Luca Ronconi nel 1995
mise in scena Re Lear al
teatro Argentina di Roma, con Massimo De Francovich nel ruolo del
protagonista e la scenografia di Gae Aulenti. La traduzione della
tragedia shakespeariana fu affidata a Cesare Garboli che, per il
programma di sala, scrisse anche l'articolo che segue. Il testo fu
pubblicato come anticipazione dal quotidiano comunista “il
manifesto”. (S.L.L.)
Massimo De Francovich e Corrado Pani nel "Re Lear" allestito da Luca Ronconi per il Teatro di Roma nel 1995 |
Nel criticism sul
King Lear si è fatto un gran discutere, una trentina d'anni
fa, se sia giusto interpretare una tragedia pagana in chiave
cristiana. Il primo a parlare di «Redemption» di re Lear attraverso
le sofferenze era stato A.C, Bradley, ai primi del secolo; ma anche
Wilson Knight (1930) era rimasto sbalordito dai toni «purgatoriali»
della tragedia: «II naturalismo di King Lear — diceva -
impallidisce davanti a un'accecante lama di luce trascendente». Così
si è fatta sempre più strada la convinzione che una tragedia «in
a pagan setting» (però abitata dai diavoli) sia in realtà una
via crucis, un viaggio attraverso prove terribili verso la
rinuncia al mondo e la conquista della propria anima. Il plot,
per intenderci, si dividerebbe dal messaggio. La storia è in nero,
ma tutti si denudano e il messaggio è luminoso.
Io ho sempre preferito
leggere King Lear come una tragedia dove due strade
s'incontrano. Si sa che il King Lear è fatto di due storie,
una principale e una secondaria; ma si fa scarsa attenzione al fatto
che le due storie viaggiano in direzione contraria.
Come Caino e Abele
Una, quella che fa capo
all'insopportabile monarca e alle sue tre figlie (le sorellacce e la
Cenerentola), descrive il progressivo assatanamento che nasce dal
gusto del potere (chi lo tocca diventa subito indemoniato); l'altra,
la tragedia del fatuo e disperato Gloucester coi figli Edmund e Edgar
(Caino e Abele), è una delle tante, antiche varianti dell'uccisione
del demonio. Tra queste due storie, due fili nerastri tinti di un
eguale rosso-sangue, io preferisco di gran lunga quella di sangue
maschile.
Non ho grande simpatia
per le tre sorelle, ma neppure per re Lear. Questa tragedia — la
principale - è tutta in eccesso. E' eccessivo tutto; la regalità,
la sofferenza, la pazzia, l'uragano, l'odio. L'eccesso comincia
subito, nel momento in cui Lear chiede alle figlie di dirgli quanto
esse lo amino. Non c'è amore che basti. Ma è eccessiva anche la
malvagità, anche l'odio. Tutto è nero, buio e perverso
(«innaturale» è una delle grandi parole del King Lear) fino ai
limiti dell'intollerabilità (fino alla noia, diceva Thackeray).
Un gruppo di attori si
deve essere riunito un giorno intorno a Shakespeare e gli deve avere
detto; il mondo è Sofferenza? Ingiustizia? Violenza? Tenebra?
Pazzia? Odio? Lussuria? E allora, che cosa aspettiamo? Facciamo
scoppiare un uragano e parliamo di questo. Nel King Lear non si fa
altro. Johnson rimproverava a Shakespeare tutto questo nero, non
ammetteva che una tragedia potesse essere scritta «without any moral
purpose», e non sopportava che Cordelia morisse. Si sentiva shocked
da quella morte. Voleva il lieto fine, come nelle vecchie
cronache. «Shakespeare has suffered that virtue of Cordella to
perish in a juste cause». Era sbigottito da uno spettacolo dove «the
wicked prosper, and the virtuos miscarry».
Un sentimento largamente
condiviso da tutti i suoi compatrioti. Tanto che gli inglesi, per
quasi due secoli, hanno sempre visto il King Lear rifatto da
Nahum Tate dove la loro eroina nazionale scampava alla forca. E
quando si è ritornati a Shakespeare, tutti si sono trovati d'accordo
nel far morire Lear non di dolore ma di gioia, perché forse Cordella
è viva e le sue labbra si muovono. «Do you see this? Look on ber!
Look ber lips!». Come andrà letta questa battuta? «Look there!
Look there!». Mah! Le battute, come i semafori a Napoli, sono solo
consigli. Tutto dipende da come gli attori le pronunciano.
Il disgusto di Gide
Nel 1946, Andre Gide uscì
disgustato da un King Lear di Laurence Olivier. Disse che neppure
Victor Hugo sarebbe stato capace di riversare su lettori e spettatori
un prodotto di gigantismo più falso. La mia grande speranza è che
De Francovich ci liberi finalmente da questo Re Lear «titanico».
Nella sua versione più costituita, re Lear è un personaggio che non
mi piace.
