Una ghiotta, bellissima
pagina di memorie alimentari. Riesce a farci immaginare ciò mai
abbiamo assaggiato e forse mai potremo assaggiare. E dà la stura a
qualche nostro ricordo, a una giornata atlantica a Cancale, per
esempio. (S.L.L.)
Microcosmus sulcatus, detto anche tartufo di mare e, a Rimini, spònza |
Immagino che l’infanzia
di chi è nato prima del 1950 profumi retrospettivamente – relegati
in un angolo della memoria la pasta in brodo e il minestrone – di
burro e marmellata, di mele cotte e caldarroste, di frittelle e
biscotti appena sfornati. Le mie madeleines promanano invece
un odore acre di jodio e acido fenico. Era il 1945. Avevo quattro
anni. La mia famiglia era appena rientrata a Rimini dal paese
dell’entroterra dove si era rifugiata durante il passaggio del
fronte. Mio padre, motorista sulle barche da pesca, non aveva ripreso
il suo lavoro: il mare era infestato di mine e più di
un’imbarcazione, tra le poche che temerariamente lasciavano il
porto, non vi aveva fatto ritorno. Per guadagnarsi da vivere,
lavorava come guardiano notturno in un deposito dell’esercito
inglese. Al mattino mi portava, togliendosela di bocca, buona parte
della sua colazione, che era poi quella dei soldati di Sua Maestà
britannica: tè con uno schizzo di latte condensato, pane bianco, a
volte una tavoletta di cioccolato. Mi vergogno a dirlo, ma quella
manna dal cielo, che avrebbe fatto la felicità di qualunque bambino,
mi lasciava indifferente.
Afflitto da fiera
inappetenza, a un soffio dall’anoressia, ero di una gracilità
allarmante. Un paio d’anni dopo mia madre si incaponirà a
combatterla con due rimedi peggiori del male: l’ovetto fornito dal
pollaio domestico e l’olio di fegato di merluzzo del farmacista.
Questo propinato spietatamente al risveglio; quello servito, ancora
caldo, a metà mattina.
Il deposito inglese era
vicino al porto. Mio padre smontava di servizio all’ora in cui le
barche dei più coraggiosi rientravano, e un po’ per nostalgia e un
po’ per tornaconto, andava spesso a salutare i suoi vecchi
compagni, che gli regalavano una parte del pesce invendibile:
esemplari straziati dalle reti, rarità ittiche, minutaglia. Non era
pesce di scarto. Al contrario. Era quello che, sconosciuto ai
profani, era considerato una leccornia dagli intenditori, e che i
pescatori riservavano a se stessi. Ricordo, per esempio, un piccolo
storione (in dialetto riminese purzlètta): brutto, delicato,
burroso e
solitario. Ricordo un
trèmul, ossia una torpedine, il cui fegato vale per i
pescatori quanto il foie gras per gli allevatori di oche.
Una mattina mio padre
tornò a casa con una sporta di ostriche. Ne aprì una e me l’offrì,
già convinto che l’avrei rifiutata. Ne divorai, con suo sommo
stupore, una rituale dozzina. Da quel giorno, e finché mio padre
lavorò al deposito, le ostriche sostituirono a colazione il latte,
il tè e il cioccolato. Le ostriche, come ben si sa, suscitano al
primo assaggio o un entusiasmo incondizionato o un’invincibile
repulsione. Le si amerà per la vita o le si detesterà per sempre.
Non ci sono vie di mezzo. Il loro colore, la loro consistenza, il
sapore sapido e amarognolo che è un mezzo abuso correggere con succo
di limone, l’odore pungente di jodio scatenano una sarabanda di
sensazioni di cui bearsi o da cui ritrarsi inorriditi. Perché accada
l’una o l’altra cosa è un mistero degno delle profondità
marine. Io ne divenni subito un proselito.
