La finta tomba di Benjamin nel cimitero di Port Bou |
Nel 2010 “alias”
pubblicò come anteprima l'Introduzione di Carlo Saletti a Fine
terra. Benjamin a Portbou, un
volume collettaneo sugli ultimi giorni di vita e sui misteri della
morte di Walter Benjamin edito Ombre Corte/Documenta. La
riprendo qui perché mi pare documentare ottimamente il momento
cruciale della tragedia del Novecento europeo. (S.L.L.)
Walter Benjamin nell'estate 1938 |
Osservando le fotografie
di Wallter Benjamin negli ultimi anni della sua vita – quella
dell'estate 1938, ad esempio: in maniche di una camicia bianco
candido, i pantaloni scuri alti in vita, la cravatta, l'arco della
catena dell'orologio a cipolla sul fianco destro, la figura intera
con le mani ancora in tasca – ciò che colpisce e quello che colpì
l'amico di una vita Gershom Scholem quando, incontrandolo a Parigi
alla fine del febbraio di quello stesso anno, lo descrisse come noi
lo percepiamo oggi: «Erano undici anni che non lo vedevo, e il suo
aspetto esteriore era alquanto mutato. Si era appesantito, aveva
qualcosa di più trasandato nel contegno, portava baffi molto più
folti. I suoi capelli si erano notevolmente ingrigiti». All'epoca in
cui l'istantanea fu scattata, Benjamin era ospite di Bertolt Brecht
nell'abitazione danese di Svendborg e, ma solo noi lo sappiamo, aveva
soltanto due estati davanti.
L'intellettuale, che per
la profondità del proprio pensiero aveva suscitato l'ammirazione dei
contemporanei, continuava a vivere da freelance, senza un
reddito sicuro, trascorrendo la buona stagione tra San Remo, dove la
ex moglie Dora gestiva una pensione, e la Danimarca. Il solo sostegno
economico su cui poteva contare gli veniva dall'Istituto per la
ricerca sociale, diretto da Max Horkheimer, trasferitosi nel
frattempo a NewYork. Il suo esilio era iniziato nel marzo del 1933.
Via da Berlino e dalla Germania, aveva scelto Parigi come città che
lo avrebbe adottato, anche se era ancora in attesa di
naturalizzazione. E ben presto, privato della cittadinanza tedesca,
sarebbe piombato nella condizione dell'apolide.
Nato il 15 luglio 1892,
il geniale quarantaseienne era, in quella estate del 1938, un uomo
pingue. Ora, c'è un'idea che ha espresso Stefan Zweig, il letterato
austriaco che un tempo era stato amico e collaboratore di Richard
Strauss. Zweig, per spiegare cosa fosse il mondo europeo che lo aveva
preceduto e che la grande guerra si era portato via, aveva fatto
ricorso alla fisicità dei padri:
Se io tento di
rievocare nella loro precisa immagine le figure degli adulti che
circondarono la mia infanzia, constato con stupore che moltissimi fra
di essi erano precocemente corpulenti. Mio padre, gli zii, i maestri,
i commessi dei negozi, i suonatori d'orchestra, tutti a quarant'anni
erano uomini già piuttosto pingui e dignitosi. Camminavano lenti,
parlavano pacati e discutendo si accarezzavano le barbe ben curate e
spesso già volte al grigio. I capelli grigi del resto erano un segno
di dignità ed un uomo posato evitava di proposito, come
sconvenienti, i gesti e la baldanza della gioventù.
Lo aveva chiamato die
Welt von Gestern, il mondo di ieri, e Benjamin corrispondeva
perfettamente alla descrizione che Zweig dava di chi lo aveva
preceduto. Pur essendo uno dei più lucidi critici della propria
contemporaneità - certo, era molteplice, sociologo dei media,
filologo erudito, critico d'arte e di teatro, traduttore, filosofo
della storia, analista letterario, cacciatore di preziose pietre
imprigionate tra gli scaffali delle biblioteche che, opportunamente
lucidate, prendevano splendore sotto forma di citazione, cartografo
della memoria e sottile esploratore del paesaggio urbano,
collezionista di edizioni per l'infanzia, ecc. -, Benjamin era
legato, perlomeno per il fisico, al mondo di ieri. E, tuttavia, per
lui la catastrofe doveva ancora venire.
