche il numero si può
definire come una bilancia, ci ricorda la Weil. Per calcolarne le
cifre si usava, nel mondo arabo, una "regola dei piatti della
bilancia". E quando, in ambito cristiano, incontriamo un
Clemente Alessandrino che dice che Dio è bilancia, misura e numero
di tutti noi, è alla Grecia che occorre risalire per spiegare
l'origine di questa immagine.
VANNINI: Nel mondo
medievale anche la croce è vista come una bilancia.
Quello che l'Iliade
rappresenta sul piano della narrazione epica, Platone lo
rappresenterà sul piano filosofico. È convincente la lettura che la
Weil fa dei Vangeli come
diretta emanazione del pensiero platonico?
VANNINI: A mio parere è
una lettura persuasiva. La Weil interpreta la Repubblica, in
particolare il "Mito della caverna", e altri testi come il
Convito, con la necessità che per accedere al bene e alla
verità l'uomo abbia una conversione. Il "prigioniero"
della caverna deve girarsi e volgersi indietro e per far questo deve
essere liberato dalle catene, non si libera da solo. Per la Weil la
natura umana è corrotta, cieca. I prigionieri vedono solo ombre.
Solo la conversione, cioè la grazia, può portarli alla luce. Ecco
dove l'idea platonica si salda con il messaggio cristiano.
In che misura la
mistica, con cui la Weil interpretò Platone e predilesse una certa
via del cristianesimo, diventò esperienza personale?
VANNINI: Tutta la
filosofia della Weil porta con sé un problema di conversione e di
testimonianza. Ed è una filosofia segnata profondamente dal
misticismo perché il suo pensiero è esercitato con tutta l'anima,
con tutta se stessa, mettendo in discussione la sua vita. Fu una
donna che provenendo dall'École Normale decise, per scelta, di fare
l'operaia alla Renault, di partecipare alla Guerra di Spagna, di
entrare nella Resistenza e finì con l'ammalarsi gravemente. È
abbastanza raro imbattersi, con quella coerenza, in una vita rivolta
alla verità.
ZELLINI: C'è da dire che
la Weil non ebbe mai uno spiccato temperamento pratico e non riuscì
poi a fare tutto quello che avrebbe voluto. Non riuscì, più di
tanto, a lavorare nelle fabbriche.
Cosa ritrovava nel
lavoro di fabbrica?
ZELLINI: A parte i temi
dello sfruttamento credo che la cosa che la interessasse era ancora
una volta il rapporto con la scienza. Addirittura arrivò a dire che
la geometria nasce dal coraggio dell'operaio, perché è il lavoro
manuale che ci mette a contatto con lo spazio e col tempo. Più tardi
cambiò idea. E proiettò la scienza nel contesto religioso. Ci si
potrebbe a questo punto chiedere se la verità matematica è la
stessa verità religiosa o sono due cose diverse. E la risposta non
sarebbe facile. Certamente no, in senso assoluto. Perché Dio non è
fatto di cerchi o triangoli. D'altro canto certe forme geometriche
sono in qualche modo immagini divine.
VANNINI: Si potrebbe
attribuire alla Weil una specie di galileismo per cui la matematica è
il linguaggio privilegiato di Dio.
ZELLINI: Sì, ma per lei
la rivoluzionaria legge di inerzia di Galileo era già un tradimento:
se un mondo dove c'è un corpo che conserva indefinitamente la sua
velocità e la sua direzione era equivalente a un mondo in stato di
quiete, veniva a cadere la stessa nozione di equilibrio.
“la Repubblica”, 22
marzo 2014
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