C’è però un mollusco
che inebria o respinge cento volte più delle ostriche. Il suo nome
scientifico è Microcosmus sulcatus; in lingua italiana è
detto uovo di mare o tartufo di mare; i pescatori riminesi lo
chiamavano spònza, perché all’aspetto ricorda una spugna,
o piuttosto un grosso ciottolo di pietra pomice. Anche alla spònza
fui iniziato da mio padre in quegli anni remoti. Il guscio, scabro,
grigiastro e di consistenza gommosa, va tagliato in due. Si scopre
allora una cavità cilindrica giallo vivo striato di rosso in cui
palpita una creatura informe e primordiale. Ci investono le narici,
intanto, violente zaffate di salmastro, jodio e acido fenico. Se non
la si getta subito nella pattumiera, in preda al voltastomaco, e la
si assaggia, e piace, allora la spònza ci ha conquistati e starei
per dire stregati. Il suo gusto e il suo afrore sono quelli degli
abissi. Dell’oscuro, segreto, intimo, femminile ventre del mare. Ne
parlo con esacerbata e immedicabile nostalgia, perché la spònza
deve essersi estinta. L’ultima volta che l’ho assaporata risale a
più di trent’anni fa.
L’Adriatico è stato
spiantato anche di un’altra creatura. Già rara nell’immediato
dopoguerra, a metà degli anni Cinquanta non ce n’era più traccia.
Di lei oggi si è perso anche il ricordo. Si tratta dell’anfiosso
(Branchiostoma lanceolatum), dai pescatori riminesi chiamato
confidenzialmente murósa. È una sorta di maccherone
trasparente e gelatinoso, lungo quattro o cinque centimetri, che vive
nei fondali sabbiosi o ghiaiosi. Di tanto in tanto si concede una
nuotatina, ma si stanca subito e torna a adagiarsi pigramente sul
fondo. Considerato l’anello di congiunzione fra gli Invertebrati e
i Vertebrati, ai quali appartiene per il rotto della cuffia,
l’anfiosso – a detta dello zoologo Drach – è “l’animale
che meglio si conosca dopo l’uomo”: affermazione che non lascia
dubbi su quanto poco si sappia dell’uomo.
Le cappe o noci di mare (Cardium edule), che mostravano maliziosamente la lingua scarlatta e appuntita, non le si pescava. Tanto meno le si commerciava. Le si raccoglieva sulla battigia dopo una violenta mareggiata, in mattine d’inverno d’una limpidezza adamantina, disputandosele con i gabbiani. Purgate dalla sabbia, erano ottime in graticola, con olio e pepe, o per farne un ragù. Va da sé che apprezzavo non solo i molluschi in via d’estinzione. Li amavo tutti con pari trasporto, rari e comuni, crudi e cotti: le peverazze, le cozze, le telline, i cannolicchi (tra cui i giallastri canèll pivaròun, dal colorito itterico e dal gusto piccante), le cappesante, i “canestrini”, i già introvabili datteri di mare, le insignificanti patelle e perfino la disprezzata pisòta (gratificata, non a caso, dell’epiteto scientifico di Mactra stultorum), che posavo stolidamente sulla piastra della cucina economica e stolidamente aspettavo che, gemendo e sfrigolando, dissuggellasse le valve. E se il prezzo da pagare per questa e varie altre stoltezze era un’epatite A asintomatica (come ho scoperto da recenti analisi di aver avuto temporibus illis), bene, ne valeva la pena. Ho il fegato leggermente più grosso della norma e la bocca piena di ricordi.
Le cappe o noci di mare (Cardium edule), che mostravano maliziosamente la lingua scarlatta e appuntita, non le si pescava. Tanto meno le si commerciava. Le si raccoglieva sulla battigia dopo una violenta mareggiata, in mattine d’inverno d’una limpidezza adamantina, disputandosele con i gabbiani. Purgate dalla sabbia, erano ottime in graticola, con olio e pepe, o per farne un ragù. Va da sé che apprezzavo non solo i molluschi in via d’estinzione. Li amavo tutti con pari trasporto, rari e comuni, crudi e cotti: le peverazze, le cozze, le telline, i cannolicchi (tra cui i giallastri canèll pivaròun, dal colorito itterico e dal gusto piccante), le cappesante, i “canestrini”, i già introvabili datteri di mare, le insignificanti patelle e perfino la disprezzata pisòta (gratificata, non a caso, dell’epiteto scientifico di Mactra stultorum), che posavo stolidamente sulla piastra della cucina economica e stolidamente aspettavo che, gemendo e sfrigolando, dissuggellasse le valve. E se il prezzo da pagare per questa e varie altre stoltezze era un’epatite A asintomatica (come ho scoperto da recenti analisi di aver avuto temporibus illis), bene, ne valeva la pena. Ho il fegato leggermente più grosso della norma e la bocca piena di ricordi.
da Scritto e mangiato, supplemento alimentazione de "il manifesto", febbraio 2004
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