Le cose incominciarono a
precipitare (che significa: a non andare più come si erano
presentate il giorno prima), quando la Germania decise che era giunta
l'ora. Dapprima, della Polonia. Entrare il primo settembre 1939 in
quel paese e, en passant, provocarne lo smembramento, dal
momento che ad oriente l'Unione sovietica non aveva tardato a mettere
le mani sulla sua parte del bottino, aveva obbligato la Francia, per
gli effetti di un accordo transitivo sottoscritto con il paese
invaso, a dichiarare guerra alla Germania, il 3 settembre. La
qualcosa aveva prodotto uno smottamento, in forza del quale gli
antinazisti che avevano trovato rifugio in territorio francese, le
migliaia di tedeschi, d'austriaci, socialdemocratici, comunisti o
ebrei che fossero, o entrambe le cose, furono definiti «stranieri
indesiderabili» e, come tali, raccolti e internati nella vastissima
rete dei campi di cui la Repubblica si era lestamente dotata.
Benjamin non sfuggì alla regola e finì circondato dal filo spinato.
Fu più fortunato di altri, poiché aveva amici che lo stimavano
enormemente e uno di questi, la poetessa Adrienne Monnier, aveva una
conoscenza influente presso il ministero degli Esteri - Henri
Hoppenot, si chiamava - che l'aiutò e aiutandola diede una mano al
pover'uomo. Qui, l'espressione dare una mano andrebbe intesa
nel suo senso letterale, di tendere la mano verso qualcuno per trarlo
a sé e toglierlo, in questa maniera, dal guaio in cui è finito. Si
stava entrando nell'inverno e nei campi si sprofondava nel fango. «La
mia liberazione è stata una delle prime a essere decisa», scrisse
da Parigi all'amico Scholem, non appena poté riprendere l'abituale
corrispondenza, il 25 novembre 1939, «ho avuto la fortuna di essere
liberato nello stesso giorno in cui il tempo, laggiù, volgeva al
freddo. Sono dimagrito, ma sto bene». Fisicamente, si stava
riallineando al proprio tempo.
Poi, fu la volta
dell'Olanda, del Belgio e della Francia. Tre paesi in un colpo, dal
10 maggio 1940. Il 14 giugno, le truppe del Reich erano già a
Parigi. Dal fronte, la notizia riempì Hitler di una gioia immensa,
debitamente ritratta dai camerieri al seguito. Come spesso
accade per i sentimenti, si può coglierla in un frammento di
movimento, colto in quei giorni da una macchina da presa: quel
piccolo passo di marcia sul posto - quando il Fuhrer alza la gamba
sinistra e con essa chiude come un compasso il braccio
corrispondente, per poi scaricare la gioia a terra, battendo il piede
- con cui lo vediamo commentare la notizia attorniato dai suoi
generali.
Benjamin non vide i suoi
connazionali di un tempo sciamare per le vie della capitale, se n'era
andato uno, due giorni prima. Come non li vide un altro esule, Victor
Serge, che pure era in città e che scrisse di quelle ore:
La fine di Parigi è
la fine del mondo; si ha un bell'essere lucidi, come ammetterla?
Domenica 9, vedo i ministeri sgomberare. Delle automobili coperte di
materassi e sovraccariche di bagagli filano verso le porte del sud.
Dei negozi si chiudono. La Parigi delle ultime sere è splendida. I
suoi grandi boulevard deserti entrano nella notte con una nobiltà
straordinaria. Una calma di potenza addormentata regna sulle piazze
spente.
Il corso degli eventi
militari si era disposto in modo tale che la profezia espressa
quindici mesi prima da Scholem, «tutto il futuro diventa così
sinistro e inquietante, che la fantasia si rifiuta di tenere dietro
alla realtà (di domani e dopodomani)», si stava realizzando. Dal
nord, gli esuli scendevano verso il sud della Francia, dichiarata dal
trattato armistiziale «zona libera». Si produsse, dunque, uno
spostamento di popolazione che, in epoca più recente, si avrebbe
preso l'abitudine di chiamare una catastrofe umanitaria. Anche su
quella parte d'Europa erano giunti tempi oscuri: «Ricevo lettere cui
si dovrebbe rispondere con un pacco di veronal o di un altro
veleno efficace, unico consiglio che si possa dare a quei
disgraziati...», osservava Zweig dal suo luogo d'esilio. Cos'altro
suggerire, a chi ancora sopravviveva intrappolato nell'Europa
continentale, se non di procurarsi un veleno infallibile? Di ciò si
era iniziato a discutere, apertamente, tra esuli. Quando, nella
seconda metà del settembre 1940, Benjamin incontrò a Marsiglia
Arthur Koestler, i due affrontarono l'argomento. Finì che si
divisero equamente la dose che Benjamin aveva con sé. Solo qualche
mese prima passavano le serate, in rue Dombaste a Parigi, giocando a
poker - sì, era vero, in Spagna i franchisti non avevano ancora
finito di sotterrare i rossi, c'era pur stata l'Austria, i tedeschi
avevano cancellato la Cecoslovacchia dalla carta geografica, ma,
insomma, il mondo stava ancora in piedi! - ed eccoli, ora, discutere
come farmacisti della quantità necessaria...
