L'articolo, pubblicato
nelle pagine culturali di “Repubblica”, risale a quasi trent'anni
fa con il titolo, ma i problemi che pone restano tutti aperti,
nonostante molti scavi, scoperte, studi. (S.L.L.)
Omero, nell'VIII secolo
a.C., descrisse un mondo, un codice d'onore, un complesso di costumi
che, ai suoi tempi, erano già dileguati da 400 anni almeno, come
fece l'Ariosto con le gesta di Orlando. Dal catalogo degli eroi e
delle loro navi - Agamennone ne aveva 100, Achille 50, Ulisse
soltanto 12, - dalle armi, dalle suppellettili, da tutto il
comportamento dei guerrieri si direbbe che essi, sovrani ciascuno
nella sua piccola reggia, appartenessero a una cultura uniforme dal
punto di vista etnico e linguistico e che l'affronto fatto a uno di
loro li avesse spinti a muovere dalla Grecia continentale e dalle
isole dello Jonio e dell'Egeo per vendicarlo; o, secondo una versione
più realistica, per assicurarsi la navigazione sui Dardanelli.
L'omogeneità di stirpe e
di istituzioni, quale risulta dalla cultura detta "dei palazzi",
fu dimenticata durante una eclissi che durò più o meno dal XII
all'VIII secolo: il cosiddetto Medioevo greco. A provocarla fu una
catastrofe che rovesciò quelle dinastie feudali e distrusse le
residenze dei re (o erano sacerdoti?) di cui restano le rovine a
Cnossos, a Micene, a Pilos. Ad onta delle differenze nei regimi e nei
dialetti, col tempo l'uniformità fu ricostruita tra le città,
cementata dagli incontri ginnici e diplomatici di Olimpia, dai culti
comuni a Delfi, a Eleusi, a Epidauro, dalle guerre combattute insieme
(e instancabilmente celebrate) contro i Persiani. Finì per diventare
superba consapevolezza della propria identità etnica: le opere
d'arte, figurative e letterarie, non dicono che questo. Nella
tragedia di Euripide, Ifigenia accetta volentieri d' esser
sacrificata come vittima propiziatoria affinché Artemide conceda
vento propizio alle navi degli Achei: è loro, di diritto, la
vittoria e il dominio, per la superiorità culturale che possiedono
sugli altri popoli: "Degli Elleni - essa dice - è propria la
libertà, dei barbari il servire".
Cent' anni dopo,
Aristotile, precettore d' un greco d'elezione, Alessandro il
Macedone, ammoniva il suo discepolo di trattare i Greci da uomini,
gli altri popoli alla stregua di animali privi della ragione. Ma chi
erano, da dove venivano questi famosi Greci che non si chiamano con
un solo nome - come gli Etruschi, i Fenici, i Romani - ma con molti e
diversi, Achei, Danai, Elleni, Pelasgi, mentre le loro aree culturali
e le fasi della loro civiltà si distinguono in cicladica, cretese,
micenea, elladica, ellenica, dorica, jonica, ecc? E' l'interrogativo
al quale hanno cercato di rispondere studiosi di molti paesi
convenuti a Roma nell'aprile del 1983 per un congresso, durante il
quale hanno sviscerato il problema da ogni angolo possibile. Le
relazioni pronunciate in quella sede - "Atti" che di solito
figurano in raccolte accademiche da consultare nelle biblioteche
specialistiche e non in volumi offerti in vendita ai profani - sono
ora pubblicate da Laterza, a cura di Domenico Musti, in un volume di
414 pagine: Le origini dei Greci. Dori e Mondo Egeo, lire
55.000. Il fine del convegno, come della successiva pubblicazione,
scrive Musti nell' introduzione, non è stato di esporre "conclusioni
univoche"; ma piuttosto di comunicare "opinioni argomentate
e diverse tra loro"; il lettore può confrontarle, misurarne la
validità, trarne, se ci riesce, le sue conclusioni, sempre che
riesca a orientarsi e, se non altro, "fare il punto" sulle
questioni essenziali.
Noi non possiamo, come
faceva Omero, invocare le Muse - erano figlie, si noti, di Mnemosyne,
la Memoria - per conoscere tutta la verità sul passato: "Voi,
dee, tutto sapete / Noi la fama ascoltiamo, ma nulla vedemmo".
Non disponiamo di archivi, di registri, di documenti, di annali su
epoche tanto remote. Come in tutte le indagini, si procede
aggrappandosi a indizi, a confronti con altri indizi d'altri paesi, a
tracce archeologiche, a frammenti di ceramica, a dati linguistici,
toponomastici e, soprattutto, a ipotesi. Si cerca di appurare che
cosa c'è di vero nella notizia, già messa in dubbio nel secolo
scorso, che la distruzione dei palazzi da Creta al Peloponneso sia
avvenuta per l'irruzione massiccia d' un popolo rude e guerriero che
sarebbe calato dal Nord: i Dori. Essi avrebbero imposto la lingua, i
loro dèi olimpici, maschilisti e tracotanti; relegate le donne nei
ginecei, avrebbero costretto i signori d'un tempo alla vanga e all'
aratro. Le devastazioni, la miseria, lo spopolamento avrebbero
soffocato quello spirito che negli antichi palazzi aveva creato un
sistema di produzione controllata, una rigorosa amministrazione
centralizzata, opere d'arte squisite, un'architettura, una religione.
