"In Italia uno può
vantarsi di non capire nulla di matematica. Dobbiamo sbarazzarci di
quest’idea crociana nefasta che la cultura scientifica sia cultura
di serie B". Nell'intervista che segue, rilasciata a Gabriele
Catania lo scrittore Francesco Cataluccio racconta, tra l'altro, il
suo amore per la cultura polacca cui come europei dobbiamo tanta arte
e tanta scienza, per esempio l'invenzione della forma letteraria del
saggio. L'articolo è un po' lungo ma ricco di curiosità e di
stimoli intellettuali. (S.L.L.)
Francesco Cataluccio |
Chi si addentra in un
libro di Francesco Cataluccio non può che restare sbalordito dalla
cultura di un autore che sembra aver passato tutta la sua vita
viaggiando, leggendo e incontrando personaggi interessanti. Uno dei
suoi testi più belli, Vado a vedere se di là è meglio
(Sellerio), è un piccolo tesoro letterario, un vero labirinto di
erudizione. 369 pagine densissime, tra le quali è incantevole
perdersi, tra aneddoti sulla storia polacca e ricette della cucina
armena; versi del Nobel Miłosz e descrizioni di Baku e Vilnius;
ghiotte etimologie di Giovanni Semerano e riflessioni sulla
spiritualità nel cinema di Tarkovskij; ricordi di un viaggio in
Argentina con Kapuściński e digressioni su un quadro del Perugino
esposto al Louvre. Allo stesso tempo, però, il libro è un
pellegrinaggio nella memoria di una Mitteleuropa martoriata dalla
storia, accompagnato dalla leggenda ebraica dei 36 Giusti che, spesso
senza saperlo, salvano il mondo.
Dopo aver letto un libro
così, uno potrebbe immaginarsi l’autore come un ibrido tra Bruce
Chatwin e Umberto Eco. E invece Cataluccio è un signore alto e
gentile, dalla risata profonda e il marcato accento toscano. Somiglia
un po’ all’attore Jeffrey Tambor, noto in Italia grazie al
brillante telefilm Arrested Development. Ma ancor più dei
tratti somatici, con l’attore americano Cataluccio ha in comune
l’autoironia. E infatti se gli si chiede dei suoi libri e dei suoi
viaggi per mezza Europa, si schernisce: «Ho solo avuto la fortuna di
vedere posti strani, conoscere gente strana, parlare una lingua
strana. Se non avessi studiato polacco quando ero giovane, chissà
che ne sarebbe stato di me…»
Ma in 58 anni Cataluccio
non si è accontentato di apprendere una delle lingue più difficili
del pianeta, macinare chilometri e scrivere pagine su pagine. Ha
conosciuto bene l’editoria italiana: prima come redattore alla
Feltrinelli, poi come direttore della Bruno Mondadori e della Bollati
Boringhieri. E oggi è responsabile dei programmi culturali di
quell’istituzione insolita (per l’Italia) che è la Frigoriferi
Milanesi, ex “fabbrica del ghiaccio” convertita in spazio
artistico e culturale.
“Pagina99” lo
intervista a Venezia, a un tavolino di un bar del Ghetto Nuovo, in
un’uggiosa giornata, con pochi turisti per le strade e l’aria
intrisa di Adriatico. Il luogo dell’incontro non è casuale:
Cataluccio è un profondo conoscitore della cultura ebraica, e un
grande amante di Venezia. Le altre città del suo cuore sono
Varsavia, dove ha vissuto tra la fine degli anni Settanta e i
primissimi anni Ottanta, e la natia Firenze. «La mia passione per la
Polonia è nata a Firenze, grazie al teatro. Quando ero studente si
teneva lì, tutti gli anni, uno splendido festival teatrale. Io ci
andavo con gli amici, e ogni volta mi accorgevo che i teatri più
interessanti che partecipavano erano quelli polacchi: facevano delle
cose straordinarie, di una grandissima modernità.»