A Marsiglia, Benjamin era
arrivato dopo una sosta di circa due mesi a Lourdes, dove era
riuscito a ritrovare la sorella Dora, affetta da una grave malattia,
che non le aveva comunque evitato un certo periodo di internamento
nel campo di Gurs, distante una sessantina di chilometri dalla città
dei miracoli. A Benjamin occorrevano i documenti per poter
abbandonare l'Europa - problema comune alle migliaia di individui
messi al bando. La Francia, tradizionale terra d'asilo, aveva cessato
di esserlo. Finalmente, agli inizi d'agosto gli era stato comunicato
della disponibilità di un visto di entrata per gli Stati Uniti, da
ritirarsi a Marsiglia.
La città era diventata,
in quelle settimane, la capitale della fine di quel mondo. Era lì
che si concentravano le speranze, perché era lì che si cercavano i
permessi, presso una burocrazia investita del potere incondizionato
di decidere sui casi umani - le vite degli altri. Bisognerebbe
rifletterci: da una parte il fruscio di fogli, il tonfo secco di un
timbro che cala su una fotografìa formato tessera, lo stridio del
pennino sulla carta, dall'altro il cigolare delle porte e il
tintinnare delle manette...
Era arrivato luglio, era
arrivato agosto, il tempo trascorreva nell'attesa. E l'attesa era
tempo prezioso che scivolava via, allontanando i fuggitivi dalla
salvezza. «Il mio timore è che il tempo a nostra disposizione possa
essere assai più limitato di quanto pensassimo», scriveva il 7
agosto.
Verso la fine di
settembre, Benjamin aveva finalmente raccolto la maggior parte dei
documenti necessari per toglierlo dai rischi a cui è esposto ogni
clandestino. Gli mancava il permesso d'uscita dal territorio
francese. A quel punto, non importava. Ripresa la fuga, scese in
treno sino al confine spagnolo, ai piedi dei Pirenei, con l'idea di
valicarli. Cosa che gli riuscì il giorno 25. Come in una storia
dall'epilogo triste, una volta giunto in Spagna venne fermato e gli
fu detto che sarebbe stato riconsegnato alle autorità francesi. Gli
venne concesso di fermarsi per la notte e fu accompagnato in un
albergo del primo paese al di là della frontiera, Portbou.
Considerato ormai unanimemente un pensatore maggiore del novecento,
Benjamin finì nell'inghiottitoio, come tanti altri nelle sue
condizioni, quella notte stessa.
Il fascino che emana dal
suo pensiero, in misura sempre maggiore; non è disgiunto dalla
consapevolezza che vi è per quella fine. Per certi versi, Benjamin
lo aveva intuito in un suo saggio del 1936, quando scriveva: «Un
uomo che muore a trentacinque anni», - ha detto una volta Moritz
Heimann, - «è in ogni punto della sua vita un uomo che muore a
trentacinque anni». Nulla di più dubbio di questa affermazione. Ma
questo solo perché si serve di un tempo inadatto. Un uomo - è la
verità cui essa allude - che è morto a trentacinque anni, apparirà
al ricordo inferiore, in ogni punto della sua vita, come un uomo che
muore a trentacinque anni. In altri termini: l'affermazione, che non
ha senso per la vita reale, diventa inoppugnabile per la vita
ricordata.
Il suo drammatico
decesso, per nulla accidentale e che sopraggiungeva a qualche ora da
una morte sfiorata - l'attraversamento dei Pirenei, per lui afflitto
da una grave cardiopatia, era stata una roulette russa -, rimase
tuttavia avvolto in un alone di mistero, così come rimase
sconosciuto il luogo ove il corpo era stato sepolto.