Ma non lo spensero. Dopo secoli di silenzio, l'anima dei popoli
oppressi risorse in forme stupende: la ceramica di stile geometrico,
l' epica, i primi interrogativi sull'universo e sull'uomo.
A questa versione
tradizionale sono state opposte obiezioni autorevoli e fondate. Forse
non andò così. "L'archeologia rivela catastrofi" - scrive
Moses Finley nel lucido volumetto La Grecia dalla preistoria
all'età classica - "ma non può dirci quali ne furono le
circostanze e i protagonisti". Non ci si discosta molto da
questa affermazione. Archeologia e linguistica, efficaci ausiliarie
della storia, non provano l'improvvisa irruzione di genti nordiche,
portatrici d'una propria cultura; e nemmeno invasioni a ondate
successive. Forse furono soltanto lente, graduali infiltrazioni di
genti che riuscirono a prevalere sugli abitanti perché i regimi
aristocratici erano già indeboliti (a seguito della prolungata
assenza dei re nella guerra di Troia?) o addirittura caduti per
catastrofi naturali o rivoluzioni. Le caratteristiche linguistiche,
istituzionali, religiose che si usa distinguere con il nome di
"doriche", riscontrate in molte regioni della Grecia,
potrebbero essere il frutto di evoluzioni spontanee, verificatesi per
diversi condizionamenti storici; i dialetti, a loro volta, possono
essere il parlato del popolo, che finisce sempre per prevalere, come
il "volgare" sul latino, il valzer sul minuetto, il jazz
sulla sinfonia. Era certamente diverso dalla lingua dei signori e
dalle formule usate dagli scribi: questi registravano le materie
prime assegnate ai lavoratori, i prodotti finiti resi a palazzo, i
compensi in generi alimentari corrisposti a una mano d'opera composta
principalmente di donne e bambini. Tale è il contenuto delle famose
tavolette d'argilla coperte di quella scrittura che è detta Lineare
B. Ormai sono state rinvenute a migliaia. Non contengono leggi, né
testi liturgici, né trattati, né carmi. Il fuoco degli incendi le
ha preservate, cuocendole, e sono arrivate intatte fino a noi. La
prodigiosa decifrazione di quei rendiconti da contabile ha stimolato
molte illazioni interessanti: da quella scrittura sillabica è stato
possibile arguire l'esistenza d'una mano d'opera specializzata nelle
mansioni relative alla lavorazione della lana, dei metalli,
dell'agricoltura, il perfetto funzionamento d'un sistema
centralizzato, d'una organizzazione politica ed economica che è la
stessa, o fortemente simile, in tutti i palazzi.
Uno dei saggi più
stimolanti del volume è quello di Anna Sacconi: dall'esame di questi
elenchi - che rispecchiano "il quotidiano" di pochi giorni,
gli ultimi del palazzo di Pilos - la studiosa ha riscontrato una
serie di misure d' emergenza che permettono di supporre nei dirigenti
la consapevolezza o il timore d' un pericolo incombente: sono
provvedimenti da preallarme, preparativi per la difesa. Si dispongono
guardie costiere lungo una costa di 150 km, si ordina di riparare
armature, elmi, pugnali, carri, si requisisce persino il bronzo dei
templi, si concede esonero fiscale ai 270 fabbri attivi nella
comunità. Se ne può dedurre scarsità di metalli, dovuta a
insicurezza nelle rotte commerciali. E' lecito desumere da questi
dati l'imminenza d' una invasione dal mare? Forse avvenne. Ma la
Sacconi conclude che non ne esistono prove certe e non è
dimostrabile l'insediamento d'un diverso elemento etnico. Dei famosi
Dori, del resto, non si conoscono tracce culturali antecedenti la
loro presenza nei luoghi altamente civili dove regnava la cultura del
palazzo e che possono esser stati sconvolti non dagli invasori ma da
terremoti, da alluvioni, da incendi o da rivoluzioni sociali. E' una
storia irta di "forse"; il metodo scientifico più
rigoroso, la più vasta dottrina procedono di pari passo con
l'immaginazione. Tra le disquisizioni su forme verbali, dittonghi,
accenti, su tecniche costruttive e materiali usati, su riti funerari
e nomi di monti e fiumi, lampeggiano le cripto-verità dei miti, che
parlano del ritorno nel Peloponneso dei discendenti di Eracle. Una
sola certezza emerge: quel sistema feudale raffinato, minuzioso,
oppressivo crollò, non sappiamo come né perché. Dopo chissà quali
devastazioni e sofferenze su quelle rovine fiorì la civiltà che
chiamiamo greca, nacquero Omero e Talete.
“la Repubblica”, 20
aprile 1985
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