29.6.14

Parla Francesco Cataluccio: la Polonia e molto altro (Gabriele Catania)

"In Italia uno può vantarsi di non capire nulla di matematica. Dobbiamo sbarazzarci di quest’idea crociana nefasta che la cultura scientifica sia cultura di serie B". Nell'intervista che segue, rilasciata a Gabriele Catania lo scrittore Francesco Cataluccio racconta, tra l'altro, il suo amore per la cultura polacca cui come europei dobbiamo tanta arte e tanta scienza, per esempio l'invenzione della forma letteraria del saggio. L'articolo è un po' lungo ma ricco di curiosità e di stimoli intellettuali. (S.L.L.)
Francesco Cataluccio
Chi si addentra in un libro di Francesco Cataluccio non può che restare sbalordito dalla cultura di un autore che sembra aver passato tutta la sua vita viaggiando, leggendo e incontrando personaggi interessanti. Uno dei suoi testi più belli, Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio), è un piccolo tesoro letterario, un vero labirinto di erudizione. 369 pagine densissime, tra le quali è incantevole perdersi, tra aneddoti sulla storia polacca e ricette della cucina armena; versi del Nobel Miłosz e descrizioni di Baku e Vilnius; ghiotte etimologie di Giovanni Semerano e riflessioni sulla spiritualità nel cinema di Tarkovskij; ricordi di un viaggio in Argentina con Kapuściński e digressioni su un quadro del Perugino esposto al Louvre. Allo stesso tempo, però, il libro è un pellegrinaggio nella memoria di una Mitteleuropa martoriata dalla storia, accompagnato dalla leggenda ebraica dei 36 Giusti che, spesso senza saperlo, salvano il mondo.
Dopo aver letto un libro così, uno potrebbe immaginarsi l’autore come un ibrido tra Bruce Chatwin e Umberto Eco. E invece Cataluccio è un signore alto e gentile, dalla risata profonda e il marcato accento toscano. Somiglia un po’ all’attore Jeffrey Tambor, noto in Italia grazie al brillante telefilm Arrested Development. Ma ancor più dei tratti somatici, con l’attore americano Cataluccio ha in comune l’autoironia. E infatti se gli si chiede dei suoi libri e dei suoi viaggi per mezza Europa, si schernisce: «Ho solo avuto la fortuna di vedere posti strani, conoscere gente strana, parlare una lingua strana. Se non avessi studiato polacco quando ero giovane, chissà che ne sarebbe stato di me…»
Ma in 58 anni Cataluccio non si è accontentato di apprendere una delle lingue più difficili del pianeta, macinare chilometri e scrivere pagine su pagine. Ha conosciuto bene l’editoria italiana: prima come redattore alla Feltrinelli, poi come direttore della Bruno Mondadori e della Bollati Boringhieri. E oggi è responsabile dei programmi culturali di quell’istituzione insolita (per l’Italia) che è la Frigoriferi Milanesi, ex “fabbrica del ghiaccio” convertita in spazio artistico e culturale.
“Pagina99” lo intervista a Venezia, a un tavolino di un bar del Ghetto Nuovo, in un’uggiosa giornata, con pochi turisti per le strade e l’aria intrisa di Adriatico. Il luogo dell’incontro non è casuale: Cataluccio è un profondo conoscitore della cultura ebraica, e un grande amante di Venezia. Le altre città del suo cuore sono Varsavia, dove ha vissuto tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Ottanta, e la natia Firenze. «La mia passione per la Polonia è nata a Firenze, grazie al teatro. Quando ero studente si teneva lì, tutti gli anni, uno splendido festival teatrale. Io ci andavo con gli amici, e ogni volta mi accorgevo che i teatri più interessanti che partecipavano erano quelli polacchi: facevano delle cose straordinarie, di una grandissima modernità.»
A detta di Cataluccio, i polacchi hanno sempre tenuto in massima considerazione il teatro, ritenendolo un’opportunità fondamentale di riflessione collettiva. «Un po’ come gli antichi ateniesi, per i quali era addirittura un momento di catarsi: tragedie come “Le baccanti”, o “Le troiane”, li aiutavano a riflettere non solo sui destini dell’uomo in generale, ma su quelli storici della loro comunità. Non a caso il ’68 polacco fu scatenato, in prima battuta, da una decisione della censura di impedire all’ultimo minuto uno spettacolo teatrale, Gli Avi, di Mickiewicz: si trattava di un testo scritto in pieno Romanticismo, e conteneva accenti anti-russi, dato che allora una grossa porzione della Polonia era sotto lo zar. La censura bloccò la rappresentazione, e scoppiarono le prime manifestazioni. Perché per i polacchi il teatro non deve mai morire.»
