L'articolo risale a quasi
un decennio fa (novembre 2005), al tempo del trentennale pasoliniano,
ma quella tendenza che allora si verificò in maniera eclatante
continua a percorrere l'Italia acculturata, sicché le cautele di
Frabotta, al di là delle singole affermazioni talora discutibili, mi
sembrano tuttora attuali. (S.L.L.)
Io credo che ciò che sta
accadendo intorno al nome di Pier Paolo Pasolini in occasione del
trentennale della sua morte, meriti una riflessione. Enzo Siciliano
su “la Repubblica” del 2 novembre scrive che l'enfasi mediatica
che ingigantisce questo evento, rischia di travolgere la sostanza
vera della presenza di Pasolini nella nostra cultura. Ha senza dubbio
ragione. Il giorno prima, a Roma, in un Teatro Argentina gremito fino
all'inverosimile aveva detto qualcosa di simile. Pasolini anche per
lui costituisce ormai un mistero. Non si riferisce alla morte del suo
amico, ancora oggi ammantata di bugie e reticenze. Ma alla sua vita,
al senso vero della sua opera.
Cosa rappresenta Pasolini
nel mondo di oggi, nell'Italia di oggi, fra i giovani che - posso
testimoniarlo almeno come docente - leggono da più di venti anni
quasi solo le sue poesie, fra i tanti ottimi poeti del nostro
Novecento? Che relazione c'è fra questo ormai incipiente culto, di
origine certamente non solo televisiva, e il complesso messaggio
pasoliniano che, più di altri, richiederebbe una glossa incessante,
una puntigliosa esposizione di pro e di contro, una continua
discussione, e proprio per non inciampare nelle trappole delle sue
acutissime metafore, dei suoi micidiali, stupendi, quanto pericolosi
paradossi?
Molti sono stati chiamati
in questi giorni ad assolvere a questo compito. A portarne, come si
dice, il peso della testimonianza. Ma chi può oggi testimoniare sul
senso vero di questo diffuso, inedito pasolinismo di massa,
impensabile nei giorni del ventennale o del decennale della sua
morte?
È come se il "problema
Pasolini", il valore della sua poesia, la sua fame di realtà,
il suo volto, la sua protesta, le sue denunce, la sua morte violenta,
si fossero ormai scollati dai ricordi di chi lo conobbe, dal sapere
di chi ne ha raccontato le vicende, dalla perizia di chi ha raccolto
e studiato le ventimila pagine delle sue opere, o restaurato i suoi
film, o vagliato, cercando di smascherarle, le ricostruzioni
"ufficiali" del suo assassinio.
Giustamente Siciliano
esorta a leggerne i libri e a non banalizzarne il pensiero,
riducendolo a logo, a santino e se rievocando l'ultimo loro incontro
a stento riesce a frenare la commozione, forse è anche per via del
timore di perdere per sempre nel replicarsi della copia, la memoria
dell'originale e dunque la consolazione del congedo. Ma è come se un
altro mistero si stesse compiendo nel corso di questo sminuzzamento,
di questa polverizzazione delle parole e delle immagini pasoliniane
in centinaia di manifestazioni pubbliche, letture, messe in scena,
brutte o belle che siano, approssimative o specializzate, doc o un
po' bastarde, ma sicuramente sparse su tutto il territorio nazionale
e tutte premiate da una partecipazione attenta, silenziosa, per non
perdere il barlume di verità che può emergere ai margini, magari,
di questo vortice celebrativo. O del suo consueto controcanto di
insulti, o sarcasmi.
Certo è che sulle facce
della gente che concorre e corre a questi riti (tutt'altro che
ritualistici) pare di scorgere una voglia strana, non fanatica, non
volgare, anzi discreta, pudica, mai retorica: poter disporre di una
verità, inutile, magari, come quella giudiziaria trent'anni dopo gli
avvenimenti, o quella della poesia appunto, inutile per definizione.
Penso, guardando questi volti, all'impalpabile verità dei volti
anonimi cui alludeva Lévy, discutendo del pensiero di Pasolini e
della sua aspirazione a rappresentare l'irrapresentabile. Vi sta
fissato un desiderio di chiarezza, almeno su un punto, un punto solo,
magari, ma netto, limpido, spogliato di ogni menzogna. E in questi
occhi attenti mi pare che i sinistri bagliori di Salò o di Petrolio,
o della Nuova gioventù, insomma i paradigmi della tetra profezia
dell'ultimo Pasolini, con una bizzarra e imprevista metamorfosi, si
vadano in questa occasione riaccendendo in guizzi piuttosto di
"disperata vitalità".
Forse nessuno saprà più
raccontare cos'è stato il vero Pasolini. Ad ognuno ne spetterà
magari poco più di un pezzetto. Ma del resto cosa ne sarebbe stato
di Orfeo, se non fosse stato fatto a brani dalle Baccanti? Egli aveva
soltanto la lira, racconta il mito, con la quale inutilmente cercò
di difendersi, mentre cadeva a terra e le sue membra venivano sparse
in tutte le direzioni.
Novembre 2005 per il
premio Pasolini, poi in “Fili d'aquilone”, rivista on line, n.1
gennaio-marzo 2006.
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