A partire dagli anni
Ottanta, nuove testimonianze e la lettura di importanti documenti
ritrovati a Portbou hanno permesso di approfondire la conoscenza
sulle circostanze della morte e della successiva sepoltura. Tanto le
testimonianze, quanto i documenti d'archivio rafforzavano,. in pari
misura, ciascuna delle due versioni che circolavano sulla causa del
decesso: suicidio o morte naturale. Il racconto di una misteriosa
borsa di pelle nera che Benjamin avrebbe avuto con sé in quelle ore,
e del manoscritto in essa contenuto, riaccese l'interesse attorno
alla vicenda. Furono avviate ricerche per capire dove fosse finito,
mentre iniziava ad emergere nel paese catalano la memoria di quel
passaggio. La finta tomba, mostrata ai visitatori sin dagli anni
Sessanta era stata smantellata e avrebbe lasciato il posto, di lì a
qualche tempo, a un cenotafio in sua memoria. Una targa era stata
apposta sul muro di cinta del cimitero comunale. Con l'avvicinarsi
del centenario della nascita, fu avviato il progetto di un
monumento-memoriale, affidato all'artista israeliano Dani Karavan,
che destinava lo sperduto villaggio catalano a entrare nelle mete di
quel turismo della memoria, che proprio in quegli anni andava
affermandosi in Europa.
Ripercorrere l'intera
vicenda e rispondere agli interrogativi che ne sono nati è il
compito che si è dato questo libro: quando morì, precisamente,
Walter Benjamin e in quali circostanze? Quale fu la causa del
decesso? Perché fu sepolto, lui ebreo, nel settore cattolico del
cimitero di Port-Bou? Cosa ne fu delle sue spogliemanoscritto che
alcuni testimoni sostengono avesse con sé e cercasse, assieme alla
sua vita, di mettere in salvo?
Per mettere ordine alle
domande e alle risposte che sono state date, il libro ha raccolto
alcuni contributi, in parte apparsi sul testo collettaneo Fur
Walter Benjamin. Dokumente, Essays und ein Entwurf, con cui nel
1992 l'AsKI (Associazione tedesca degli istituti di cultura autonomi)
di Bonn ne volle ricordare il centenario della nascita. Curato dagli
storici tedeschi Ingrid e Konrad Scheurmann, che si ringraziano per
averne autorizzato la traduzione e la pubblicazione, il libro
costituisce uno dei più importanti contributi sull'argomento. In
particolare, vengono presentate le interviste al Lisa Fitko, la
passatrice che accompagnò Benjamin nel suo passaggio di frontiera, e
a Dani Karavan, a cui si deve il progetto del monumento che in sua
memoria è stato realizzato a Portbou (sulla spianata del cimitero
dove, da qualche parte, sono finite le sue spoglie), e il lungo
saggio che Ingrid Scheurmann ha dedicato all'analisi dei documenti
della municipalità di Portbou ritrovati nei primi armi Novanta, la
cui conoscenza ha apportato diversi chiarimenti su quanto avvenne tra
il 26 e il 28 settembre 1940 in quella località. L'intervento
conclusivo, redatto in forma di dizionario, vuole essere un invito a
recarsi a Portbou e a sostare dinanzi a queflo che, oggi, è divenuto
un luogo di memoria.
Il memorial Walter Benjamin a Port Bou |
Gli anni francesi di
Benjamin e l'epilogo della sua esistenza non sono che una tessera dei
più vasto fenomeno dell'esilio europeo nel Novecento. La sua è
stata una di quelle «vite mutilate» - secondo la definizione che ne
ha dato l'amico Adorno - di cui è costellata la miseria morale in
cui piombò il continente. L'esilio politico e di classe, l'esilio
civile, l'esilio «razziale», l'esilio intellettuale si sono
succeduti nel corso del secolo come altrettante varianti di un
processo che portò alla negazione del diritto di cittadinanza per
quote di popolazione considerate in eccesso. A ciò, in definitiva,
riconducono le ore passate da Benjamin a Portbou. Lo splendido
memoriale che Karavan realizzò nel 1994 è dedicato, oltre che al
suo nome, a quello di tutti gli esiliati tra il 1933 e il 1945.
Spesso, tuttavia, ciò che è stato vero per il passato, lo è anche
per il presente. Non a caso, Enzo Traverso ha osservato, qualche anno
fa, che «questo monumento ricorda anche le migliaia di sans-papiers
che ogni anno muoiono cercando di raggiungere le coste spagnole,
spesso in fuga da paesi africani devastati dalle guerre e dalla
violenza, o i clandestini di cui si raccolgono i cadaveri sulle coste
del sud dell'Italia, spesso in fuga da altre guerre, da altri
fascismi».
Pubblicato in anteprima
su “alias – il manifesto”, 25 settembre 2010
1 commento:
Salve, questo documentario sugli ultimi giorni di Walter Benjamin può contribuire a ricostruire quei momenti che ho notato vengono un pò troppo velocemente considerati "certi" senza possibilità di ripensamenti: http://bit.ly/1r1Y22q
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