A detta di Cataluccio, i
polacchi hanno sempre tenuto in massima considerazione il teatro,
ritenendolo un’opportunità fondamentale di riflessione collettiva.
«Un po’ come gli antichi ateniesi, per i quali era addirittura un
momento di catarsi: tragedie come “Le baccanti”, o “Le
troiane”, li aiutavano a riflettere non solo sui destini dell’uomo
in generale, ma su quelli storici della loro comunità. Non a caso il
’68 polacco fu scatenato, in prima battuta, da una decisione della
censura di impedire all’ultimo minuto uno spettacolo teatrale, Gli
Avi, di Mickiewicz: si trattava di un testo scritto in pieno
Romanticismo, e conteneva accenti anti-russi, dato che allora una
grossa porzione della Polonia era sotto lo zar. La censura bloccò la
rappresentazione, e scoppiarono le prime manifestazioni. Perché per
i polacchi il teatro non deve mai morire.»
L’amore dei polacchi
per il teatro avrebbe le sue radici nell’amore, ancora più
profondo, per l’arte di raccontare. «È gente che ama stare
attorno a un tavolo, con il camino acceso, mangiando, bevendo vodka e
raccontando storie. L’idea di letteratura come racconto di vicende,
magari anche divagando, è nata proprio in Polonia. Dal Manoscritto
trovato a Saragozza, ai racconti di Bruno Schultz, quella polacca
è una civiltà fortemente basata sulla narrazione. – sottolinea –
Mi riferisco non solo ai grandi romanzi, ma alla saggistica… i
polacchi sono i veri eredi di Montaigne, hanno inventato quella forma
letteraria che è il saggio. E il saggio, come dice la parola stessa,
è appunto una prova, un tentativo. Tanto è vero che gli Essais
di Montaigne sono stati tradotti, in polacco, come “tentativi”.
Il mondo è un caos, ma si cerca comunque di interpretarlo, andando a
tentoni, saggiando il terreno. Per rendere efficace questa ricerca,
questa navigazione a vista, occorre trovare una forma letteraria
alta. Per questo già alla fine dell’Ottocento i polacchi si
inventano il saggio: il testo breve, scritto molto bene, che rende
appetibile un argomento scientifico, sociologico, filosofico,
storico…»
Dal saggio al reportage
“alla polacca”, il passo è breve. I reporter polacchi hanno
imparato a raccontare la realtà usando anche il grimaldello della
letteratura. Come ha spiegato in un recente numero di
“Internazionale” il giornalista e scrittore polacco Mariusz
Szczygieł, “da centoventi anni viene coltivata nel nostro paese
una narrativa di taglio documentaristico che chiamiamo reportage
letterario. Gli autori possono ricorrere a tutti i mezzi
artistici degli scrittori, tranne uno: non possono inventare niente.
La storia che raccontano deve essere vera”. E se si parla di
reportage, non si può non parlare di Ryszard Kapuściński,
che come corrispondente dell’agenzia PAP girò mezzo mondo
scrivendo di guerre, rivoluzioni e colpi di stato, dall’Angola al
Guatemala.
«Kapuściński si
definiva prima di tutto uno scrittore, un poeta. – racconta
Cataluccio – Per me lui è stato un grande maestro. L’ho
conosciuto quando lavoravo alla Feltrinelli, fu uno degli autori
polacchi che proposi di pubblicare. Veniva spesso in Italia, e
diventammo amici. Da lui ho imparato a guardare il mondo con
curiosità. Quando si è giovani si è curiosi, ma a intermittenza, e
inoltre si è poco tolleranti, si crede di saper tutto, e pertanto ci
si approccia alla realtà in un modo dogmatico. Invece bisogna essere
curiosi senza preconcetti, in modo da cogliere la realtà in tutta la
sua ricchezza e complessità.»
Quando parla di Polonia e
dei suoi amici polacchi, Cataluccio parla con entusiasmo e trasporto
contagiosi. Ricorda gli anni passati a Varsavia, quel primo freddo
inverno del 1977, e la scoperta di una città dove si trovava “come
un topo nel formaggio”, e dove ancora oggi si trova come a casa.
