Aldo Natoli conobbe assai
bene Enrico Berlinguer che, tra l'altro, fu suo successore come
segretario regionale del Pci nel Lazio, ma questo suo profilo,
apparso in occasione della morte del leader comunista, non mostra
alcuna indulgenza per l'aneddotico, piuttosto - con rare capacità di
sintesi - tende a cogliere i nodi problematici della sua figura e
della sua ricerca, il suo ruolo nella storia. La vicenda di
Berlinguer, della cui leadership sono indicate luci ed ombre, viene
inquadrata - come dev'essere - dentro le coordinate del comunismo
novecentesco, ma molti saranno stupiti di come, nell'immediatezza
della scomparsa del popolare segretario, Natoli sappia antivedere e
definire i dilemmi irrisolti che porteranno alla fine il più grande
esperimento politico del secondo Novecento italiano, il Pci di
Gramsci, Togliatti, Longo e, appunto, di Berlinguer. (S.L.L.)
La tragedia di Enrico
Berlinguer è sopravvenuta nel momento forse più basso e torbido
della vita pubblica italiana di questo dopoguerra. Improvvisamente si
è taciuto il coro di voci false e stridule. Si è imposta come una
pausa di rispetto, in uno sgomento che è parso universale, valori
già desueti e sentimenti abitualmente repressi sono tornati per un
momento in circolazione e forse si capirà di nuovo che lottare per
un ideale fino alle estreme conseguenze è cosa nobile, semplice e
bella, come chi si muove fissando una stella, secondo il motto del
grande Leonardo. E, forse, per commentare questo dramma non occorre
fare discorsi commemorativi, ma cercare di capire, discernere come e
quando il filo della storia finisca con il confondersi con il filo
che incessantemente scorre fra le dita della Parca.
Berlinguer è stato il
primo segretario non terzinternazionalista del Pci, è giunto alla
massima direzione del più grande partito comunista dell'Occidente
ancora relativamente giovane ed ha avuto in sorte di essere prima
collaboratore e poi successore dei due segretari che lo avevano
preceduto, uomini che si chiamavano Palmiro Togliatti e Luigi Longo e
che erano stati, l'uno e l'altro, fondatori del partito e membri
autorevoli, dirigenti e protagonisti della III Internazionale,
partecipi, nel bene e nel male, della sua storia, portatori non solo
passivi della sua strategia, della sua cultura, della sua epica e
della sua disumanità. E ciò per oltre due decenni (altro che anni
di piombo!), fino a quando, finita la seconda guerra mondiale, l'uno
e l'altro intraprendono la ricostruzione del partito comunista in
Italia, sperimentando la sua lenta fuoriuscita da quella tradizione,
il suo superamento nella continuità. E' una ricerca di un guadagno
di autonomia, ora cauto e paziente, ora più franco e aperto (come
nella crisi del 1956); mantenere una scelta di campo inalterata,
senza cercare rotture, ma con gesti di autonomia sempre più decisi,
come al tempo del Memoriale di Yalta, che l'uno scrisse poco
prima di morire e l'altro pubblicò senza attendere il consenso dei
dirigenti sovietici (1964).
"Unità nella
diversità", si diceva, e questa formula per qualche tempo
sembrò flessibile e sottile, ricca di risultati, più di quanto le
sue intime contraddizioni non consentissero nel lungo periodo.
Berlinguer entra nel Pci nel 1943. E' l'anno della caduta del
fascismo, dell'inizio della Resistenza, ma è anche l'anno dello
scioglimento della III Internazionale. Una coincidenza puramente
casuale, ma come non scorgervi un nesso in qualche modo simbolico? Si
noti, la seconda generazione di comunisti era giunta al partito
intorno al 1928 e al VI congresso dell'Internazionale comunista (è
il caso, per esempio, di Giorgio Amendola); la terza generazione vi
giunse dopo il VII congresso, con la politica di Fronte popolare e la
guerra di Spagna (è il caso mio, di Lucio Lombardo Radice, di Paolo
Bufalini e di tanti altri). La quarta generazione (quella di
Berlinguer) lo farà al momento dello scioglimento del Comintern,
entrando contemporaneamente nella Resistenza.
