Forse perché l'ho
tradotto in prima liceo, il secondo canto dell'Odissea mi è
rimasto dentro, dolcissimo, integrato a un mio tempo personale in cui
vita e poesia si confondevano in un seguirsi di dissolvenze e
sovrimpressioni simili a quelle che aprono l'Aurora di Murnau,
l'altra mia esperienza inebriante, in quegli anni, il cinema, il
caro, il bel cinema muto nel suo morire...
Non ho mai dimenticato,
mi è sempre tornato quasi alle labbra, il verso 188 (nella
traduzione di Privitera suona «II sole calò e tutte le strade
s'ombravano») ogni volta che l'ora lo suggeriva. Erano, quelli della
mia prima lettura del secondo canto, gli anni che mi inoltravo nella
Recherche: così leggevo l'Odissea, ne coglievo le
epifanie in chiave proustiana. Ulysses con tutte le sue rispondenze,
i suoi rimandi sapienti al poema antico, si dimostrò inservibile,
per me se mai più consono a quelle mie operazioni di apprendistato
letterario tanto impuro quanto innocente, il Joyce giovane dei
Dubliners.
Ora mi sono riletta, per
intero, la Telemachia, probabile pannello necessario all'economia del
gran libro inserito in limine da chi, avendo sistemato il
tesoro del materiale odisseico orale precedente, possiede già la
forza della «written composition», della scrittura cioè,
come apprendiamo dalla lucida prefazione di Alfred Heubeck. A questo
punto, letto il secondo nella sequenza dei quattro canti che formano
la Telemachia, mi viene di
pensare che ancora una ragione di quella mia appassionata
partecipazione a un libro impostomi dalla scuola, al di là del
reperimento di fulgenti anticipi della letteratura nuova che andavo
scoprendo, stesse nel fatto suggerito dalla commentatrice Stephanie
West: che la Telemachia sopporta una lettura in chiave di
Bildungsroman oppure, oserei scrivere (ma non facciamo simili
violenze quando, ammirando gli impasti di Tiziano vecchio, mormoriamo
«sembra un Renoir»?) che la Telemachia potrebbe anche considerarsi,
prendiamo in prestito da Goethe, «Gli anni di viaggio e di
apprendistato» del figlio di Odisseo.
Possibile che
nell'inconscio mi specchiassi in quel lontano coetaneo che, stanco
della prepotenza dei pretendenti la madre, voglioso di riavere un
padre (giusta la terapia freudiana) decide di partire per mare? E va
bene. Atena gli sta sempre vicina a consigliarlo, mutata nel
sembiante, meno negli occhi saettanti e nello, scatto delle
apparizioni, in quel saggio valentuomo di nome Mentore. Ma non è la
dea che consiglia il giovane Telemaco quando egli, in segreto, si
rivolge alla nutrice Euricléa (Odisseo non era mai andato a letto
con lei per non ingelosire Penelope, l'abbiamo appreso soltanto ora,
rallegrandoci dell'imprevista malizia omerica) al fine che appronti
le provviste necessarie al viaggio per mare, e si raccomanda con
parole venute dal cuore profondo «...di non dirlo alla madre —
prima che sia l'undicesimo o dodicesimo giorno — o che lei stessa
mi cerchi e oda che sono partito — perché non sciupi il bel viso,
piangendo».
Qui il poema si fa
«romanzo», getta un fascio di luce su di una Penelope che, come
tutte le eroine del «romanzo», non deve sciuparsi il bel viso,
ancora tale seppure già in prima sfioritura. Il figlio, come tutti i
figli è innamorato della madre, non vuole che per colpa sua si
sfiguri, e molto se ne preoccupa mentre già l'attendono un
periglioso viaggio, l'insidia dei pretendenti.
Altro tratto della
delicata, anche se irrobustentesi, personalità di Telemaco, e dunque
altra spia dell'evoluta sottigliezza del nostro presunto «autore
della Telemachia», il riserbo del giovane, il suo silenzio quando
Menelao racconta con lodi e rimpianto di Odisseo. E lui, che è
arrivato sin lì per avere notizie del padre, zitto. Deve rivelarlo
Pisistrato, suo compagno di viaggio...
Nessun evento troppo
favoloso arricchisce, né d'altra parte sovraccarica (Odisseo ha
spalle ben più forti del figlio, che pure è in via di maturare
egregiamente) il breve Bildungsroman che è la Telemachia.
Anche i racconti nel racconto, come l'orribile crimine di Egisto,
sono scorciati a dovere, mai straripanti.
Dunque il giovane
Telemaco, cui forse, segno certo della crescita, si è fatta più
piena la voce, parla franco e, duro ai rovinosi pretendenti, prepara
le vettovaglie, sceglie i compagni della sua non grandiosa ma
coraggiosa impresa, assolve al suo compito con assoluta correttezza e
con un pudore che tutto è suo. E noi lo lasciamo alla ricca mensa di
Menelao cui, a un certo punto, curiosa, s'aggrega la sposa infedele,
la bella Elena loquace e al momento opportuno dispensatrice di
tranquillanti ai convitati. Imparino da lei, le padrone di casa.
Lo lasciamo, Telemaco,
che ne sa un po' più sul padre: ad esempio viene fuori la storia di
Calipso. E lo scaldano l'affettuosa ospitalità e i vini di Menelao,
la fraterna assistenza di Pisistrato che lo ricondurrà a Pilo
sabbiosa per il ritorno a casa con i compagni di Itaca. Dove,
intanto...
Con abile montaggio Omero
(possiamo chiamarlo così?) torna sui pretendenti indaffarati a
preparare un agguato mortale a Telemaco, su Penelope la quale, era
ora, s'accorge dell'assenza del figlio e piange piange, sciupandosi
forse il bel viso. L'ultima inquadratura è perfetta per procurarci
suspense. «In mezzo al mare v'è un'isola, petrosa — tra Itaca e
Same irta di rocce: — Asteride. Non grande, ma vi sono porti
gemelli — per navi: gli Achei aspettavano là, in agguato». Sembra
di vederne gli occhi svegli assassini.
D'ora innanzi non sarà
più la Telemachia che leggeremo, sarà la gloriosa Odissea. A
noi questo indugio nel prologo, rivisitato oggi con intermittenze del
cuore del tempo di quella prima lettura, è stato assai caro; ma
pensiamo che possa esserlo per tutti.
“la Repubblica”, 20
ottobre 1981
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