«Mi sono laureato in filosofia in Italia, ho avuto degli insegnati
straordinari. Ma poi sono andato in Polonia, ed è stata quella la
mia vera università.» Definisce la nazione centroeuropea «il
paradiso delle contraddizioni. Là si può trovare davvero tutto e il
contrario di tutto. Non a caso il francese Jarry, autore di quel
testo capostipite del teatro dell’assurdo che è Ubu re,
scrisse che la sua opera era ambientata in un luogo assurdo, cioè la
Polonia. E in effetti quando vivevo lì, nelle lettere che scrivevo
ad amici e familiari cercando di descrivere il mondo in cui mi
trovavo, dicevo che se un giorno fossi uscito per strada e avessi
visto un tram cominciare a volare, non mi sarei stupito. È un posto
dove non ci si deve stupire di niente».
È un paese fragile, la
Polonia. Dove la storia «ha picchiato forte. Non a caso i polacchi
sono malati di storia, a Varsavia ogni dieci metri c’è una targa,
e si continuano a costruire musei. Le ferite lasciate lì dalla
Seconda Guerra Mondiale sono inimmaginabili. L’Olocausto ha
spazzato via quasi il 10% della popolazione. E la durezza della
guerra spiega anche perché la gente, dopo il 1945, non volle aprire
un nuovo fronte contro i sovietici, e si rassegnò al comunismo».
Cataluccio cita Norman
Davies, autore di God’s Playground” (Oxford University
Press), uno studio sulla storia polacca tanto corposo quanto
insuperato. «Al centro del continente, la Polonia si è trovata
schiacciata tra mondi diversi: la Russia, l’Austria, la
Prussia/Germania. Paese variegato, dove per secoli hanno convissuto
cattolici, protestanti, ebrei e ortodossi, nel 1600 si estendeva dal
Mar Baltico al Mar Nero, e meritava davvero l’appellativo di Grande
Polonia. Tutta questa eterogeneità era foriera di scontri, lutti, di
una debolezza di cui i vicini si approfittavano. Ma anche di una
grande vivacità e ricchezza culturale».
Se la Polonia del XVI
secolo (o meglio: la Confederazione polacco-lituana) poteva essere
definita “asilo degli eretici” per la sua tolleranza religiosa in
un’era di guerre confessionali, quella contemporanea non
rappresenta certo un modello per il resto del mondo. Come altri paesi
europei, è invece scossa da ondate populiste e fremiti xenofobi. «Ce
lo insegna un pensatore polacco, Zygmunt Bauman: si tratta di
fenomeni connaturati con la modernità, sono le sue scorie, i suoi
residui».
La barbarie della guerra
prima e i rigori del comunismo poi, spinsero molti intellettuali a
riparare all’estero. Una diaspora che impoverì la Polonia, ma
infuse nuova linfa a tutto il pensiero occidentale. «Pensi, quando
l’Einaudi, in risposta alla Garzanti, mise in cantiere la sua
Enciclopedia, un’impresa che fu una catastrofe dal punto di
vista editoriale ma ebbe un grandissimo rilievo culturale, si dotò
di un comitato scientifico e di un parco di collaboratori
internazionale, all’altezza della sfida. E la cosa interessante è
che un terzo di costoro erano polacchi. La voce “Tempo”, per
esempio, la fece Pomian, un filosofo polacco emigrato in Francia;
alla voce “Povertà” lavorò Geremek, e così via…».
Il ritorno alla
democrazia ha dato nuovo slancio alla cultura polacca. Che può
contare su un pubblico attento. «I polacchi sono gente istruita,
acculturata, che legge libri, va al cinema e al teatro. Ed è questa
una delle maggiori risorse della Polonia contemporanea: la sua
forza-lavoro preparata, ben istruita. Retaggio, pure, del sistema
educativo comunista: una delle poche, pochissime luci di un regime
con molte ombre».