Per la formazione
politica di Berlinguer la politica di unità nazionale ha un valore
decisivo, è un dato originario, non relativizzato dalle precedenti
svolte tattiche del Comintern, quindi un dato assoluto. La prima
generazione comunista post-internazionalista vive un processo di
maturazione che è essenzialmente resistenziale-nazionale. Si capisce
che essa può felicemente e fiduciosamente identificarsi con il
"Partito nuovo" di Togliatti, con la grande prospettiva,
caduto il fascismo, di ricostruire il paese in uno sviluppo
democratico e, se possibile, progressivo. Berlinguer in quegli anni,
alla testa del movimento giovanile comunista, esprime fedelmente
questi orientamenti ed ideali, non senza alcune accentuazioni, forse
solo culturali, di derivazione gramsciana.
Naturalmente, alla base è
come connaturata una forte scelta di campo: essere comunisti
significa essere dalla parte dell'Unione Sovietica, senza riserve.
Almeno fino al 1956. Solo dopo questa data la "unità nella
diversità" cominciò ad indicare il difficile e ancora non
esplorato percorso per la fuoriuscita dallo stalinismo e per il
superamento del legame di ferro con l'Urss. Berlinguer percorre tutte
queste tappe non senza travaglio, non senza l'assillo della
intangibile continuità. Leggete il suo intervento al tempestoso VIII
congresso del partito (dicembre 1956). Fino al 1968-1969 la sua linea
nei confronti dell'Unione Sovietica è fedelmente quella di
Togliatti, i suoi testi sono l'intervista a "Nuovi Argomenti"
sullo stalinismo e il Memoriale di Yalta, ma in questo periodo
egli è ancora relativamente in ombra. Sarà soltanto nel giugno
1969, alla Conferenza dei partiti comunisti e operai tenutasi a Mosca
(che fu l'ultima conferenza "mondiale" di questo tipo), che
Berlinguer emerge improvvisamente esponendo la linea di dissenso
pressoché totale e il rifiuto di votare i tre quarti della
risoluzione proposta, da parte del Pci.
L'uomo (da pochi mesi
egli è già a fianco di Longo) emerge improvvisamente come un leader
di levatura internazionale, coraggioso e misurato insieme,
rappresentante di un grande partito che, dopo l'invasione della
Cecoslovacchia, trova ormai inadeguata la formula della "unità
nella diversità" e contesta l'identità fra la politica di
potenza e i confini del socialismo. Tuttavia, il limite della
posizione del Pci, esposta da Berlinguer, consisteva nel non chiarire
che le cause del dissenso investivano i princìpi stessi
dell'internazionalismo comunista, sia nella concezione del "modello"
socialista, sia la strategia rivoluzionaria e le sue forme
diversificate in differenti paesi. Dovranno trascorrere 11 anni e ci
vorrà il colpo di stato militare in Polonia perché questi problemi
vengano affrontati senza reticenze nei loro contenuti, risalendo alle
origini, ai limiti organici ormai paralizzanti del movimento
rivoluzionario scaturito dalla Rivoluzione d' Ottobre.
