A un giovane
intelligente, coraggioso e onesto cerco di spiegare le ragioni del
mio anticapitalismo, cercando di dimostrare come all'origine di tante
ingiustizie, di tante assurdità della nostra organizzazione sociale
e politica siano le esigenze del profitto, massimo e ad ogni costo,
la cui espressione più completa è il potere finanziario spesso
colluso e intrecciato con poteri mafiosi. L'esperimento comunista del
ventesimo secolo - gli dico - è finito male, ma bisognerà provarci
ancora, in un altro modo, altrimenti l'umanità non si salva dalle
pulsioni distruttive del capitale. Replica che quelli della mia
generazione siamo fatti così: ci mostrano il dito e noi guardiamo il
cielo. E invece è proprio il dito acciaccato che dovremmo guardare e
curare: affrontare - e se possibile risolvere - i problemi concreti,
anche piccoli, qui ed ora.
Io - dopo tanti anni di
imbarbarimento - come faccio a spiegargli l'impegno militante della
mia giovinezza, quella concretezza che si nutriva di anticapitalismo
e lo nutriva? Con quali parole gli dirò l'orgoglio dell'appartenenza
a una parte, a un partito che non separava l'impegno per la strada
dissestata dalla solidarietà internazionalista, ove si guardava il
cielo per curare meglio il dito e si guariva il dito per scalare
meglio il cielo?
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