Per Cataluccio è
difficile sottovalutare l’importanza della scuola, e della cultura.
Che «deve sempre essere critica, mai conferma dell’esistente.
L’intellettuale non deve solo trasmettere il sapere, deve spaccare
il capello in quattro. Quando il sole splende, deve ricordare che poi
tramonterà. Il suo primo compito è essere critico». E oggi essere
critici significa riconoscere l’immaturità che dilaga, a tutti i
livelli, nella nostra società. «La nostra cultura occidentale è
ormai fondata sull’imperativo di apparire giovani, fare i giovani,
pensare da giovani. La gioventù è sempre un valore, la vecchiaia un
disvalore. Pensiamo soltanto all’ubiquità della chirurgia
estetica. I messaggi che anche i media veicolano sono tutti contrari
alla maturità. Lo aveva capito, tempo fa, Witold Gombrowicz. Lui,
che pure era innamorato della bellezza della gioventù, aveva
inquadrato la pericolosità di questo fenomeno, il mito del
non-crescere».
E proprio Immaturità
è il titolo di un saggio che Cataluccio ha pubblicato con Einaudi
nel 2004. Questa “malattia del nostro tempo” ci ha trasformato in
Peter Pan che inseguono la libertà a tutti i costi, pronti a
scansare ogni responsabilità, si chiami essa “matrimonio”,
“figli” e così via. «Un altro Peter Pan, legato però alla
Polonia, è Oskar Matzerath, protagonista del Tamburo di latta
di Günter Grass. Oskar vive a Danzica, nel periodo tra le due
guerre, e poiché è disgustato dal mondo degli adulti, che è brutto
e pieno di ipocrisie, decide di non crescere».
Se però gli si obietta
che molti giovani italiani “si rifiutano” di crescere non per
loro colpa, ma perché la situazione economica e sociale è quella
che è, Cataluccio annuisce: «Dietro il giovanilismo imperante si
cela la gerontocrazia. Ma non è tanto un problema generazionale,
quanto culturale. In Italia domina ancora la logica del clan, del
familismo amorale. Siamo diventati un paese ingiusto e immobile, di
rentier, di gente che preferisce fare i soldi affittando case
piuttosto che lavorando».
Un insegnamento del
grande storico Witold Kula, maestro di Bronisław Geremek, aiuta a
capirne di più. «Lui era uno storico del feudalesimo, e riteneva
che non si potesse fare storia senza un modello, senza elaborare
delle leggi. Nel suo libro Teoria economica del sistema feudale,
edito qui in Italia da Einaudi, enunciava una legge di cui spesso gli
storici non tengono conto: la caparbietà con cui gli esseri umani
cercano di mantenere il loro status. Se si tratta di migliorare la
propria condizione sono tutti disponibili, ma nel caso opposto le
cose cambiano».
Cosa ci potrà salvare,
dunque? La risposta, insiste Cataluccio, si chiama scuola, cultura,
scienza, arte. «Un ingegnere che conosce Euripide è migliore di un
ingegnere che non lo conosce. Così come un letterato che padroneggia
la matematica è migliore di uno che non ne sa nulla. In Italia,
purtroppo, scontiamo proprio questo. – spiega, e cita l’esempio
della casa editrice Bollati Boringhieri, che ha diretto. «Il suo
fondatore, Paolo Boringhieri, aveva un obiettivo preciso: sbarazzarsi
di quest’idea crociana nefasta che la cultura scientifica sia
cultura di serie B. In Italia uno può vantarsi di non capire nulla
di matematica. Negli ultimi decenni la nostra cultura ha avuto questo
handicap, ma non è stato sempre così: ancora ai primi del
Novecento, ad esempio, la facoltà di matematica e fisica di Palermo
era una tra le più importanti del mondo. Abbiamo avuto fior fior di
matematici, in passato, ma oggi il nostro sistema scolastico non sa
più insegnare la matematica. E non dà neanche importanza alla
musica, all’arte…».
“Pagina 99”, 15 marzo
2014
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