Qui si è espressa nel
modo più avanzato la capacità innovativa di Berlinguer di fronte ai
tabù più oppressivi della tradizione del movimento comunista, la
cui rimozione egli aveva tenacemente preparato negli anni precedenti,
portando avanti l'audace (ma finora sfortunata) iniziativa
eurocomunista. Ma rimuovere i tabù è sufficiente per ridonare
"forza propulsiva" al movimento comunista? Tenterò più
avanti di dare una risposta a questo interrogativo, intanto mi preme
ricordare che anche sul piano della politica interna, Berlinguer nel
corso degli anni 70 (dal 1972 era succeduto a Longo come segretario
del partito) seppe fornire un notevole sforzo di invenzione
strategica, alludo alla proposta del "compromesso storico",
di chiara derivazione gramsciana (il "blocco storico") e
togliattiana (l'alleanza con i cattolici come asse). In realtà, una
armonica fusione fra queste due componenti non si avverò mai nella
pratica e il prevalere della seconda, dopo aver permesso spettacolosi
guadagni elettorali nel periodo più acuto della crisi della
Democrazia cristiana (1975-1978), naufragò nel collaborazionismo
subalterno del periodo della "solidarietà nazionale". Fu
un grave errore, forse dovuto ad un eccesso di fiducia nelle proprie
forze, nella capacità del partito di destreggiarsi con successo pur
senza stare né al governo né all'opposizione. Anche se non possiamo
sapere quale sarebbe stato lo sviluppo degli avvenimenti senza
l'assassinio di Aldo Moro, è certo che già nella primavera del 1978
nell'area di influenza del partito e nelle sue file si erano
largamente diffusi malcontento e delusione per l'evidente
insabbiamento della politica di "solidarietà nazionale",
mentre nell'insieme della sinistra, specialmente nel partito
socialista, era cresciuta diffidenza e ostilità verso la politica
comunista.
Dopo l'insuccesso nelle
elezioni del 1979, tardiva e nervosa fu la rettifica. Fu questo
certamente il periodo più difficile e travagliato della direzione di
Berlinguer: meccanica e semplicistica doveva apparire la nuova svolta
dell'"alternativa democratica", tanto più in quanto la
necessaria unità a sinistra appariva non credibile a causa della
nuova, aggressiva, concorrenzialità socialista. Sempre più
chiaramente cominciò a profilarsi, per la prima volta, per il
partito l'apertura di un periodo di declino. Un fenomeno temporaneo,
contingente o una inversione di tendenza, l'apertura di una nuova
fase storica, in relazione con i mutamenti profondi intervenuti
nell'economia, nella società, nel costume? Il partito non era forse
rimasto indietro rispetto alla rapidità del cambiamento? Non
avveniva forse questo sotto l' influenza di altre forze politiche e
sociali? Non si profilava il pericolo di una perdita di egemonia?
Questi interrogativi sono stati certamente nelle riflessioni di
Berlinguer in questi ultimi anni. Spezzoni di risposte sono venuti
dalla ricerca e dall'attività pratica del partito, ma sono mancati
disegni coerenti, flessibilità tattica, prospettiva strategica. La
difficoltà della situazione si è manifestata in scarti,
oscillazioni, punte febbrili, fino a quando il partito è stato
costretto alla inevitabile battaglia d'arresto della lotta contro il
decreto sulla scala mobile. Possiamo intuire il logorio determinato
dall'asprezza di quello scontro, lo sforzo supremo di fare appello
alla radice sociale delle forze di classe più sicure, senza chiudere
le aperture verso il futuro, raccogliere e conservare l'essenziale
delle proprie forze nell'urto ravvicinato e guadagnare il tempo e il
fiato necessario per riprendere il cammino guardando più lontano,
questo deve essere stato l'assillo dei suoi ultimi giorni. Gli è
stata imposta l'eredità più pesante: traversare senza perdite il
guado imposto al movimento comunista dalla storia e affrontare con
audacia e fino in fondo la grande mutazione e l'incontro con le più
avanzate socialdemocrazie dell'Occidente; ovvero ripensare l'identità
comunista, guardando alle nuove contraddizioni dell'universo
capitalistico. Nell'un caso e nell'altro i tabù dovevano essere
totalmente distrutti, la rottura con la tradizione sarebbe stata
completa, ma il rischio del non decidere sarebbe stato fatale, una
tragica aporia, un declino inevitabile. E' di fronte a questa
alternativa che il coraggio, la forza morale, la fedeltà agli
ideali, il senso storico di Berlinguer, insieme e anche in
contraddizione fra di loro, hanno forse esitato. E' questo il bivio
sul quale il dramma lo ha sorpreso.
“la Repubblica”, 12
giugno 1984
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