Il pezzo che segue, autore Roberto Monicchia, è
stato pubblicato nella rubrica “La battaglia delle idee”. Mi pare che rappresenti un eccellente contributo alla critica tanto del trasformismo politico quanto delle confusioni e contorsioni
storico-ideologiche che ad esso si connettono. (S.L.L.)
Non si può dire che il
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia lesinato
l’impegno di rappresentante dell’unità nazionale. Anzi, giunto
al secondo anno del suo secondo mandato - il nono complessivo –
pare interpretare il ruolo in maniera creativa, con una forte
impronta personale. Da quando si è insediato il governo Renzi e le
riforme istituzionali si sono in qualche modo impostate, il ruolo
politico “emergenziale” svolto da Napolitano a partire dalla
caduta di Berlusconi nel novembre 2011 appare meno necessario.
Certamente il Presidente vigila ancora su un percorso tutt’altro
che scontato, né del resto sembrano imminenti le dimissioni che
avrebbero sancito il suo completamento, ma tutto sommato pare che il
Quirinale si possa dedicare a questioni almeno apparentemente di
minore stretta attualità. Lo si è potuto notare nell’estrema cura
con cui si sono organizzate le manifestazioni ufficiali per il 25
aprile e per il 2 giugno.
Nonostante la ritualità
delle occasioni, Napolitano è riuscito a dare in entrambi i casi una
forte impronta personale. In tutti e due i momenti il tema centrale è
stata l’orgogliosa rivendicazione dell’importanza dell’esercito
e della difesa armata. Il 25 aprile il Presidente è partito dalla
constatazione che la Resistenza “fu una mobilitazione armata”
perché “non c’era spazio per un’aspirazione inerme alla pace;
l’alternativa era tra un’equivoca passività e una scelta
combattente”. Da questa ineccepibile tesi Napolitano trae
conseguenze sui doveri di oggi: “Non possiamo sottovalutare la
necessità di essere in grado di dare un concreto apporto, dove sia
necessario – come già lo è stato in diversi teatri di crisi –
sul piano militare”. Il sillogismo è fallace tanto per eccesso di
generalizzazione quanto per difetto di contestualizzazione. Da una
parte non si capisce cosa abbiano in comune la guerra di liberazione
e l’intervento militare all’estero e d’altra parte si sorvola
sul fatto che la Resistenza nasce e si sviluppa come reazione al
disastro della guerra voluta da Mussolini e dal Re. Trascurando
questa frattura, il Presidente spinge il discorso quasi all’opposto
del punto di partenza: “Dobbiamo procedere nella piena, consapevole
valorizzazione delle Forze Armate [...]. Potremo così soddisfare
esigenze di rigore e di crescente produttività nella spesa per la
Difesa, senza indulgere a decisioni sommarie che possono riflettere
incomprensioni di fondo e perfino anacronistiche diffidenze verso lo
strumento militare, vecchie e nuove pulsioni antimilitariste”.
Tutto hanno visto in
queste parole l’invito al Parlamento a confermare l’acquisto
degli F35. Pochi, al contrario, hanno commentato la durissima repulsa
delle “pulsioni” antimilitariste. Ma la Resistenza fu una guerra
per bande non solo per le condizioni in cui i partigiani si trovarono
ad operare, ma anche per la scelta di un’alternativa politica e
morale al fascismo. In questo senso essa fu profondamente (e
giustamente) antimilitarista. Anche da quelle “anacronistiche
diffidenze” nasce l’art. 11 della Costituzione con cui l’Italia
“ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”. Insomma, il
passaggio dalla necessità della resistenza armata all’esaltazione
aprioristica degli apparati militari rischia di portare a un
patriottismo indistinto, lo stesso dei nemici della Resistenza. E’
coerente con questa impostazione (molto meno con i valori del 25
aprile) l’omaggio finale ai marò Girone e La Torre, i quali
“rendono onore alla patria e sono ingiustamente trattenuti”.
Stesso tenore nelle
dichiarazioni del 2 giugno, festa della Repubblica trasformata da
tempo in una festa della forze armate, nonostante quel giorno si sia
tenuto un referendum e non una battaglia. Napolitano non solo difende
la parata militare, ma vi riporta, dopo un anno di “sobrietà”,
anche le Frecce tricolori. “Nel 68mo anniversario della Repubblica
e a cent’anni dallo scoppio della Prima guerra mondiale, - dice il
messaggio del presidente - ho rinnovato con particolare commozione il
mio omaggio al sacello dell’ignoto soldato caduto, con tantissimi
altri, in quell’immane tragedia che ha segnato indelebilmente la
storia del nostro paese e dell’Europa.” Anche qui ritroviamo
l’indebita continuità tra avvenimenti storici molto diversi,
nonché l’oblio riservato, ad esempio, alle “pulsioni
militariste” che furono tra le cause della “immane tragedia”.
Confondendo tutto nel calderone del patriottismo non si fa un buon
servizio alla verità e nemmeno alla patria.
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