L’amore dei polacchi per il teatro avrebbe le sue radici nell’amore, ancora più profondo, per l’arte di raccontare. «È gente che ama stare attorno a un tavolo, con il camino acceso, mangiando, bevendo vodka e raccontando storie. L’idea di letteratura come racconto di vicende, magari anche divagando, è nata proprio in Polonia. Dal Manoscritto trovato a Saragozza, ai racconti di Bruno Schultz, quella polacca è una civiltà fortemente basata sulla narrazione. – sottolinea – Mi riferisco non solo ai grandi romanzi, ma alla saggistica… i polacchi sono i veri eredi di Montaigne, hanno inventato quella forma letteraria che è il saggio. E il saggio, come dice la parola stessa, è appunto una prova, un tentativo. Tanto è vero che gli Essais di Montaigne sono stati tradotti, in polacco, come “tentativi”. Il mondo è un caos, ma si cerca comunque di interpretarlo, andando a tentoni, saggiando il terreno. Per rendere efficace questa ricerca, questa navigazione a vista, occorre trovare una forma letteraria alta. Per questo già alla fine dell’Ottocento i polacchi si inventano il saggio: il testo breve, scritto molto bene, che rende appetibile un argomento scientifico, sociologico, filosofico, storico…»
Dal saggio al reportage “alla polacca”, il passo è breve. I reporter polacchi hanno imparato a raccontare la realtà usando anche il grimaldello della letteratura. Come ha spiegato in un recente numero di “Internazionale” il giornalista e scrittore polacco Mariusz Szczygieł, “da centoventi anni viene coltivata nel nostro paese una narrativa di taglio documentaristico che chiamiamo reportage letterario. Gli autori possono ricorrere a tutti i mezzi artistici degli scrittori, tranne uno: non possono inventare niente. La storia che raccontano deve essere vera”. E se si parla di reportage, non si può non parlare di Ryszard Kapuściński, che come corrispondente dell’agenzia PAP girò mezzo mondo scrivendo di guerre, rivoluzioni e colpi di stato, dall’Angola al Guatemala.
«Kapuściński si definiva prima di tutto uno scrittore, un poeta. – racconta Cataluccio – Per me lui è stato un grande maestro. L’ho conosciuto quando lavoravo alla Feltrinelli, fu uno degli autori polacchi che proposi di pubblicare. Veniva spesso in Italia, e diventammo amici. Da lui ho imparato a guardare il mondo con curiosità. Quando si è giovani si è curiosi, ma a intermittenza, e inoltre si è poco tolleranti, si crede di saper tutto, e pertanto ci si approccia alla realtà in un modo dogmatico. Invece bisogna essere curiosi senza preconcetti, in modo da cogliere la realtà in tutta la sua ricchezza e complessità.»
Quando parla di Polonia e dei suoi amici polacchi, Cataluccio parla con entusiasmo e trasporto contagiosi. Ricorda gli anni passati a Varsavia, quel primo freddo inverno del 1977, e la scoperta di una città dove si trovava “come un topo nel formaggio”, e dove ancora oggi si trova come a casa. «Mi sono laureato in filosofia in Italia, ho avuto degli insegnati straordinari. Ma poi sono andato in Polonia, ed è stata quella la mia vera università.» Definisce la nazione centroeuropea «il paradiso delle contraddizioni. Là si può trovare davvero tutto e il contrario di tutto. Non a caso il francese Jarry, autore di quel testo capostipite del teatro dell’assurdo che è Ubu re, scrisse che la sua opera era ambientata in un luogo assurdo, cioè la Polonia. E in effetti quando vivevo lì, nelle lettere che scrivevo ad amici e familiari cercando di descrivere il mondo in cui mi trovavo, dicevo che se un giorno fossi uscito per strada e avessi visto un tram cominciare a volare, non mi sarei stupito. È un posto dove non ci si deve stupire di niente».
È un paese fragile, la Polonia. Dove la storia «ha picchiato forte. Non a caso i polacchi sono malati di storia, a Varsavia ogni dieci metri c’è una targa, e si continuano a costruire musei. Le ferite lasciate lì dalla Seconda Guerra Mondiale sono inimmaginabili. L’Olocausto ha spazzato via quasi il 10% della popolazione. E la durezza della guerra spiega anche perché la gente, dopo il 1945, non volle aprire un nuovo fronte contro i sovietici, e si rassegnò al comunismo».
Cataluccio cita Norman Davies, autore di God’s Playground” (Oxford University Press), uno studio sulla storia polacca tanto corposo quanto insuperato. «Al centro del continente, la Polonia si è trovata schiacciata tra mondi diversi: la Russia, l’Austria, la Prussia/Germania. Paese variegato, dove per secoli hanno convissuto cattolici, protestanti, ebrei e ortodossi, nel 1600 si estendeva dal Mar Baltico al Mar Nero, e meritava davvero l’appellativo di Grande Polonia. Tutta questa eterogeneità era foriera di scontri, lutti, di una debolezza di cui i vicini si approfittavano. Ma anche di una grande vivacità e ricchezza culturale».
Se la Polonia del XVI secolo (o meglio: la Confederazione polacco-lituana) poteva essere definita “asilo degli eretici” per la sua tolleranza religiosa in un’era di guerre confessionali, quella contemporanea non rappresenta certo un modello per il resto del mondo. Come altri paesi europei, è invece scossa da ondate populiste e fremiti xenofobi. «Ce lo insegna un pensatore polacco, Zygmunt Bauman: si tratta di fenomeni connaturati con la modernità, sono le sue scorie, i suoi residui».
