A Eduardo Scarpetta Pulcinella non piaceva. Anzi, lo dice chiaro, con un pizzico di civetteria, incominciando a raccontare la storia sua nel teatro napoletano: quella maschera mezza bianca e mezza nera, a lui bambino incuteva terrore. Poi, crescendo di età in educazione piccolo-borghese, ne seppe la ragione, e trovò che quella maschera nascondeva «un personaggio volgarmente plebeo e grossolano». Fu in un certo senso una guerra, così come le descrive Bragaglia, con un labile senso della cronologia: «...così avvenne che un giorno, seccato dalla campagna denigratoria condotta contro la maschera dal suo trionfante allievo Eduardo Scarpetta, egli (Petito) la gettò via definitivamente per recitare a viso scoperto nella figura di Pascariello. A sua volta Scarpetta si chiuse nel vestito a quadretti e nel tubino d'uno Sciosciammocca tipo fisso e restò più Maschera dello stesso Pulcinella».
Ora, in queste memorie di Scarpetta assai opportunamente ristampate (Eduardo Scarpetta, Cinquantanni di palcoscenico, Savelli, pagg. 417, lire 25.000) c'è di questa disputa soltanto una pallida filigrana da leggere in trasparenza. Ma c'è moltissimo di quella Napoli così letterariamente descritta da Salvatore Di Giacomo nella Cronaca del Teatro San Carlino. Di quella Cronaca, le memorie di Scarpetta appaiono come un ultimo capitolo, pur se non hanno analoga dignità letteraria, benché non sia detto del tutto: che la descrizione di Napoli e dei suoi teatri sotto il colera è qualcosa di più di un quadretto dolorosamente vivo.
Certo, alla fine io non so se Scarpetta abbia realmente, come era intenzione sua, rinnovato il teatro vernacolo napoletano. Leggendo le commedie intuisco qualcosa, ma i saggi non mi aiutano. Né le accurate pagine di Vittorio Viviani, né il bello scritto di Vanda Monaco me l'han fatto capire di più. Mi ricordano un illustrissimo storico dell'arte romano, che dedicò un libro a un pittore non propriamente in odore di genialità rinnovatrice. Rimproveratone da un suo allievo, rispose senza ira: «Lo hai letto?». «Sì». «Ebbene, ti sfido a dirmi se ne dico bene o male».
E chi sa che cosa pensava realmente Benedetto Croce in quelle striminzite paginette di prefazione alle Memorie che condensano in una cartella o due la storia dei teatri a Napoli, ma non vanno oltre. Direi che a Di Giacomo Scarpetta non fosse simpatico, e lo fa capire: «San Carlino è stato atterrato, mentre ancora le sue mura trattenevano l'eco dell'ultima risata, e la gente napoletana affidata alle promesse dell'ultimo capocomico del teatrino, sognava già un prossimo e novello godimento della casa nuova, dove, rifatto dalle noie dello sgombero, Don Felice Sciosciammocca avrebbe trasportato la commedia napoletana. Per fortuna questo non è accaduto: Sciosciammocca ha dovuto lasciare il passo a una arte più decorosa, più sana, più nostrana, più vera della sua, anzi proprio sana e vera e originale come la sua non fu mai».
«Originale», badate alla parola maliziosa. In realtà sia Croce sia Di Giacomo dovettero battersi per memorie in Tribunale, in campi avversi, pro e contro Scarpetta, proprio sulla questione della «originalità». Fu D'Annunzio che querelò Scarpetta per plagio, perché aveva messo in scena una dichiarata parodia insidiosa: II figlio di Iorio. E Croce e Di Giacomo furono chiamati a esprimere il parere in dotti assalti di perizie. Certo, Scarpetta non perdonò mai a Di Giacomo questo tradimento, così come non perdonò a Federigo Verdinois, illustrissimo critico e poligrafo e traduttore perfin dal russo (che non sapeva), di volerlo spingere a rinnovare il teatro napoletano «rinsanguandolo di nuovi argomenti e caratteri, coll'accostarlo ai tempi nuovi e alle cose mutate».
Non lo poteva fare, Scarpetta. Io avrebbe fatto, di lì a poco, tumultuosamente, Raffaele Viviani. Lo avrebbe fatto, subito dopo, Eduardo. Ma Scarpetta stava troppo avidamente vivendo e spiando l'agonia del Pulcinella tradizionale, per potersene discostare come un figlio rivoluzionario. Stava troppo con l'occhio alla tecnica e alla struttura delle pochades francesi, per potersi permettere molto di più che felicissime traduzioni. Il mutar personaggio alla farsa di Altavilla, e adesso è Sciosciammocca e non più Pulcinella «che va truvannos'a fortuna soia pe' Napule» (1882) indica nettamente quale sia stato l'atteggiamento psicologico di Scarpetta: quella maschera plebea, che a un tempo egli temeva ed amava, che gli incuteva orrore, forse, per la sua trivialità, e adorazione per la cupa giocondità che faceva trapelare da una Napoli perennemente sconfitta, Scarpetta la gettava tra la nuova borghesia trionfante, travestita e vestita da piccolo borghese.
Pulcinella ha trovato lavoro, fa lo scarparo, ha gettato il largo vestito bianco non so a quali ortiche, ha l'abito a quadrucci, cova sempre l'ansia di un piatto di pastasciutta che manca; ma la sua miseria invidia la nobiltà. Non è un mutamento nell'atteggiamento del teatrante, è la forza ricattatoria di una borghesia napoletana sulla fine dell'Ottocento, che è sicura di posseder lei la chiave del fermento rinnovatore, che conosce perfettamente le miserie di una città atroce, ma vuole in qualche modo esorcizzarle. E per farlo ha bisogno di mettere sul rogo Pulcinella, il popolano che opportunamente moriva sul palcoscenico, Petito come Molière, in quella serata in cui tutti piansero. E Scarpetta scrisse un gruppo di sestine «commosse»: Duorme, duorme quieto, che tu l'arte / l'aie fatta bella e tale l'aie lassata; / Duorme, duorme quieto, e non scetarte / che truvarisse l'arte assai cagnata.
“la Repubblica”, marzo 1982
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