Mi sembra un personaggio
di morale quasi ibseniana. Uno di quei padri di famiglia che si sono
fatti tutti da sé, che si sentono sempre al centro del mondo, una di
quelle forze della natura perfettamente cieche e incoscienti che
gridano al tradimento se solo qualcuno non ubbidisce. Re Lear mi
piace solo quando si risveglia dalla pazzia, o quando chiacchiera con
Edgar scambiandolo per un filosofo ateniese. Ma non sopporto la sua
«anima universale» (Dryden). Non mi piace la sua isteria, il suo
istrionismo, il suo esibizionismo, il suo infantilismo. Non mi piace
la sua vecchiaia. Non mi piace la sua corona. Quando lo sento
recitare «crack your cheeks!», rivolto al cielo e ai venti, e
«singe my white head!», contro tuoni e fulmini, vengo preso da una
grande insofferenza. Tra l'altro, tradurre tutto quel rimbombo,
quella sfida agli elementi senza troppi monosillabi a disposizione è
stato un tormento.
E sono grato a Ronconi di
avere non solo smorzato quei toni; ma anche, sensibilissimo alla
razionalità delle sorellacce, di avere dato un certo equilibrio agli
alterchi tra padre e figlie (non sono delle streghe, lo diventano col
tempo, con l'evolversi della storia).
Altrimenti, dovremmo
pensare che solo un genio come Shakespeare poteva antivedere in re
Lear, con un anticipo di tre secoli, tutta la gestualità insolente
dei grandi attori dell'Ottocento, prefigurandola con tanta
precisione.
Ma infine, c'è Edgar.
Quando arriva Edgar, la tragedia di re Lear cambia misteriosamente di
segno, diventa un'altra. Non è certo un caso che Lear e Edgar, e le
loro pazzie, s'incontrino a metà strada, proprio a metà della
tragedia.
Quasi più di Ariel, Edar
è un personaggio magico e inafferrabile. E' un personaggio che non
parla con nessuno, non divide il teatro con nessun altro. E' un
personaggio senza finzione.
Edgar ci insegna a
«decrearci», direbbe Simone Weil, a ridurre la nostra persona a
zero. Si limita a monologare e a confidare le sue paure agli
spettatori. E un angelo, un San Giovannino, un giovane Battista
ispido, arruffato, nudo come un verme.
Un Edipo barbarico
Ma solo un verme fatato
potrebbe scavare una traccia sotterranea dentro la tragedia per farla
rinascere inaspettatamente nuova e più fresca di un fiore. La pazzia
simulata e assatanata di Edgar riempie di significati innumerevoli la
follia tanto più ovvia dei suoi interlocutori: quella professionale
del Pool, e quella isterica del vecchio tiranno spodestato.
Più che un'allegoria
cristiana, Re Lear si mostra finalmente nella sua nudità, ma anche
nella sua tenebra. Una tragedia medievale, una lotta col demonio, una
fiaba crudelmente istoriata e figurata con idre, mostri, diavoli da
capricciosa fantasia gotica. E non
solo una fiaba, ma anche
un grottesco Edipo barbarico, dove il veggente è un giovane
arcangelo e non il vecchio cieco di tradizione mitologica. Il
pannello immaginario con cui Edgar descrive al padre la rupe di
Dover, quel frammento di teatro divertito e dipinto, coi corvi e le
cornacchie che sembrano insetti, e laggiù, sulla riva, i ciotoli
vani e infiniti battuti dalle onde, è il più stupefacente, il più
ironico, il più semplice, e insieme il più illusivo e barocco
prodigio teatrale di tutti i tempi.
Non meno fantastico del
suicidio di un vecchio padre malandato e cieco che si getta a pancia
in giù sopra un prato, convinto di slanciarsi dalla più alta rupe
di Dover.
La pietà e
l'ironia
Al momento del salto, il
figlio si allontana di qualche metro e vede il padre cadere. «Non so
se immaginare di morire può rubarci il tesoro della vita», è il
commento di Edgar - bel modo capzioso e arzigogolato di esprimere un
trepidante sospetto: ma che sia morto, niente niente? Può la
dolcezza della pietà farsi più vicina alla forza imperiosa,
irrinunciabile dell'ironia?
La tragedia di re Lear
finisce con la vittoria del Male, come è giusto (con buona pace di
Samuel Johnson) perché è fin troppo noto che il mondo è il regno
di Satana, e il cielo regna altrove. Ma Edgar arriva in tempo per
lasciarci negli occhi una di quelle immagini che il teatro, senza
averne l'aria, non fa che rubare alle arti figurative: l'arcangelo
Michele in atto di scagliare la lancia, e il mostro ai suoi piedi.
O, per noi italiani,
l'immaginetta che abbiamo sempre davanti, San Giorgio e il Drago. Una
brezza di laguna, da una città così cara a Shakespeare, spiffera
perfino in una fiaba nordica come il Re Lear.
“il manifesto”, 5
febbraio 1995
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