La barbarie della guerra prima e i rigori del comunismo poi, spinsero molti intellettuali a riparare all’estero. Una diaspora che impoverì la Polonia, ma infuse nuova linfa a tutto il pensiero occidentale. «Pensi, quando l’Einaudi, in risposta alla Garzanti, mise in cantiere la sua Enciclopedia, un’impresa che fu una catastrofe dal punto di vista editoriale ma ebbe un grandissimo rilievo culturale, si dotò di un comitato scientifico e di un parco di collaboratori internazionale, all’altezza della sfida. E la cosa interessante è che un terzo di costoro erano polacchi. La voce “Tempo”, per esempio, la fece Pomian, un filosofo polacco emigrato in Francia; alla voce “Povertà” lavorò Geremek, e così via…».
Il ritorno alla democrazia ha dato nuovo slancio alla cultura polacca. Che può contare su un pubblico attento. «I polacchi sono gente istruita, acculturata, che legge libri, va al cinema e al teatro. Ed è questa una delle maggiori risorse della Polonia contemporanea: la sua forza-lavoro preparata, ben istruita. Retaggio, pure, del sistema educativo comunista: una delle poche, pochissime luci di un regime con molte ombre».
Per Cataluccio è difficile sottovalutare l’importanza della scuola, e della cultura. Che «deve sempre essere critica, mai conferma dell’esistente. L’intellettuale non deve solo trasmettere il sapere, deve spaccare il capello in quattro. Quando il sole splende, deve ricordare che poi tramonterà. Il suo primo compito è essere critico». E oggi essere critici significa riconoscere l’immaturità che dilaga, a tutti i livelli, nella nostra società. «La nostra cultura occidentale è ormai fondata sull’imperativo di apparire giovani, fare i giovani, pensare da giovani. La gioventù è sempre un valore, la vecchiaia un disvalore. Pensiamo soltanto all’ubiquità della chirurgia estetica. I messaggi che anche i media veicolano sono tutti contrari alla maturità. Lo aveva capito, tempo fa, Witold Gombrowicz. Lui, che pure era innamorato della bellezza della gioventù, aveva inquadrato la pericolosità di questo fenomeno, il mito del non-crescere».
E proprio Immaturità è il titolo di un saggio che Cataluccio ha pubblicato con Einaudi nel 2004. Questa “malattia del nostro tempo” ci ha trasformato in Peter Pan che inseguono la libertà a tutti i costi, pronti a scansare ogni responsabilità, si chiami essa “matrimonio”, “figli” e così via. «Un altro Peter Pan, legato però alla Polonia, è Oskar Matzerath, protagonista del Tamburo di latta di Günter Grass. Oskar vive a Danzica, nel periodo tra le due guerre, e poiché è disgustato dal mondo degli adulti, che è brutto e pieno di ipocrisie, decide di non crescere».
Se però gli si obietta che molti giovani italiani “si rifiutano” di crescere non per loro colpa, ma perché la situazione economica e sociale è quella che è, Cataluccio annuisce: «Dietro il giovanilismo imperante si cela la gerontocrazia. Ma non è tanto un problema generazionale, quanto culturale. In Italia domina ancora la logica del clan, del familismo amorale. Siamo diventati un paese ingiusto e immobile, di rentier, di gente che preferisce fare i soldi affittando case piuttosto che lavorando».
Un insegnamento del grande storico Witold Kula, maestro di Bronisław Geremek, aiuta a capirne di più. «Lui era uno storico del feudalesimo, e riteneva che non si potesse fare storia senza un modello, senza elaborare delle leggi. Nel suo libro Teoria economica del sistema feudale, edito qui in Italia da Einaudi, enunciava una legge di cui spesso gli storici non tengono conto: la caparbietà con cui gli esseri umani cercano di mantenere il loro status. Se si tratta di migliorare la propria condizione sono tutti disponibili, ma nel caso opposto le cose cambiano».
Cosa ci potrà salvare, dunque? La risposta, insiste Cataluccio, si chiama scuola, cultura, scienza, arte. «Un ingegnere che conosce Euripide è migliore di un ingegnere che non lo conosce. Così come un letterato che padroneggia la matematica è migliore di uno che non ne sa nulla. In Italia, purtroppo, scontiamo proprio questo. – spiega, e cita l’esempio della casa editrice Bollati Boringhieri, che ha diretto. «Il suo fondatore, Paolo Boringhieri, aveva un obiettivo preciso: sbarazzarsi di quest’idea crociana nefasta che la cultura scientifica sia cultura di serie B. In Italia uno può vantarsi di non capire nulla di matematica. Negli ultimi decenni la nostra cultura ha avuto questo handicap, ma non è stato sempre così: ancora ai primi del Novecento, ad esempio, la facoltà di matematica e fisica di Palermo era una tra le più importanti del mondo. Abbiamo avuto fior fior di matematici, in passato, ma oggi il nostro sistema scolastico non sa più insegnare la matematica. E non dà neanche importanza alla musica, all’arte…».


“Pagina 99”, 15 marzo 2014

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